Negli Stati Uniti Dana Kelly e Holly Xie del National center for education statistics hanno pubblicato con rapidità un eccellente “primo sguardo” ai dati del Pisa (Programme for international student assessment) del 2012, resi noti dall’Ocse lo scorso 3 dicembre.

I risultati dei quindicenni statunitensi continuano a non essere brillanti nel confronto internazionale: le punte di eccellenza di alcune università poggiano su una piattaforma di livello mediocre. La discussione rimbalza sui quotidiani e, paese per paese, un po’ in tutto il mondo con interventi spesso di buona qualità (anche qua e là in Italia). Si abbandona finalmente l’ottica del compiacimento o del lamento per la collocazione del paese nelle classifiche e si sfruttano i dati Pisa per capire cosa sta succedendo nei sistemi scolastici.

In alcuni commenti (ne danno conto Eurotopics e La toile di Le Monde del 4 dicembre) comincia ad affiorare la consapevolezza che alla base del rendimento degli alunni non c’è solo la scuola che li ospita, ma anche la società in cui la scuola opera e le politiche scolastiche di governi e classi dirigenti.

Meno chiaro è che queste politiche, se ci sono e se tengono conto del Pisa, difficilmente agiscono come bacchette magiche su sistemi complessi e inerziali come le scuole. Sono necessari tempi lunghi, azioni coerenti e durevoli per ottenere risultati positivi. Specie là dove di durevole c’è stata e c’è solo la disattenzione del ceto dirigente per la scuola e la cultura di cui la scuola è parte.

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