Nell’ultimo quarto del novecento teorie, studi ed esperienze di Mahbub ul Haq e Amartya Sen portarono a elaborare l’Hdi (Human development index), adottato dal 1993 dalle Nazioni Unite. Per l’Hdi (Isu, in sigla italiana) lo sviluppo di un paese è misurato non solo dal reddito e dalla sua distribuzione, ma anche dalla salute e dai livelli d’istruzione. Negli anni duemila, partendo dall’Isu sono stati elaborati indicatori più analitici per misurare e valutare lo sviluppo. Su questa strada Istat e Cnel associati hanno prodotto il rapporto Bes 2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia.
Tra i diversi indicatori il rapporto dà ampio spazio a livelli formali d’istruzione, capacità alfanumeriche degli studenti (dal 2013 l’Ocse ci darà misure anche per gli adulti), lettura di quotidiani e libri, competenze informatiche: facce adiacenti nel poliedro della cultura d’un paese. Mancano però all’appello il grado di convergenza delle singole popolazioni verso l’uso della propria lingua comune e il grado di possesso delle grandi lingue internazionali.
Per quest’ultimo indicatore i dati italiani Istat di qualche anno fa e i più recenti dati internazionali di Eurobarometro, di cui qui spesso si è detto, illustrano per l’Italia il malessere di una molto povera competenza in lingue straniere: un diffuso rifiuto, quasi una “paura”, secondo
Language rich Europe, un rapporto promosso dal British Council e curato da Guus Extra e Kutlay Yagmur. Una fonte preziosa, come torneremo a vedere.
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