Tre giorni di stupore puro a Mumbai
Salgo sull’aereo con una vocina che mi rimbomba in testa: l’India, il tuo paese d’origine, fratello! Vedrai che fico che sarà! Mi immergo così nella cultura locale e decido di mangiare le specialità tradizionali che mi offrono. Dopo meno di mezz’ora ricevo un’indicazione chiarissima da parte del mio stomaco: ho sopravvalutato il contributo del patrimonio genetico dei miei avi.
Dopo un paio d’ore mi convinco del fatto che l’India è il paese dei miei nemici e non dei miei antenati. Passo una notte meravigliosa, che probabilmente susciterebbe l’invidia di tante modelle con un robusto appetito ma con un metabolismo molto lento. Con lo stomaco completamente vuoto, batto il record di fughe al bagno e rifletto serenamente sulla possibilità di morire.
L’atterraggio va liscio. A un certo punto mi faccio l’idea che atterreremo direttamente su un quartiere di baracche, ma poi, all’ultimo istante, il pilota riesce a mandare a monte le mie previsioni, facendo fallire tutti i miei progetti di reincarnazione. L’aeroporto ha un aspetto splendido solo per chi sa apprezzare la bellezza della stazione di Buhuși all’arrivo dell’accelerato da Buzau.
Stare a Mumbai è come stare in mezzo a cinquanta file di quelle che si facevano ai tempi di Ceaușescu
È l’inizio di gennaio, ma a Mumbai c’è la madre di tutte le canicole. Siamo incolonnati in una coda lunghissima e, quando riesco a uscire dall’aeroporto, mi sento pieno di speranza. Non c’è nessuna differenza di temperatura tra l’interno e l’esterno, perciò continuo a sudare copiosamente insieme a quel mezzo milione di indiani che si muove intorno a me.
Stare a Mumbai è come stare in mezzo a cinquanta file di quelle che si facevano ai tempi del comunismo di Ceaușescu per comprare le salsicce. Salgo su un tuc tuc e rapidamente ricominciano i pensieri sulla reincarnazione. Ho una rivelazione e comprendo perché Budda è così popolare: o il mio autista è convinto che esistano altre vite dopo quella terrena o è l’ultimo modello di kamikaze indiano.
Dappertutto è pieno di gente ed è difficile distinguere tra strada e marciapiede. Arriviamo in un albergo di lusso. Accendo la tv e, nonostante ci siano cento canali, a me sembra di vederne uno solo. Tutti trasmettono esclusivamente film, e tutti i film hanno la stessa struttura: il buono, il cattivo e la bella ragazza. Ogni due dialoghi comincia un ballo di gruppo che si conclude con i ballerini che si strappano la camicia. Anche le scazzottate avvengono a passo di danza.
Fuori c’è un caos totale. Sembra di essere all’uscita dello stadio dopo una partita della nazionale romena ai tempi di Gheorghe Hagi. Migliaia di uomini, uno accanto all’altro, si muovono in modo disordinato, vendono ogni genere di cosa, strillano, suonano il clacson, si lavano e vanno al bagno. Andare al bagno significa andare in uno spiazzo di cemento, una specie di parcheggio di grandi dimensioni, e fare i propri bisogni. La produzione giornaliera è raccolta il giorno dopo in modo artigianale. Sono parecchio contento di avere un bagno privato nella mia stanza d’albergo e decido così di esplorare i dintorni.
Ho una fame terribile. Ignoro tutti i consigli ricevuti dal ragazzo della reception ed entro nel primo ristorante che incontro. Non c’è nulla con la carne, nonostante sul menù ci sia una quarantina di piatti. Il cibo è meraviglioso: ha un buonissimo profumo, un ottimo aspetto e un gusto all’altezza. Nelle due settimane successive mangio solo per strada, soprattutto per sfidare il mio stomaco. E dopo qualche giorno anche lui sospende le azioni di guerriglia e decide di sostenermi nelle mie esplorazioni culinarie.
Non ho mai mangiato così bene per così tanti giorni di fila. Mi capita un solo incidente. Ordino un curry, il cameriere mi chiede qualcosa che non capisco e io rispondo muovendo elegantemente la testa in segno di diniego. Ma in India il movimento che ho fatto vuol dire sì, e il cameriere comincia a mescolare con le mani il riso alla salsa. Le sue mani non mi sembrano affatto pulite, così scelgo di ordinare qualcos’altro.
Stupore continuo
Non faccio che andare in giro a passeggiare come un pazzo per tutto il giorno e vedo un sacco di cose meravigliose. A un incrocio decido di tagliarmi i capelli intorno alla pelata. Con un po’ più di un euro esco dal barbiere con i capelli tagliati e il miglior massaggio alla testa mai ricevuto. Anzi, a essere precisi, l’unico mai ricevuto. Oltre alle dita che mi infila nelle orecchie, e che spero abbia ammorbidito con l’olio e non mettendosele in bocca, al picchiettio sulla testa e a una successione di schiaffetti sulla pelata, non ho altre sorprese.
Qualche via più avanti c’è un dentista che cava un molare a un tizio in mezzo alla strada. Ha un astuccio con dei denti veri in bella mostra posato davanti al tappeto sul quale riceve i pazienti. Una mucca attraversa placidamente la strada bloccando la circolazione. Arrivo senza volerlo al mercato delle sete, il posto più impressionante che visito: migliaia, addirittura decine di migliaia di modelli di sete, in tutte le combinazioni possibili di colori, a dei prezzi che mi fanno venire voglia di aprire una ditta di import-export e lasciare il mio lavoro di funzionario europeo a Bruxelles.
La maggior parte degli annunci che vedo per strada pubblicizza lo sbiancamento della pelle. In tutte le pubblicità si vedono indiani del mio stesso colore, o perfino più bianchi, che non somigliano affatto al 99,9 per cento di quelli che vedo per strada. Passo i giorni successivi in uno stato di stupore continuo. Ogni cosa immaginabile è in vendita, a ogni ora del giorno e della notte. Solo verso le tre del mattino si placa il rumorio ininterrotto causato dalle centinaia di migliaia di persone che si trovano per strada e riesco a sentire i clacson delle carriole a motore che funzionano da taxi.
Lascio l’India per certi versi intristito e convinto che mi servirebbe qualche anno per poter capire qualcosa
Rimango tre giorni e due notti nel più grande slum di Mumbai. La densità di popolazione è elevatissima, e ogni istante succede qualcosa. Imparo un sacco di cose e capisco che ho bisogno di rivedere seriamente le mie opinioni sulle difficoltà della vita in Romania. Le persone giocano con gli aquiloni. E il cielo del tramonto pieno di aquiloni rimane tra le più belle immagini custodite dalla mia mente.
Faccio un sacco di massaggi e cerco di vedere più cose possibili. Il viaggio in treno è meraviglioso e mi ricorda i viaggi in autobus nella Romania degli anni ottanta. Sul tetto del treno hanno trovato posto decine di persone e altre viaggiano aggrappate fuori dalle porte. Sono schiacciato in mezzo ai passeggeri e capisco che con questo caldo stare aggrappati all’esterno può essere la soluzione migliore.
Lascio l’India per certi versi intristito e convinto che mi servirebbe qualche anno per poter capire qualcosa. Ci metterò più di un mese a riabituarmi al cibo inodore e insapore del Belgio. E non ho più nessun dubbio sul fatto che sono romeno quanto più non potrei, esattamente come ogni altro rom del mio paese.
(Traduzione di Mihaela Topala)
Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.