“Ho un ricordo fotografico di quel giorno. Ero conduttore del treno. Bigliettaio. Dovevo essere di turno a Cremona ma mi spostarono a Bologna. Tutti i treni erano in ritardo. Alle 10.24 ero vicino alla sala d’aspetto. Il capotreno fischia. La bomba esplode. Poi un silenzio irreale”.–Dalla testimonianza di Roberto Castaldo, ferroviere
L’ultima immagine che abbiamo della stazione di Bologna intatta, il 2 agosto 1980, è un’immagine amatoriale: l’ha girata un turista, si chiama Harald Polzer. Viaggia sull’Adria express che viene da Rimini e dal finestrino riprende l’arrivo sul primo binario. L’orologio segna le 10.14. Immagini sgranate, un normale sabato di inizio ferie, nello snodo ferroviario più grande d’Italia. Poi, alle 10.25, solo undici minuti dopo, tutto salta in aria. Anche i treni fermi sono investiti dall’onda d’urto dell’esplosione, così i taxi che aspettano sul piazzale antistante la stazione. È una carneficina. I feriti sono più di duecento, i morti 85.
Stefano Ragazzi ed Enzo Cicco, operatori di un’emittente locale, sono i primi a girare le immagini che oggi tutti ricordiamo: il rumore delle sirene, i civili a sollevare travi, a scoprire brandelli di abiti intrisi di sangue, le voci “una cosa bestiale”, “è morto, è morto”. Una donna, dal vestito lilla, giace a terra, sopra di lei il volto allucinato dell’uomo che ne accerta la morte. E poi macerie, rumore di passi sulle macerie. Alle 10.27 arrivano i primi medici. Gli autobus di linea diventano improvvisate ambulanze, il 37 un carro funebre.
I due operatori filmano i particolari, i loro occhi non riescono a staccarsi da terra, manca lo sguardo d’insieme: l’ala ovest della stazione crollata, l’edificio simmetrico sventrato nel lato sinistro. Alle 12 la prima edizione speciale del telegiornale nazionale. Il ministro dell’interno, Virginio Rognoni, parla di un’esplosione accidentale, i notiziari diffondono l’ipotesi di una caldaia, la parola più usata da radio e tv è “sciagura”. Ma le interviste a chi era in stazione parlano dell’odore di polvere da sparo, di un attentato. Alle 17.30 arriva il presidente della repubblica Sandro Pertini: il volto di pietra, la voce rotta dalle lacrime dopo aver visto i bambini straziati dall’esplosione, rimane un’icona dolente del 2 agosto nella memoria pubblica degli italiani. Il giornalista Italo Moretti, intervistando il prefetto di Bologna, pronuncia la parola bomba. Un manifestazione improvvisata di fronte alla stazione denuncia il legame fra la sentenza dell’Italicus, depositata il giorno prima proprio a Bologna, e la strage.
Per le 20.30 la stazione ha ripreso a funzionare. Le telecamere della Rai immortalano l’assurdo contrasto fra le comitive che partono per le vacanze e chi ancora scava fra le macerie. Immagini che sono ancora oggi il simbolo chiaro di chi la strage vuole colpire: persone comuni, nel primo fine settimana dell’esodo estivo. Sono ancora una volta le telecamere della tv di stato che fotografano il momento nel quale, alle 23.30, si scopre il luogo preciso in cui è avvenuta l’esplosione. Voci concitate affermano: “Abbiamo visto che ha rotto il battuto in cemento è stato studiato per cadere tutto all’interno super raffinato fatto da tecnici raffinatissimi”. La deflagrazione è stata innescata da una bomba collocata nella sala d’aspetto di seconda classe, sopra la quale si trovano gli uffici dell’azienda che gestisce i servizi di ristorazione dello stabile, la Cigar. Alle 2 della notte del 3 agosto l’inviato della Rai, Bruno Vespa, pronuncia di nuovo la parola bomba, e annuncia il rinvenimento dell’ultima vittima estratta dalle macerie.
I processi
Nessuno sembra avere dubbi, l’arco costituzionale è compatto nell’indicare in attori interni i responsabili della strage. La firma, si dice, è fascista. Il 4 agosto il presidente del consiglio, Francesco Cossiga, dichiara: “L’orribile strage di cui è ormai chiara la matrice di destra ci impegna a fare luce, a non lasciare nulla di intentato”. Solo il Partito socialista democratico italiano (Psdi), fin dal 3 agosto, in interviste radiofoniche, parla di una pista internazionale, così come Giovanni Spadolini che con altri senatori repubblicani il 4 agosto presenta un’apposita interrogazione. Un’ipotesi rilanciata da Licio Gelli e da articoli di giornale a partire dal settembre del 1980.
Da allora sono passati quarant’anni, sono stati celebrati diversi processi e quello che sappiamo è che i sospetti della prima ora si sono rivelati fondati: la strage, secondo la magistratura, è stata una strage fascista. Neofascisti gli esecutori materiali (Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, e Gilberto Cavallini, condannato con sentenza di primo grado nel gennaio 2020). Gli stessi depistaggi sono stati accertati e gli autori condannati: Licio Gelli, Pietro Musumeci, generale del Sismi (il servizio segreto italiano) legato alla P2, e poi il tenente colonnello Giuseppe Belmonte e il faccendiere Francesco Pazienza.
Tuttavia, come scrive Benedetta Tobagi, “gli esiti di questi processi sono da sempre contestati come pochi altri da un’agguerrita e variopinta pattuglia di innocentisti”. Infatti, sottolinea Miguel Gotor, “nonostante le prove raccolte abbiano superato il vaglio di oltre un centinaio di diversi magistrati, togati e popolari, e abbiano retto in tutti i gradi di giudizio oltre ogni ragionevole dubbio, ciò non è bastato ad arrestare il continuo zampillare di teorie alternative, dubbi e petizioni innocentiste. Anzi, lo ha alimentato”.
Questo sicuramente è uno dei tratti più originali della strage di Bologna: nel paese dei misteri irrisolti, delle stragi senza colpevoli, quella di Bologna è la storia paradossale di un evento ricostruito dalla magistratura nel dettaglio (al punto che si parla addirittura di una prossima scoperta dei mandanti), ma mal digerito da parte dell’opinione pubblica e tenuto a distanza dal mondo della ricerca: se si fa eccezione del libro di Cinzia Venturoli, Storia di una bomba (Castelvecchi 2020), nessuno storico si è avventurato a ragionare, con i ferri del mestieri, sulla strage di Bologna. Perché?
Tre unità di tempo
Si dirà che mancano le fonti. Ma non è così. A meno di pensare, infatti, che il compito dello storico sia quello di rispondere alla domanda “chi è stato” la storia della strage avrebbe potuto essere scritta in infiniti modi diversi. Ogni evento storico può essere letto attraverso tre unità di tempo: come momento di arrivo, come momento di partenza, come fatto in sé, da analizzare nel dettaglio come farebbe un entomologo con un ragno su una ragnatela.
Ovviamente, i tre momenti possono essere analizzati insieme, spesso servono più studiosi per restituire la doppia profondità che il passato e il futuro di uno stesso fatto disegnano. Così, per esempio, per la strage di piazza Fontana abbiamo Benedetta Tobagi che guarda davanti a sé, e Paolo Morando che torna indietro, ai mesi che precedono il dicembre 1969 (cito soltanto due dei libri pregevoli usciti nell’anno del cinquantesimo anniversario).
Su Bologna gli storici non hanno fatto niente di tutto questo, perché, per quanto riguarda le stragi, si sono fermati al 1974, anno nel quale, per convenzione storiografica, finisce la strategia della tensione (un’eccezione è rappresentata dal saggio di Miguel Gotor L’Italia del novecento). Manca per Bologna una chiave di lettura. Quella del 2 agosto appare così una strage appesa nel vuoto.
A che pro, ci si domanda, insistere con la strategia della tensione quando lo scenario internazionale è cambiato, quando anche le ultime dittature europee vengono meno, quando il Partito comunista italiano è atteso a braccia aperte nella compagine di governo, e poi, dopo il delitto Moro, è fatto fuori dalla stessa Democrazia cristiana con il preambolo. Per questo, dicono in molti, Bologna non può essere l’esito finale di un progetto eversivo che vede il suo inizio con piazza Fontana, o prima, con il convegno del 1965 all’hotel Parco dei principi.
Una sentenza appesa al vuoto
Si potrebbe allora ragionare sulla strage come momento di inizio del riflusso, degli anni ottanta, della fine del riformismo che, nato negli anni del centrosinistra arriva almeno all’istituzione del servizio sanitario nazionale: la strage come atto che chiude un decennio di rivendicazioni sindacali e scioperi, in un anno nel quale si attende un nuovo autunno caldo mentre si avrà la marcia dei quarantamila.
La strage di Bologna non è, per la storiografia italiana, un evento periodizzante: non chiude né apre niente. Sta lì. Appesa, appunto. Un aggettivo usato da Giovanni Pellegrino, ex presidente della commissione stragi, in merito alle motivazioni della sentenza: una sentenza appesa nel vuoto. Una figura autorevole, quella di Pellegrino, che in più di un’occasione ha ribadito i suoi dubbi sulla sentenza di colpevolezza nei confronti di Mambro e Fioravanti. Dubbi che nascono da quella che lui definisce una mancanza di movente. In quell’agosto del 1980 non ci sarebbe stato alcun motivo per i fascisti di tornare a mettere le bombe. Nello spazio pubblico l’opinione di Pellegrino finisce così per coincidere con quelle innocentiste, che negli anni hanno raccolto sostenitori nell’associazione E se fossero innocenti.
Solo alla tenacia dei familiari delle vittime, di Torquato Secci e di sua moglie Lidia, i primi a combattere per la verità, dobbiamo il fatto che l’attenzione su Bologna non sia mai venuta meno. Grazie a loro e alla magistratura che ancora indaga sulla strage – segnaliamo La strage alla stazione in quaranta brevi capitoli del giudice Leonardo Grassi (Clueb 2020) – e che quella chiave di lettura storiografica l’ha proposta subito. Per poi ribadirla nella sentenza del luglio 1988, che delinea uno scenario piuttosto chiaro, nel quale alla tradizionale strategia della tensione con intenti golpisti si è sostituita “una sorda e strisciante occupazione delle istituzioni dall’interno, con il conseguente progressivo svuotamento dei contenuti sostanziali dell’ordinamento e l’asfissia della costituzione materiale, destinata a essere minata nelle sue fondamenta di democrazia pluralista”. La P2, i cui elenchi sono stati scoperti nel 1981, come complice nei depistaggi attraverso il Sismi. Una chiave di lettura che nel 1980 è resa possibile dalle indagini sulla strage dell’Italicus che andavano avanti dal 1974 e che avevano già disegnato la trama (nera) entro cui anche la bomba del 2 agosto 1980 molto probabilmente si collocava.
I neofascisti e il ruolo di Gelli
Fin dagli anni sessanta a Bologna, così come in tutta l’Italia, si era ricostruito un forte movimento neofascista. Lo sapevano bene gli avvocati e i magistrati emiliani chiamati a difendere le parti offese nel primo processo per ricostituzione del partito fascista. Un giovane avvocato, Giuseppe Giampaolo, che si occupava di questi casi aveva notato qualcosa di strano: “Erano ragazzotti, ragazzotti che si difendevano molto bene nel processo. Non erano i ragazzotti dei processi normali difesi da avvocati del foro normale, questi avevano qualcuno che li finanziava ma l’abbiamo capito solo dopo, oppure c’erano fior di avvocati che venivano da tutta l’Italia che poi ho trovato nei successivi processi di eversione a difendere imputati molto più importanti”. Quando il 1 agosto 1974 esplodeva la bomba sull’Italicus, le indagini si orientavano subito verso i gruppi neofascisti, esperti di attentati sui treni. La cosiddetta cellula toscana.
Il legame con quest’ultimo episodio è anche simbolico: fino al 2 agosto 1980 la strage di Bologna è per tutti quella dell’agosto del 1974. L’allora sindaco Renato Zangheri, intervenendo durante i funerali, dice: “Lo stesso copione che ha portato alla strage del 2 agosto è stato provato sull’Italicus. La stessa città, lo stesso nodo ferroviario, gli stessi giorni delle vacanze, quando i treni e le stazioni sono affollati dalla gente che parte, forse lo stesso proposito di recitare il crimine anche sul corpo di viaggiatori stranieri, e quindi di dimostrare ad altri popoli e governi la debolezza della nostra democrazia e forse, mi inoltro nella logica aberrante di questi nostri nemici, di giustificare futuri colpi liberticidi. Che cosa si è voluto? Seminare il panico, indebolire le difese della repubblica, fino a soffocarla? Spostare l’asse politico su posizioni di cieca conservazione? O suscitare una reazione violenta, per poi, dopo averla provocata, preparare le condizioni della repressione?”.
Probabilmente tutto questo e molto più se, come sembra emergere, il ruolo di Licio Gelli non è stato solo quello di semplice comprimario (il capo della loggia P2 è stato condannato in via definitiva per “depistaggio”) ma di protagonista di primo piano, come scrive sull’Espresso Paolo Biondani: “Ora la procura generale aggrava le accuse contro i vertici della P2: Licio Gelli e il suo tesoriere Umberto Ortolani sono considerati ‘mandanti’ e ‘finanziatori’ della strage. Le nuove indagini, che devono ancora superare l’esame dei processi, disegnano una svolta storica, che ha una logica: Gelli ha depistato le indagini perché lui stesso ha pianificato la strage. D’intesa con Ortolani, il cervello finanziario della P2, accusato di aver procurato tra cinque e dieci milioni di dollari usati per finanziare i terroristi neri e comprare complicità di apparati dello stato, politici di estrema destra e servizi segreti, militari e civili. Una tesi che si fonda sull’incrocio tra le indagini sul terrorismo nero e i processi sul più grave misfatto economico dell’era P2: la bancarotta dell’Ambrosiano, la banca milanese portata al fallimento da Roberto Calvi, il banchiere piduista ucciso nel 1982 a Londra (inscenando un finto suicidio)”.
Fino al 1976 Gelli è poco noto, ma l’omicidio di Vittorio Occorsio porta alla ribalta il nome del capo della loggia massonica P2. Il magistrato ucciso il 10 luglio 1976 sta indagando sull’anonima sequestri. “Durante le indagini sull’anonima sequestri uscì fuori l’esistenza di una loggia massonica, la P2. Gli inquirenti tentarono di scoprire se vi fossero dei legami tra l’attività di questa loggia e i rapimenti romani, ma le indagini non approdarono a dati concreti. Il dott. Occorsio tuttavia non si era fermato e i suoi sospetti si erano indirizzati su l’organizzazione Ompam (Organizzazione mondiale per l’assistenza massonica) che aveva acquistato un edificio a Roma, per circa cinque miliardi di lire. L’Ompam risultava al magistrato una strana organizzazione che non aveva niente a che fare con la massoneria ufficiale e il suo segretario Licio Gelli era contemporaneamente anche il capo della loggia P2 cui apparteneva l’avv. Minghelli, legato a sua volta all’Anonima sequestri di Bergamelli”.
In un’inchiesta dell’agosto 1976 il quotidiano l’Unità mette in relazione Licio Gelli alle indagini sulla cellula terroristica aretina responsabile della strage dell’Italicus: “Vive da questi parti, per fare un esempio, anche quel Gelli indicato come il capo della ‘propaganda 2’, la loggia massonica spuria sulla quale sta indagando anche la magistratura romana a proposito delle rapine compiute dalla banda dei marsigliesi di Albert Bergamelli per le quali è finito in galera anche l’avvocato Minghelli. difensore allo stesso tempo dei banditi e di esponenti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale”.
Come ricorda Cinzia Venturoli, nel settembre 1975 il neofascista Stefano Delle Chiaie, tra i fondatori di Avanguardia nazionale e a lungo latitante in America Latina, pensando a una riunificazione dei vari tronconi di questa destra estrema, affermava la necessità di agire per “ottenere la disarticolazione del potere colpendo le cinghie di trasmissione del potere statale”.
Anche se l’attività di Delle Chiaie emergerà a pieno proprio nel processo per la strage di Bologna, il sindaco Zangheri e poi i magistrati bolognesi individuano la continuità tra vecchio e nuovo neofascismo e indicano subito la pista da seguire, una pista che risponde al senso comune di gran parte dell’opinione pubblica, della stampa e dei politici in quell’agosto del 1980, una pista che parte da piazza Fontana, passa per piazza della Loggia e San Benedetto Val di Sambro; dal processo Italicus a partire dal 1974, e dalle indagini di Vittorio Occorsio e Mario Amato a Roma fra il 1974 e il 1980. I due magistrati, assassinati rispettivamente nel 1976 e nel 1980, hanno volto lo sguardo verso l’estremismo nero mentre il paese, in un crescendo che porta al delitto Moro, è concentrato su quello rosso.
Nei dodici mesi che precedono la strage di Bologna, il terrorismo nero ha compiuto quattro omicidi solo a Roma e numerosi attentati esplosivi. Non è un fenomeno locale però. Riguarda l’intero paese, decine di gruppi e sigle, responsabili di rapine e sequestri. Eppure solo una persona indaga su questo fenomeno: Mario Amato, 43 anni, di Rovereto. Indaga dall’aprile del 1979, dopo un attentato al Campidoglio, mette in relazione una costellazione che ha i suoi legami con la criminalità organizzata ma anche preoccupanti infiltrazioni dentro la procura. Mario Amato denuncia tutto questo davanti al Consiglio superiore della magistratura (Csm): lo ammazzano il 23 giugno 1980, alla fermata dell’autobus. La procura quel giorno non gli ha mandato l’automobile per andare in ufficio.
Un obiettivo simbolico
Quando il 2 agosto scoppia la bomba nella stazione del capoluogo emiliano, la città viene immediatamente percepita come un obiettivo simbolico, si denuncia l’intenzionalità di una strage volta a colpire la capitale rossa d’Italia. Anche il processo, che si svolgerà per la prima volta nella città della strage – a differenza di quelli per piazza Fontana, piazza della Loggia eccetera – da subito individua nella scelta di Bologna un dato non casuale come invece alcuni hanno in seguito affermato (l’ex presidente Cossiga per esempio), sostenendo che la bomba sarebbe scoppiata per errore in stazione, per colpa di terroristi (italiani? libici? palestinesi?) in transito.
Malgrado tale ipotesi sia stata archiviata dopo anni di indagini, ancora oggi è alla base di ricostruzioni giornalistiche che hanno avuto e hanno larga eco sulla stampa nazionale. Come ricorda Leonardo Grassi: “La pista internazionale inizia con Gelli che la indica per primo e si riassume in tre grandi filoni: il Taranto-Milano, il tormentone Ustica Bologna e il palestinese di turno. Le piste internazionali sono state tutte accuratamente vagliate e archiviate. Io e il giudice di Ustica abbiamo fatto sempre interrogatori congiunti e non hanno portato a niente se non ad archiviazioni”.
Oggi, a quarant’anni dalla strage, Miguel Gotor, pur abbracciando la sentenza dei giudici di Bologna sulla colpevolezza dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), ricerca i motivi che portarono alla strage all’interno di uno scenario internazionale, spostando lo sguardo da Bologna alle acque agitate del Mediterraneo: “Con l’obiettivo supremo di coprire i veri committenti della strage che, secondo una serie di testimonianze convergenti altamente qualificate e coeve ai fatti, come quella del più volte ministro democristiano Giuseppe Zamberletti, dell’allora ministro dell’industria Antonio Bisaglia, del prefetto Bruno Rozera e degli stessi Pazienza e Santovito autori del depistaggio di copertura, andavano individuati nella Libia”.
Dunque una convergenza di interessi, la mano nera dei Nar, i soldi della P2 con finalità interne di destabilizzazione, la regia libica per punire l’Italia per avere bruscamente cambiato, dopo la nascita del governo Cossiga, i suoi rapporti preferenziali con la Libia in ambito energetico e politico, fino a cospirare contro la vita del leader Muammar Gheddafi.
Ma ancora una volta, al momento, malgrado un quadro indiziario e geopolitico suggestivo, si avverte la necessità di ulteriori approfondimenti su quella che sembra essere una ricostruzione che tiene insieme tutto. Aspettiamo, dunque, oltre a quello della magistratura, il lavoro degli storici, che su Bologna è ancora tutto da fare.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it