“La scuola esiste per insegnare che Beethoven non può appartenere solo alle classi dominanti”. In questa frase, ha scritto Luc Cedelle su Le Monde, si racchiude la visione educativa di Georges Snyders, morto il 27 settembre a 94 anni.
Sopravvissuto alla deportazione ad Auschwitz, era entrato nel Partito comunista francese, ne era uscito nel 1956 protestando contro la repressione sovietica della rivolta ungherese, ed era rientrato nel 1974 spiegando: “O questo o il niente, e io non voglio stare nel niente, ma dalla parte di chi lotta contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Quello stesso anno aveva pubblicato un’analisi attenta e critica delle pedagogie non direttive (tradotta l’anno dopo dagli Editori Riuniti). La scuola ideale di Snyders è una scuola che guardi in faccia le disparità sociali degli allievi e sappia compiere la grande fatica di dare a tutti, non solo a chi eredita un “capitale culturale” di famiglia, la gioia (sua parola preferita) di vincere la noia che si rischia di provare a scuola. Questa noia minaccia “gli anni più belli della vita” di ragazze e ragazzi.
La si vince se chi insegna sa portare tutti a conoscere e comprendere i capolavori del pensiero umano: i capolavori delle tecniche, delle scienze, della storia, della geografia, della letteratura, della musica, ha precisato puntigliosamente Snyders nell’affollata conferenza che ha tenuto per il suo ultimo compleanno, il 30 aprile, nella sede del Partito comunista francese.
Internazionale, numero 921, 28 ottobre 2011
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