Lo zingaro più amato della Georgia
Secondo una leggenda che gira in famiglia, Marin, figlio di Miţa, la sorella di mia madre, avrebbe suonato con i Phoenix, il più importante gruppo rock romeno. Non ho la più pallida idea se sia vero oppure no, ma una cosa è certa: Marin suonava la chitarra in modo straordinario. Ed era quasi altrettanto bravo a ubriacarsi.
Tuttavia, considerato che in fatto di alcol gli zii Ghica e Gigilică Bouroşu erano ai livelli di Hendrix e Segovia, e che anche mio padre e Gogu lo superavano di gran lunga, il talento per le ubriacature di Marin non era apprezzato a dovere, almeno non nella cerchia del nostro famiglione.
Nonostante mostrasse delle potenzialità innegabili, il fegato di Marin non era una cooperativa e, privato sadicamente dell’acqua, ha deciso di ritirarsi dall’attività. Insieme a Marin. In un gesto naturale di solidarietà – il sindacato degli ubriaconi si è dimostrato, credo, l’istituzione più affidabile e solidale – Ghica, mio padre e Gogu, che erano molto più anziani, lo hanno seguito relativamente presto sui sentieri dell’eterna pace etilica.
Gigilică, invece, il fegato sembra non averlo: non c’è altro modo per spiegare la sua salute impeccabile.
Marin aveva provato più volte a insegnarmi a cantare. Non ho mai capito questi suoi faticosi tentativi e ho sempre rifiutato testardamente di integrarmi in quel coro multietnico (Bouroşu, infatti, è di puro lignaggio romeno, come dice il nome stesso, e non fa parte della nostra stirpe). Ma sto divagando.
Un incontro fortunato
Sono in Georgia. È un paese davvero bello, ma anche parecchio povero. Non parlo di Tbilisi, da dove scrivo, ma dei suoi dintorni, dove la situazione è disastrosa. Alloggio all’hotel Diplomat, un edifico fatiscente che rispecchia brillantemente lo stato della diplomazia mondiale. Mi addormento morto di stanchezza dopo aver dato il mio contributo nei ghetti di Kutaisi e della capitale, dove ho comunicato mescolando il mio romanì maccheronico, le quaranta o cinquanta parole che conosco in russo e un po’ di “moldavo”. In Georgia ci sono ancora migliaia di rom, nati nel paese, che parlano il moldavo di Chişinău e hanno nonni in Romania.
Poi comincio a sognare: Marin, che parlava con l’accento moldavo di Piatra Neamţ, mi tormenta per farmi cantare insieme a lui, Gogu, Ghica e uno dei “moldavi” di Georgia con cui ho parlato durante la giornata. Dobbiamo intonare Katjuša, e a me la cosa non va per niente. È una Katjuša un po’ strampalata e quasi biascicata. Ma mi fa piacere rivedere i miei vecchi zii, sia pure in sogno, così cedo e mi metto anch’io a ruggire insieme a loro. Grido così forte che mi sveglio. E sento davvero qualcuno che canta Katjuša. Non è Marin, perché non c’è una chitarra ad accompagnarlo.
Guardo dalla finestra e capisco tutto: per strada, a due metri da me, ci sono quattro georgiani che, quasi per vendetta, storpiano con entusiasmo questa perla della cultura russa. Storpiare è un eufemismo. Muggiscono e vomitano maldicenze, ognuno seguendo una linea melodica diversa e in spregio al senso dell’udito. Se avessero fatto così quando sono stati invasi, nel 2008, le cose sarebbero andate sicuramente in modo diverso. Se potessi mi spaccherei i timpani da solo. Per qualche minuto sono tentato dal suicidio.
Vado su tutte le furie. Chiamo la reception. Non faccio in tempo ad aprire bocca che la receptionist mi dà una sintetica spiegazione dell’evento in un inglese orribile. Mi dice che sono straniero e che non capisco. Che non c’è niente d’insolito e che i tizi andranno via presto perché fuori fa un freddo cane. E che anche altri ospiti dell’albergo hanno chiamato per protestare. Se la receptionist di un albergo che si chiama Diplomat parla in questo modo – penso tra me e me – non c’è da stupirsi che i georgiani siano stati abbandonati anche da quelli che avrebbero dovuto aiutarli a difendersi dall’Orso russo.
I cantanti hanno un repertorio di sei canzoni in totale. Canzoni per modo di dire, visto che sembrano esorcismi
Mi astengo dal dirglielo temendo che, arrabbiata com’è, possa venire a prendermi a botte. È una donna imponente e decido di essere insolitamente rispettoso: mi limito a qualche insulto indirizzato alla madre, dettagliato e proferito con cura, ovviamente in romeno, e le attacco eroicamente il telefono in faccia. Poi mi chiudo in camera per sicurezza. È mezzanotte e dieci. Alle 2:30 sono un’altra persona.
I cantanti hanno un repertorio di sei canzoni in totale. Canzoni per modo di dire, visto che alle persone come noi, a cui l’alcol non ha fatto perdere un qualche senso dell’udito, sembrano piuttosto esorcismi. Katjuša ritorna ogni quindici minuti. Non resisto e mi metto a cantare insieme a loro dalla finestra. E divento lo zingaro più amato della Georgia. Continuano a chiamarmi per cantare. Sento di essermi vendicato nei confronti della bestiaccia alla reception.
Ispirato da un vecchio slogan romeno, gli insegno – elegantemente – a urlare “Succhialo Putin!”. Sono euforico, tutti i corsi fatti per imparare a esercitare la leadership stanno dando i loro frutti. In tutto il quartiere si sente cantare: “Succhialooooo Puuuuuuuutiiin!”.
Un ristorante nel seminterrato
Dormo profondamente. Fino a un po’ prima delle 8:30, quando ho appuntamento con un importante funzionario del Consiglio d’Europa a Tbilisi, un italiano altezzoso.
Siedo insieme a lui al tavolo di un ristorante. La bestiaccia, che è parecchio bellina ma davvero enorme, ci porta da mangiare e mi lancia un sorriso a 360 gradi. Con diplomatico pragmatismo penso che dovrei esimermi dal mangiare e lasciarlo fare all’italiano.
Arriva un tizio con occhi rossi grandi quanto due cipolle e un fisico da rugbista che mi sembra familiare. Da come mette la mano sul sedere della bestiaccia capisco che è il suo uomo. In quella vanga che si ritrova al posto della mano sinistra tiene due bicchieri pieni di grappa. Toglie l’altra mano dal sedere della donna e sbatte un bicchiere sul nostro tavolo. Mi bacia sulla guancia, mi dà una pacca sulla spalla, quasi slogandomela, mi guarda ridendo e dice: “Suchialoooo Putin!”.
Gradisco.
Beviamo. Io e lui. E gridiamo: “Succhialooooo Putin!”.
L’italiano mi guardo come se gli fosse preso un colpo apoplettico. Non vedo l’ora di tornare in Georgia.
P.S. Vicino all’albergo Diplomat c’è un ristorante, nel seminterrato di un edificio. Si chiama Il leone nero ed è sensazionale. Se appena entrati dite “Succhialo Putin!” può darsi che, come me, mangerete gratis.
(Traduzione di Mihaela Topala)
Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.