Alcuni operatori di organizzazioni umanitarie internazionali sono seduti con me a Dhaka, in Bangladesh. Mi parlano delle difficoltà della popolazione rohingya, in fuga dalla Birmania negli ultimi mesi: più di 650mila persone della comunità si sono rifugiate in Bangladesh a partire dal 25 agosto 2017.
I campi profughi vicini alla città di Cox’s Bazaar sono stracolmi e l’igiene è pericolosamente carente. La difterite ha già colpito ed è probabile che ci saranno altre emergenze mediche. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), metà dei profughi soffre di malnutrizione e anemia, mentre un quarto dei bambini è gravemente denutrito. Un lavoratore logistico di un’organizzazione umanitaria mi racconta che in trent’anni di questo lavoro non aveva mai visto niente del genere.
Le cose vanno peggio in Thailandia, dove è stato denunciato che un numero indefinito di profughi rohingya è stato venduto come schiavo (secondo alcune stime circa mezzo milione di schiavi lavora in vari settori dell’economia locale). Molte delle persone vendute come schiave lavorano su pescherecci, in particolare nel settore della pesca di gamberi. Si dice che il prezzo di una persona in stato di schiavitù sia oggi appena il 5 per cento di quel che si pagava nel diciannovesimo secolo. In realtà la schiavitù non comincia quando i profughi lasciano la Birmania. I funzionari dell’Onu riferiscono che nei campi dove si sono raccolti i rohingya, a Sittwe, la città portuale capitale dello stato di Rakhine, in Birmania, “i trafficanti di esseri umani sono molto attivi”.
Perché sta accadendo tutto questo
Secondo le ricerche, un quarto dei rohingya sarebbe stato espulso dalla Birmania, e sono migliaia gli sfollati interni riuniti in strutture paragonabili a campi di concentramento. Marixie Mercado dell’Unicef ne ha visitati alcuni, compresi quelli più difficili da raggiungere come Pautaw. “La prima cosa di cui ti accorgi quando entri in uno di questi campi è una puzza che dà il voltastomaco”, racconta Mercado. “Alcune parti dei campi sono letteralmente dei letamai. I rifugi sono costruiti su palafitte traballanti conficcate su immondizia ed escrementi. I bambini camminano a piedi nudi nella sporcizia. Uno dei responsabili del campo ha riferito di quattro morti tra i bambini di età compresa fra tre e dieci anni nei primi 18 giorni di dicembre”. Ci sono circa 60mila bambini in questi campi, totalmente isolati e in preda a un “profondo e contagioso terrore”, ha dichiarato Mercado.
Il 19 settembre 2017, la leader della Lega per la democrazia e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha rotto il suo silenzio relativo alle atrocità contro il popolo rohingya. Ma il suo discorso era pieno di non detti. Non ha mai pronunciato il nome rohingya, temendo che il suo discorso rafforzasse in qualche modo le aspirazioni che ha questa comunità di fare parte del tessuto sociale della Birmania. Ha invece dichiarato che il suo governo non sapeva esattamente cosa stesse accadendo in Birmania, e che aveva bisogno di “scoprire perché stava succedendo”.
Il futuro incerto dei rohingya
Ma sono settant’anni che l’esercito e le autorità civili della Birmania sanno cosa sta succedendo. C’è stata infatti una meticolosa campagna volta a fare sì che ai rohingya, che vivono nello stato settentrionale di Rakhine (noto un tempo come Arakan), fosse dapprima negata la cittadinanza e poi la possibilità di guadagnarsi da vivere.
Ci sono stati regolari massacri, e la loro intensità è cresciuta a partire dal pogrom del 2012. Aung San Suu Kyi sarebbe forse più informata sulla natura delle violenze se visitasse il villaggio di Yan Thei dove, il 23 ottobre 2012, la polizia e gli estremisti del Rakhine si sono alleati per distruggere il villaggio. Nel farlo, estremisti e polizia hanno ucciso, perlopiù facendoli a pezzi, 28 bambini, 13 dei quali di meno di cinque anni.
La complicità dello stato
Non basta accusare i monaci buddisti estremisti e i militanti rakhine di questa violenza. Lo stato birmano è stato complice fin dall’inizio. Ha preso di mira, per motivi religiosi e di razzismo, un gruppo (i rohingya) che non si era armato per difendere i suoi diritti di minoranza (a differenza dei karen e degli shan). L’élite militare e civile, compresa Aung San Suu Kyi, ha usato la debolezza dei rohingya per definire il proprio nazionalismo. E recentemente ha sfruttato la logica occidentale della guerra al terrore per prendere di mira questa comunità musulmana.
Il partito di Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), ha collaborato a stretto contatto con i gruppi estremisti rakhine già dagli anni ottanta. Mentre l’Nld e Aung San Suu Kyi si presentavano sul piano internazionale come alfieri della democrazia e dei diritti umani, il partito e i suoi dirigenti stringevano legami più stretti con le fazioni politiche estremiste di Rakhine (prima con la Arakan league for democracy, poi con il Rakhine nationalities development party e infine l’Arakan national party). Aung San Suu Kyi si è affidata a persone come Aye Tha Aung e Aye Maung, entrambi estremisti nazionalisti rakhine. Si tratta di persone che negano l’esistenza dei rohingya, chiamandoli bangladesi ed esigendo la loro espulsione verso il Bangladesh.
I nostri figli e i nostri nipoti ci chiederanno come abbiamo potuto permettere una cosa del genere e noi non avremo mai una risposta
Un rapporto delle Nazioni Unite del 2010 mostra che il tasso di povertà in Birmania è almeno del 26 per cento, con una povertà più acuta nelle zone rurali (dove vive l’84 per cento dei birmani poveri). Lo stato di Rakhine, dove vivono i rohingya, è una delle aree più povere della Birmania, e in ogni famiglia il secondo figlio soffre di grave denutrizione. Il tasso di povertà nello stato di Rakhine è di uno sbalorditivo 78 per cento. Sia il popolo rohingya sia quello rakhine sopravvivono con poche risorse, e il secondo viene usato come carne da cannone contro il primo.
Invece di affrontare il problema, i dirigenti militari e civili hanno preso l’abitudine di addossare la colpa ai poverissimi rohingya. Come se questi lavoratori agricoli privi di terra e piccoli agricoltori fossero la causa, e non le vittime, della povertà in Birmania.
Negli ultimi due decenni il governo birmano ha usato la retorica della guerra al terrore, già adottata dall’occidente, per definire i rohingya, presentati come estremisti musulmani, anche se a definirli davvero sono la loro povertà e impotenza. Ha fatto comodo ai generali birmani e ad Aung San Suu Kyi che Ata Ullah, un estremista rohingya nato a Karachi (in Pakistan) e cresciuto alla Mecca (in Arabia Saudita), abbia formato l’Esercito di liberazione rohingya dell’Arakan, avviando operazioni armate contro lo stato e la popolazione rakhine.
Ma si tratta di un nemico che fa comodo allo stato birmano e ai suoi estremisti buddisti, che lo strumentalizzano per far credere a dei legami con Al Qaeda e a continuare le operazioni di pulizia etnica in corso nello stato di Rakhine.
Per spostarsi, l’ondata di profughi aspetta il periodo tra maggio e luglio, quando il mare delle Andamane è relativamente calmo. È allora che cercano di raggiungere il Bangladesh e la Thailandia. Altre persone lasceranno la Birmania quest’anno. “Temiamo di essere spazzati via”, ha dichiarato Tun Khin, a nome della comunità rohingya.
Sono seduto con Shahidul Alam, fotografo e scrittore bangladese, nel centro di Dhaka. Mi ha offerto il calendario 2018 di Drik, intitolato When Buddha looks away (quando Budda guarda altrove). Contiene foto della comunità rohingya che vive nei campi del Bangladesh. “Se il mondo ha davvero una coscienza, è giunto il momento di dimostrare che non possiamo stare, e non staremo, con le mani in mano mentre una delle più grandi ingiustizie dei nostri tempi continua sotto i nostri occhi. Se non riusciremo a fare qualcosa, i nostri figli e i nostri nipoti ci chiederanno come abbiamo potuto permettere una cosa del genere e noi non avremo mai una risposta. Sarà una domanda che ci tormenterà per il resto dei nostri giorni”.
E che sta già tormentando il popolo rohingya. Oltre che quanti lavorano per le organizzazioni umanitarie.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su Alternet.
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