Ogni tanto mia madre crollava. Succedeva più o meno ogni due anni. Mia madre è una tempesta di donna anche oggi, a ottant’anni. Da giovane era una forza della natura, estremamente indaffarata tutto il tempo. Si svegliava alle cinque per stirare e per prepararci tutto quello di cui avevamo bisogno. Alle sei usciva di casa per andare al lavoro. Non tornava mai prima delle cinque di pomeriggio e continuava a lavorare senza sosta fino alle nove e mezza di sera. La domenica era lo stesso, solo che lavorava in casa.

Eravamo tutti terrorizzati in sua presenza. E ci nascondevamo per evitare di finire coinvolti nel turbinio delle faccende domestiche. Per lei, stare senza far niente era grave quasi quanto la blasfemia o gli alcolici che mio padre nascondeva per casa.
Eravamo abituati a vivere nella frenesia della mamma, a muoverci secondo la sua volontà. E accettavamo l’idea che fosse normale ridipingere almeno due volte all’anno la cucina e una volta l’intera la casa.

Durante l’estate una parte delle sue ferie, cioè due settimane, la passavamo così. Per mia madre era l’operazione “casa linda”, per noialtri l’inevitabile incubo annuale, a cui non c’era via di scampo.

Litigi energetici
Quando litigavamo, non c’era alcuna possibilità di averla vinta, e non solo perché era dotata di smisurate capacità diaboliche – come del resto tutte le donne della nostra famiglia che si rispettino, cioè che abbiano sposato uomini dediti all’alcol – ma anche perché aveva troppa energia, che sembrava essere alimentata da ogni litigio. Energia che spesso la portava a impugnare il matterello e a usarlo per far nero il mio povero sedere.

Di domenica, mia madre lavava tutti i pavimenti della casa, più le scale del condominio e, se c’era tempo, il gatto, il cane e l’ubriacone che aveva sposato e che di solito giaceva moribondo da qualche parte. Sbatteva i tappeti, faceva il bucato, inamidava i vestiti, li stendeva, preparava da mangiare per metà palazzo e per la zia Ani, che in cucina era un disastro: in questo modo mia madre sperava di salvarla dalle botte di zio Gogu.

Mia madre, che è stata una bella donna, è stata deturpata dal razzismo dell’idiota che ha sposato e dalla vita di tutti i giorni

Poi faceva i compiti con me, faceva la predica a mio padre ogni volta che trovava bottiglie di alcol nascoste in qualche angolo dell’appartamento, cambiava i letti, pettinava le frange di tutti i tappeti, spolverava i mobili dopo averli spostati, riordinava i ninnoli, la dispensa e ogni altra cosa che non era sistemata secondo lo spirito demoniaco che la animava in quella particolare giornata. Cucinava, metteva le verdure sott’aceto, organizzava matrimoni, spettegolava e leggeva cose utili per il suo lavoro.

Ma ogni tanto si fermava. E diventava triste e malinconica. Mia madre, che è stata una bella donna, è stata deturpata dal razzismo dell’idiota che ha sposato e dalla vita di tutti i giorni. Aveva le qualità per fare quello che avrebbe desiderato, ma è stata costretta a lavorare dall’età di sedici anni. Ha dovuto cavarsela da sola in un mondo per niente benevolo nei confronti di una ragazzina zingara.

Quando mia madre smetteva di funzionare, tutti i grilli che avevo per la testa scomparivano. Erano gli unici momenti in cui non progettavo di scalare il palazzo di sette piani arrampicandomi sui balconi, di spaccare le finestre al nostro vicino di casa Tiripoi, di far colpo sulla principessa bionda dei miei sogni, di lanciarmi dalla finestra con l’enorme ombrello della signora Condoiu, di andare a rubare ciliegie o di dedicarmi ad altri divertimenti.

Interruttore spento
Ero spaventato. La sospensione del vortice di attività che di solito avvolgeva la nostra casa lasciava un vuoto enorme e non sapevo come comportarmi. Cercavo di far divertire mia madre mettendomi a cantare. O meglio cercando di ruggire qualcosa, perché nel mio caso cantare è una parola grossa. Mi guardava come se non ci fossi e mi pregava di lasciarla un po’ sola.

Piangeva di nascosto. Per non farsi vedere da noi, dai suoi figli, e soprattutto per non farsi vedere da quella sciagura di uomo che aveva come marito. La madre di acciaio, la donna che con il suo metro e 42 di altezza era capace di mettere in riga tutti gli uomini della famiglia, che brandiva la paletta di ferro della spazzatura meglio di come Stefano il grande impugnava la spada, mia madre, sprovvista di un interruttore per fermarsi, spariva e si nascondeva nella sua stanza.

Poi succedeva sempre qualcosa che la rimetteva in moto. Uno dei tanti ubriaconi del palazzo si rompeva qualche osso, oppure si ammalava un bambino e bisognava fargli le punture ogni sei ore. Magari veniva a stare da noi qualche donna aggredita dal marito, oppure zio Gogu dava di matto, o ancora veniva a trovarci un parente i difficoltà: ne avevamo a decine.

Per riprendersi ci metteva qualche giorno. La osservavo mentre si sforzava di dimenticare e tornare ai suoi ritmi, che sarebbero stati impossibili per chiunque altro. Solitamente succedeva all’inizio dell’anno.

Alla Casa buna, dove ci occupiamo di bambini in difficoltà, sono molto felice. Intorno a me c’è gente straordinaria e ogni tanto mi sembra di vivere in un sogno. Ma anche queste persone a tratti crollano dalla stanchezza. Proprio qualche giorno fa mi sono sorpreso a cercare di cantare per uno di loro.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.

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