Nel 1964, quando era da poco cominciato l’embargo statunitense, il regista russo Michail Kalatozov fu incaricato da una produzione sovietico-cubana di girare un film di propaganda. Era il primo tentativo dell’Unione Sovietica di esplorare il mondo fuori dalle sue frontiere, dopo il progetto mai portato a termine di Que Viva México! di Ėjzenštejn.

Ambientato alla fine degli anni cinquanta nell’isola caraibica, il film di Kalatozov, intitolato Soy Cuba, avrebbe dovuto rappresentare l’anima del popolo cubano e la sua gloriosa lotta verso la rivoluzione.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Ideato come un kolossal, il film si rivelò un flop. Sia i russi sia i cubani disprezzarono la stilizzazione a scapito del contenuto rivoluzionario. Inoltre i cubani non si sentirono rappresentati.

Kalatozov e il suo direttore della fotografia, Sergej Urusevskij, ci regalano dei formidabili piani sequenza, carichi di sensualità e feste, in cui è difficile optare emotivamente per la denuncia degli effetti del capitalismo.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

L’amore di Kalatozov per il cinema lo porta a una libertà espressiva che trascende l’ansia pedagogica di propaganda, o meglio la devia rendendola più complessa.

Nonostante l’investimento economico, quattordici mesi di riprese, mille soldati cubani usati per girare una singola scena, il film finì presto dimenticato. Furono Martin Scorsese a Francis Ford Coppola, trent’anni dopo, a tirarlo fuori dall’oblio e decretarne il successo.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Scorsese ha detto che sarebbe stato un regista diverso se avesse visto Soy Cuba da ragazzo. Così, paradossalmente, un film di propaganda nato dall’asse sovietico-cubano contro gli Stati Uniti si è trasformato in un film da manuale che va a rimodellare il canone del cinema americano. Paul Thomas Anderson è tra i molti a pagare il suo tributo.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Quando il regista brasiliano Vicente Ferraz decise di girare Il mammuth siberiano, un documentario sulla strana parabola di Soy Cuba, contattò le persone che ci avevano lavorato e si trovò tra le mani una storia ancora più potente di quella che aveva immaginato: nessuno a Cuba aveva idea che il film fosse diventato un cult negli Stati Uniti.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

È interessante vedere come le reazioni degli intervistati rispetto al loro coinvolgimento nel film cambino radicalmente quando si rendono conto di aver contribuito a realizzare un capolavoro. La maniacalità ossessiva, snervante e incomprensibile di Kalatozov diventa di colpo il marchio di fabbrica della genialità.

Ferraz dice che il titolo del suo documentario è ispirato all’emozione che avrebbe provato un paleontologo nel rinvenire un mammut siberiano sulle spiagge caraibiche. Ma è anche la metafora di tutto ciò che si è estinto, l’Unione Sovietica e un certo modo di fare cinema.

C’è qualcosa di profetico in una delle scene più belle di Soy Cuba. Non sappiamo se è vero che siamo todos americanos, ma sicuramente tutto quello che si apprestava all’estinzione vive nel suo stesso funerale come un’immagine del futuro.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it