“Nel futuro la storia c’è ancora, e la storia è confusione; benché sia assurdo pensarci, nel futuro immediato ci può essere sempre qualcosa di imponderabile che può togliere ai fascisti quel successo che tutti prevedono ed essi tracotanti si aspettano”.
Così scrive Pier Paolo Pasolini nell’appunto 64 del romanzo incompiuto Petrolio.
Stralciato dal testo e letto oggi, sembra un invito a non arrendersi, a non darsi per vinti di fronte all’avanzare dell’ondata reazionaria, xenofoba, razzista e quant’altro.
In quell’abbozzo di capitolo, invece, si parla di tutt’altro: un rimpasto dentro l’Eni. Il protagonista del romanzo, funzionario dell’ente in quota “area cattolica di sinistra”, rischia di essere scalzato da “un uomo decisamente di destra, proposto (anzi, quasi imposto!) da Almirante”, ma riesce a conservare l’incarico spingendosi a destra egli stesso.
È solo uno dei molti possibili esempi di come estrapolare frasi di Pasolini e cercare di adattarle al presente possa generare ogni sorta di equivoci.
Il tormentone del “Caro Alberto”
Durante la lunga campagna per le scorse elezioni politiche, segnate da due fatti di sangue a chiaro movente razzista (a Macerata il 3 febbraio e a Firenze il 5 marzo), circolava un meme. Partito da circuiti di destra, ben presto è dilagato sui social network, in differenti versioni ma sempre con lo stesso schema e messaggio. Una foto di Pasolini era accompagnata da questa citazione:
Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda.
Il messaggio è stato ripreso anche da Matteo Salvini, che il 24 febbraio ha persino letto la frase durante il comizio di chiusura della campagna elettorale, in piazza del Duomo a Milano. Straniante udire Salvini che attacca la “classe dominante” e il consumismo, raggelante l’applauso della piazza al termine della citazione. Se solo venisse a contatto con l’opera di Pasolini, la folla che quel giorno ha battuto le mani potrebbe solo inorridire.
Il meme circolava privo di fonti, a parte il riferimento a una “lettera di Pasolini a Moravia” genericamente datata 1973.
Ma nel 1973 l’offensiva di Pasolini sul consumismo come “nuovo fascismo” – con relativo incrociar di lame tra lui e Moravia, Fortini, Calvino – non era ancora partita. L’avrebbe inaugurata un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974, intitolato “Gli italiani non sono più quelli”, poi incluso negli Scritti corsari con il titolo “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”.
Non sono riuscito a trovare la frase del meme in nessuno scritto di Pasolini. Nel complesso suona verosimile: potrebbe essere la riscrittura o il ricordo sfocato di un passo pasoliniano reale. Unica nota stonata, l’espressione “arma di distrazione”, entrata nell’uso comune soltanto nel ventunesimo secolo. Il gioco di parole “weapons of mass distraction” si è imposto in inglese a partire dal 1997, grazie a un film che lo usò come titolo, e in italiano a partire dal 2003, grazie alla trasmissione Raiot di Sabina Guzzanti che lo usò come sottotitolo.
Lo scopo del meme era mettere a tacere con un ipse dixit chiunque – di fronte al crescendo di aggressioni fasciste, all’attentato di Macerata e alla crescente normalizzazione delle estreme destre – denunciasse l’estendersi di una mentalità reazionaria e razzista. Mentalità che negli ultimi anni ha conquistato la cultura di massa a furia di talk show, e della quale i neofascisti sono solo l’espressione più esplicita e concentrata.
Il cerchio si è chiuso all’indomani delle elezioni del 4 marzo quando, di fronte ai risultati da zerovirgola dei partitini neofascisti, diversi hanno commentato: “visto?”, “tanto rumore per nulla”, “un flop”, “i neofascisti non contano nulla”, “era solo uno spauracchio”, “aveva ragione Pasolini quando scrisse a Moravia che…”.
Un’interpretazione frettolosa e risibile. CasaPound ha preso 312.392 voti e Forza nuova altri 127.119; significa che come minimo 439.511 persone si identificano col neofascismo, o almeno non hanno problemi a votare partiti neofascisti. C’è poi Fratelli d’Italia, partito proveniente dal neofascismo, che ha preso 1.435.114 voti. Soprattutto, c’è la Lega. Il partito di Salvini ha molti cavalli di battaglia in comune con i neofascisti e addita gli stessi nemici, tanto che con CasaPound fece nel 2015 un’alleanza elettorale, di breve durata ma significativa. La Lega ha preso 5.694.351 voti e adesso è al governo.
A conti fatti, su poco più di 46 milioni di aventi diritto al voto, oltre sette milioni e mezzo hanno scelto forze politiche inequivocabilmente nazionaliste, xenofobe e reazionarie. Per capirci: durante la prima repubblica il partito neofascista storico – il Movimento sociale italiano – rimase sempre intorno ai due milioni di voti.
I numeri del 4 marzo segnalano eccome uno sfondamento, se non dei partiti fascisti dichiarati, certamente delle idee che questi professano. Idee divenute sempre più accettabili, dichiarabili, votabili. Gran parte di esse si ritrova nel programma del governo Lega-M5s.
Va aggiunto che l’immediata e concreta pericolosità del neofascismo non si coglie guardando le percentuali elettorali, ma guardando le strade, come mostra la mappa delle aggressioni neofasciste 2014-2018.
Torniamo al meme del “Caro Alberto”. La strumentalizzazione e falsificazione del pensiero pasoliniano consiste nel rimuovere un basilare dato di fatto: Pasolini non si sognò mai di negare la pericolosità dei neofascisti. Al contrario.
Ma dobbiamo procedere con ordine.
La dicotomia che non c’è
Il Pasolini degli ultimi anni sostiene, tornando più volte sul tema, che il vecchio fascismo, coi suoi codici, le sue retoriche, il suo rapporto tra capo e massa, è stato superato da un “fascismo” peggiore, quello del neocapitalismo, della “società dei consumi”. I fascisti non scompaiono né diventano innocui, ma sono integrati nel nuovo sistema, omologati e funzionali alla sua logica. Dietro gesti come il saluto romano e simboli ormai residuali non vi è più alcuna alterità.
La tesi è enunciata anche in Petrolio, in uno degli appunti più memorabili, il 126, dov’è descritto un corteo neofascista:
(I manifestanti) non potevano essere che quelle persone reali che in quel momento il potere (la storia) voleva. I loro slogans mentali classici, come ‘Dio, Patria, Famiglia’ erano puro vaneggiamento. I primi a non crederci realmente erano loro. Forse, delle vecchie parole d’ordine, ad avere ancora un senso era, appunto, l’‘Ordine’. Ma ciò non bastava a fare il fascismo (…). Erano dei miseri cittadini, ormai presi nell’orbita dell’angoscia del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire di più che una società ‘sviluppata’ aveva infilato loro in saccoccia.
Queste frasi sono scritte non solo a miracolo economico finito, ma in piena “austerity”, nel 1974, un anno dopo la grande crisi petrolifera. Pasolini però giudica irreversibili gli effetti antropologici del benessere, che sta trasformando e omologando anche i neofascisti, rendendoli più simili a tutti gli altri cittadini-consumatori, al tempo stesso rendendo tutti gli altri più simili ai neofascisti.
Nel citato articolo del 10 giugno 1974 Pasolini prende come esempio il terrorista nero Giancarlo Esposti, ricercato per la strage di Brescia e ucciso dai carabinieri durante un tentativo di cattura:
Il criminale Esposti – per fare un esempio – nel caso che in Italia fosse restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e retorica nostalgia? L’Italia non consumistica, economa e eroica (come lui la credeva)? L’Italia scomoda e rustica? L’Italia senza televisione e senza benessere? L’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio? L’Italia con le donne chiuse in casa e semi-velate? No: è evidente che anche il più fanatico dei fascisti considererebbe anacronistico rinunciare a tutte queste conquiste dello ‘sviluppo’. Conquiste che vanificano, attraverso nient’altro che la loro letterale presenza – divenuta totale e totalizzante – ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale.
Ma è corretto identificare l’ideologia fascista con la nostalgia per un’Italia “non consumistica, economa ed eroica”, “scomoda e rustica”? Su quest’identificazione Pasolini fonda un’antinomia tra fascismo e consumismo, ma è davvero incompatibile un’ideologia fascista con l’edonismo della società dei consumi?
È vero che durante il ventennio il fascismo impose una “mistica” fatta di continui riferimenti a valori percepiti come alti, sempre scritti con la maiuscola reverenziale: la Patria, la Nazione, lo Spirito… Ma quella mistica, da sola, non avrebbe potuto garantire il consenso. Non capiamo cosa fu il fascismo se scordiamo o ignoriamo che il regime incoraggiava nella piccola e media borghesia una cultura edonistica e fatua, fatta di cinema “dei telefoni bianchi”, contemplazione ammirata del “bel mondo”, canzonette spensierate – “voglio vivere così / col sole in fronte / e felice canto / beatamente” – villeggiatura e nuovi beni di consumo.
Nell’appunto 59 di Petrolio Pasolini afferma: “Un fascista edonista era una contraddizione in termini”. E invece di fascisti edonisti se ne sono visti tanti, in primis diversi gerarchi del regime. Del resto, nella borghesia del ventennio era diffuso un mito del bon vivant ricalcato su D’Annunzio. La società fascistizzata non era tutta una caserma: era anche grande magazzino, salone di ricevimenti, boudoir, bordello.
Soprattutto, il fascismo del ventennio non fu affatto un regime anti-industriale e contrario allo sviluppo. Al contrario, fu un regime modernizzatore e tecnofilo, sulla linea di quel “modernismo reazionario” – definizione dello storico americano Jeffrey Herf – che caratterizzò il rapporto tra i fascisti e le macchine.
Questo è l’errore di fondo su cui Pasolini basa ogni sua riflessione su fascismo, neofascismo, capitalismo. Non solo: Pasolini utilizza i termini fascismo e fascisti dando loro significati diversi a seconda delle esigenze polemiche e delle tattiche messe in campo. La confusione che ne deriva avrà conseguenze a lungo termine.
Pasolini contro i neofascisti, i neofascisti contro Pasolini
Pasolini i fascisti li conosce bene. Dai fascisti di tutte le correnti e tendenze è incessantemente diffamato, perseguitato, aggredito fisicamente.
Nota di metodo: non parlerò dell’omicidio di Pasolini, secondo alcune teorie ucciso proprio da una squadraccia neofascista, o da un commando misto di neofascisti e mafiosi. Scrivere di quella notte sposterebbe il focus, e il mistero offuscherebbe tutto il resto. In questa sede non è necessario occuparsi della morte di Pasolini: la vita basta e avanza.
Pasolini i fascisti li conosce bene. Li conosce e non smette di descriverli come sicari al soldo del potere, autori materiali delle stragi della strategia della tensione, con la protezione politica dei partiti alla guida del paese. Quei partiti che – come dichiara pochi mesi prima della morte (“Il mio voto al Pci”, L’Unità, 10 giugno 1975) – cercano di “rifarsi una verginità antifascista (…) ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.
Che tali bande siano necessarie al potere e alla fase storica in corso, lo scrive anche nell’appunto 65 di Petrolio, intitolato Confidenze col lettore:
Quei fascisti che Carlo, come in una visione, aveva visto correre davanti a casa sua, in una piccola orda armata, emersa da un fondo oscuro del paese che d’improvviso pareva prevederla, storicamente così com’era, matura e completa della sua rinnovata attualità. (Corsivo mio)
Questo al livello della strada, ma Pasolini descrive anche i piani alti: per lui il neofascismo missino è parte del potere economico e politico. Il neofascismo ha amici tra finanzieri e capitani d’industria – in Petrolio ha un ruolo Attilio Monti detto “il petroliere nero”, magnate dei carburanti oltreché proprietario dell’Eridania e del Resto del Carlino – e partecipa alla spartizione di prebende e incarichi in aziende ed enti di stato. È una delle linee narrative più importanti tra quelle abbozzate in Petrolio, vent’anni prima di quello che verrà chiamato lo “sdoganamento” dell’Msi.
Nell’appunto 63 leggiamo:
il fascismo (…) si era già tanto rafforzato con la strage di Milano e le altre duecento bombe che stragi non ne avevano fatte, ma facevano parte dello stesso programma. In tutti i posti di potere i fascisti cominciarono la loro controffensiva, la loro serie di scambi tattici ecc.; la Chiesa era finita, restava la Curia, ciò bastava a un ritorno di clericalismo che potesse concepire i fascisti come dei possibili alleati: la base della loro possibile intesa – che cominciava pragmaticamente con scambi di uomini nei centri del potere – era semplicemente il ‘potere’, per se stesso, spogliato di qualsiasi attributo.
Nel già citato appunto 64 Pasolini scrive:
Prima di cedere anche una sola parte di potere, da gestire direttamente dai fascisti (…), la parte più clericale della Democrazia Cristiana – mettiamo Andreotti – ci ha naturalmente pensato su un momento; e non tanto per scrupolo, o per la naturale ripugnanza fisica che può ispirare un fascista (a cui vent’anni non son bastati certo a lavare le mani sporche di sangue), quanto per la naturale insicurezza che anche l’uomo più informato e abile può avere nel prevedere il futuro (…). Tutto sommato è meglio spingere a destra un uomo già provato – e sempre buono, in ogni eventualità, per le sinistre – che assumere al suo posto un uomo decisamente di destra, proposto (anzi, quasi imposto!) da Almirante.
Queste manovre sono l’argomento di un convivio che nell’appunto 64 bis Pasolini definisce “una cena tra democristiani di destra (o meglio, disponibili a tutto) e neofascisti”, con “una presenza come sempre ben poco parlabile e misteriosamente allusiva di deputati mafiosi siciliani”.
Una visione allegorica di quest’ensemble si trova nell’appunto 65 bis, intitolato Giardino medievale, dove al protagonista Carlo appaiono diversi dei. La scena è divisa tra sinistra e destra. A sinistra appaiono divinità come “l’Adolescente”, “il Figlio”, “l’Anarchico”, “Eros”, divinità senza potere e perciò raffigurate nude e prive di sesso. A destra, invece, “divinità di tutt’altro tipo e natura”:
Erano il Padre Primo, lo Stato, l’Ordine, la Follia (…). Il Padre Primo teneva stretta nella mano, come un pomo, una mammella della Follia, e ciò l’aveva fatto entrare in erezione: guardava nel vuoto con gli occhi accesi e i capelli al vento (…). L’Ordine era intento a leggere un libro del Primo Novecento. Lo Stato consultava pomposamente dei testi greci, ma non classici. La Follia con le unghie del suo piede bestiale, era intenta a grattare la testa di una Divinità così bassa di statura che sul primo momento non si vedeva: la sua testa era molto grossa e con la fronte sporgente sul naso rincagnato. Era il Potere.
Dopo aver visto questi dei, leggiamo nell’appunto seguente, “Carlo entrò nella sua camera e si spogliò (…). Il cuore, risucchiato dall’ubriachezza in un oscuro fondo melmoso, era sconvolto da un sentimento sconosciuto e, benché abietto – e forse proprio per questo – esaltante, meraviglioso. Nel Fascismo c’è un fascino che nessuno ha mai avuto il coraggio di spiegare”.
Quel fascino è l’attrazione verso il fondo melmoso. Cedervi è facile, basta assecondare la forza di gravità. In tutte le opere di Pasolini i fascisti sono sempre il fondo: squallidi, vili, malati, stupidi, meschini. Che si tratti di poesie, romanzi, saggi o film, la rappresentazione è più o meno la stessa, dai versi di Notte in Piazza di Spagna, 1957, fino a Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975.
La società dei consumi è a destra del fascismo?
La strumentalizzazione può funzionare perché frasi somiglianti a quella del meme si trovano negli Scritti corsari, nelle Lettere luterane, in Petrolio e in molte interviste. Tutte espongono una dicotomia tra il fascismo vecchio – a volte definito “classico” o “archeologico” – e un “fascismo” nuovo, coincidente con il “totalitarismo” della società dei consumi.
Nell’attaccare quest’ultima, Pasolini non è certo solo, anzi, è in ottima compagnia: Marcuse, Barthes, Debord, il primo Baudrillard… Buona parte della teoria critica del tempo, di derivazione francofortese o strutturalista, esistenzialista o controculturale, marxista o cristiana. Pasolini, però, connota la critica in modo peculiare. L’Internazionale situazionista, per esempio, non esprime alcun rimpianto per il mondo contadino, non è in esso che cerca una “autenticità” perduta.
Durante la dittatura fascista, scrive Pasolini in uno dei suoi articoli più famosi (quello sulla “scomparsa delle lucciole”, 1 febbraio 1975), “il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza” e dunque i modelli fascisti “non erano che maschere, da mettere e levare”. L’animo del “popolo” – il popolo della “civiltà contadina e paleoindustriale” – non era cambiato in profondità; per Pasolini, il fascismo è dunque stato “totalitario”, tra virgolette. Ma ora la situazione è cambiata: un “fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo” ha “in pochi anni (…) ricrea(to) e deforma(to) la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione”. Degradazione che però si presenta come apertura democratica e progresso dei costumi.
Ovviamente, è problematico che Pasolini descriva ogni emancipazione ed estensione dei diritti, ogni libertà conquistata soltanto come “permissività” del potere e parte della strategia del sistema, e non come risultato di un conflitto sociale duramente combattuto. Nella sua ricostruzione svaniscono lotte e soggettività. Su tutte, svaniscono lotte e soggettività delle donne. Davvero la loro maggiore libertà rispetto a come vivevano nel mondo contadino è stata solo una concessione dall’alto?
Ancora Petrolio, precisamente l’appunto 59:
Certe acquisizioni che, coi socialisti al Governo, si chiamavano Riforme, erano divenute ormai irreversibili. L’Italia era avviata verso l’Edonismo del Consumo (…). Il Potere era preso nell’impasse di questa contraddizione. Che direzione avrebbe imposto la sua Mente, calandosi, nella fattispecie, nel Capo del Governo Andreotti? Una più decisa svolta a destra – come in superficie dimostrava il revival moralistico dei vecchi agonizzanti clerico-fascisti alla Magistratura, della Polizia ecc.? Oppure una più reale svolta a destra, lungo le lunghe strade della democrazia tollerante? (Corsivo mio)
Per prima cosa, osserviamo che nella metafora spaziale di Pasolini il consumismo sta a destra del clericofascismo. Di più: quella della società dei consumi, scrive più volte, è la “prima vera grande rivoluzione di destra”.
Dopodiché, vediamo che Pasolini crede “irreversibili” le riforme degli anni sessanta e settanta. Si sbaglia di grosso. La scala mobile – meccanismo che rivaluta automaticamente i salari compensando l’aumento dei prezzi, reso uguale per tutti i lavoratori nel 1975 – verrà smantellata nel 1984; lo statuto dei lavoratori sarà gravemente manomesso nel 2014 con l’abrogazione dell’articolo 18; il lavoro si farà sempre più precario; la legge 194 diventerà sempre meno applicabile, vanificata dall’altissimo numero di obiettori di coscienza nella sanità pubblica; le “mille lire in più” che “la società ‘sviluppata’ aveva infilato in saccoccia” ai ceti medi perderanno gran parte del loro valore e lo strato più basso di quei ceti scivolerà nella povertà.
Eppure su questa idea di irreversibilità – oltreché, come già detto, sull’identificazione del fascismo con un’Italia arcaica, rustica e quant’altro – Pasolini fonda la sua visione dicotomica.
Tutti come il Merda, anche i fascisti
Nell’appunto 63 Pasolini scrive:
La gente era quella (…) ed era senza più i valori arcaici della Chiesa e quelli pervertiti della conservazione: stupida, brutale, ghignante, vuota, nevrotica, ansiosa, casuale, indifferenziata.
È una delle sue argomentazioni più note: i valori religiosi e della borghesia tradizionale – ma anche quelli del proletariato – sono scalzati da una nuova cultura interclassista, generalizzata, un conformismo di stampo piccolo borghese ma riplasmato dai nuovi modelli del consumo e dal “bombardamento televisivo”.
Anche i pasoliniani “ragazzi di vita”, i giovani borgatari romani, sono stati corrotti e in pochi anni hanno “abiurato” il loro mondo, la loro cultura. Pasolini elenca con puntiglio i risultati di tale abiura nella parte di Petrolio intitolata Il Merda, una lunga “Visione” suddivisa in ben 29 paragrafi, coincidenti con gli appunti dal 71 al 74. Qui è descritta una carrellata lungo via Torpignattara, dall’incrocio con la Casilina fino alla Tuscolana, seguendo la passeggiata di un giovanotto bruttissimo, soprannominato appunto il Merda, che avanza a braccetto con la fidanzata, attraversando una borgata che ha perso anima, alterità, linguaggio.
Per Pasolini c’è un’enorme differenza tra il nuovo conformismo e quello precedente. La spiega in una lettera a Calvino uscita sul Corriere della Sera l’8 luglio 1974:
Gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la ‘mutazione’ antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
E i neofascisti? Uguali agli altri anche loro. Nel citato appunto 126 di Petrolio si legge:
Questi non sono più i fascisti. Tra di loro ci sono dei ‘ritardati’, che sono i fascisti classici, ma non contano più (o contano come contano le sopravvivenze in un nuovo contesto storico) (…). La fine del fascismo segna la fine di un’epoca e di un universo. È finito il mondo contadino e popolare. Era dalle parti più miserabili di questo che il fascismo raccoglieva le sue bande di sicari innocenti e virili. Sono anche finiti i ceti medi la cui cultura borghese era ancora fondata su una cultura popolare (simile a quella dei sicari): contadina, pastorale, marinara, povera. Differenziata (da regione a regione, da città a città, da centro a periferia) (…). Lentamente e a propria insaputa, (il) potere aveva cambiato radicalmente natura (…). la televisione predicava quotidianamente, ora dopo ora, il puro edonismo: il suo slancio era tutto in direzione della realizzazione del benessere e del consumo. E la gente aveva appreso la lezione in modo radicale, palingenetico.
Per Pasolini, nella società “sviluppata” il fascismo non è più possibile. Di conseguenza, quello dei fascisti dichiarati che gridano slogan fascisti non può più essere il fascismo. Ma Pasolini chiama più volte “fascismo” il nuovo potere, ed è un crescendo: quello della società dei consumi è “un vero e proprio fascismo”, “un nuovo fascismo”, e infine “il vero fascismo”. Perché usa questa parola?
Una città a forma di svastica
“La totale adesione all’Autorità diviene, insomma, dimostrazione di violenza verso le minoranze che tale adesione per un verso o per l’altro non attuino o non accettino. Così che, con la beata, stagnante luce di soddisfazione di chi si è prestato con tutto se stesso a realizzare nel proprio Corpo i Dettami dell’Autorità, coesiste una torva luce di rancore, rabbia, furia, che trasforma quasi in Anarchia l’eccesso di Obbedienza, e in scandalo la perfetta normalità”.
Così Pasolini nell’appunto 71e, durante la passeggiata del Merda. E sta parlando di barbe e capelli! Nel 71i rincara la dose con una reductio ad Hitlerum:
Il vero militarismo già inconsapevolmente adottato è quello delle Ss. Infatti da chi era formata la ’truppa’ delle Ss? Evidentemente da giovani del popolo che l’industrializzazione aveva appena borghesizzato, come questi.
Infine, nell’appunto 73, intitolato Gran finale della Visione, lo sguardo si alza fino a inquadrare Roma dal cielo, e la forma della città è quella “inequivocabile – di un’immensa Croce Uncinata”.
Il ricorso di Pasolini alla parola fascismo e a immagini nazifasciste non ha né vuole avere precisione storica o politologica. Si tratta di figure retoriche. Allegoria: la città a forma di svastica come disvelamento della società omologata dal neocapitalismo; iperbole: la società dei consumi definita più fascista del fascismo stesso; sineddoche: una particolare dittatura, quella fascista, sta per ogni dittatura e presa totalitaria sulla realtà.
Pasolini non è certo l’unico a usare il termine in questi modi: per lui e per molti altri, segnati dalla guerra e dai crimini nazifascisti, i termini fascismo e fascista sono parametri di negatività e orrore, e li usano per definire quel che vedono di negativo e orrendo nel presente e nel futuro prossimo.
Essere contro il fascismo e i fascisti, in qualunque forma si ripresentino, è per Pasolini una “banalità di base”. “Tutto ciò che io ho detto ‘scandalosamente’ sul vecchio e nuovo fascismo”, scrive nel 1974, “è quanto di più realmente antifascista si potesse dire”.
Ma allora con chi ce l’ha quando attacca “gli antifascisti”?
L’equivoco sul “fascismo degli antifascisti”
È spesso citata e ridotta a slogan l’espressione “fascismo degli antifascisti”, senza mai andare a vedere cosa Pasolini intendesse dire. A volte viene persino linkato l’articolo del 16 maggio 1974 dove c’è – o meglio, tutti credono che ci sia – l’espressione. Linkato, ma non letto.
Leggendolo, per prima cosa si vedrebbe che l’espressione non c’è. Verrà aggiunta come titolo solo in seguito, con l’inclusione negli Scritti corsari.
In seconda battuta, forse – non è detto – si capirebbe che col significato inteso da Pasolini l’uso attuale dello slogan non ha alcuna attinenza.
In quell’articolo, sul Corriere della Sera intitolato semplicemente “Apriamo un dibattito sul caso Pannella”, Pasolini attacca diversi soggetti istituzionali: la Democrazia cristiana, il presidente della repubblica Giovanni Leone, la Rai e la commissione sanità della camera, tutti colpevoli di ignorare alcune richieste di Marco Pannella, in sciopero della fame da oltre due mesi. Sono costoro gli “antifascisti” che secondo Pasolini si stanno comportando da fascisti.
Quando scrive polemicamente degli “antifascisti”, Pasolini si riferisce principalmente alla classe politica, alla Dc e ai suoi alleati di governo, nominalmente antifascisti ma cinici nel giocare di sponda col neofascismo e nel capitolare di fronte al “nuovo fascismo” neocapitalista. Su Epoca del 25 gennaio 1975 scrive:
I democristiani si sono sempre fatti passare per antifascisti: ma hanno sempre (alcuni forse inconsciamente) mentito. La loro strapotenza elettorale degli anni cinquanta e l’appoggio del Vaticano hanno consentito loro di continuare, sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, la stessa politica del fascismo.
Chi usa l’espressione “fascismo degli antifascisti” facendosi scudo di Pasolini per delegittimare la lotta agli odierni neofascisti e alle estreme destre, è un ignorante o un mistificatore, o entrambe le cose.
Non aiuta a fare chiarezza, va detto, la decisione dell’editore Garzanti di ripubblicare solo alcuni degli Scritti corsari con il titolo – indovinate un po’ – Il fascismo degli antifascisti.
Il test dell’anatra
Una delle conseguenze dell’omologazione consumistica, dice Pasolini, è che ormai i giovani fascisti sono solo giovani che si dichiarano fascisti e applicano questo “nominalismo” sui loro atti di violenza, compiuti al servizio del potere. Quelli come Esposti, si legge nel già citato articolo del 10 giugno 1974, “si chiamano e vengono chiamati ‘fascisti’: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Li distingue solo una ‘decisione’ astratta e aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta”.
Nel periodo “corsaro” Pasolini segnala più volte il pericolo rappresentato “dai giovani fascisti, dalla frangia neonazista del fascismo che adesso conta su poche migliaia di fanatici ma che domani potrebbe diventare un esercito”. Tuttavia non attribuisce quel fanatismo al persistere e ripresentarsi dell’ideologia fascista, perché associa quest’ultima solo agli “antichi valori contadini, tradizionali, particolaristici, regionali”. La violenza dei neofascisti per lui non è davvero fascista. Si dicono fascisti, compiono violenze in nome del loro essere fascisti, eppure il loro non è fascismo, perché il “vero fascismo” è ormai un altro.
Guardando alle violenze nere di allora e di oggi, io invece mi appello al ragionamento induttivo noto come test dell’anatra: se un uccello cammina come un’anatra, nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, chiamo quell’uccello anatra.
Se un tale si dichiara fascista, fa il saluto fascista, dice cose fasciste e aggredisce o incita ad aggredire neri, rom, lgbtq o militanti antifascisti, io chiamo quel tizio fascista e la sua ideologia fascismo. Non vedo perché non dovrei farlo.
Pasolini, invece, resta aggrappato alle sue premesse: vede che l’uccello cammina, nuota e starnazza come un’anatra, ma non vuole chiamarlo anatra se non introducendo mille distinguo per dire che in realtà la vera anatra non è quella che appare e agisce come un’anatra bensì un nuovo tipo di anatra che…
Il consumismo neofascista
L’ideologia fascista, secondo Pasolini, è destinata a soccombere alla società dei consumi. Invece vi si adagierà perfettamente. Non solo continuerà a esistere, ma saprà riprodursi e trasmettersi grazie all’edonismo degli anni ottanta, attraversando così tutto il ciclo neoliberista.
Pasolini muore pochi anni prima che facciano la loro comparsa i “paninari”, subcultura giovanile che porterà edonismo e consumismo a nuove vette, nata da una subcultura precedente, quella “sanbabilina”, tutta interna al neofascismo milanese. Non a caso il luogo di nascita dei paninari sarà l’eponimo bar “Al panino” in piazza San Babila.
Negli anni novanta una congrega di ex giovani neofascisti, inclusi alcuni dei sanbabilini di cui sopra, metterà in scena una vaga svolta – detta “di Fiuggi” – poi si ammanterà di eufemismi come centrodestra, allo scopo di andare al governo. Costoro non si distingueranno dallo sfondo della controrivoluzione neoliberista, che amministreranno e della quale saranno parte integrante e festaiola. La rassegna Cafonal del sito Dagospia li esibirà spesso, in perenne transumanza dai party in case di milionari alle notti in discoteche del jet set. Non per questo smetteranno di essere fascisti, di dire e fare cose fasciste. Perché un fascista edonista non è affatto una contraddizione in termini.
Nel secondo decennio del ventunesimo secolo il lifestyle neofascista diverrà identità compiutamente mercificata, con tanto di marchi very cool e articoli griffati. Un’estetica a volte definita “hipsterismo fascista” sarà venduta in forma di abiti, accessori, tagli di barbe e capelli, tatuaggi. Il legame tra tali merci e l’ideologia fascista verrà esibito senza maschere o cavalli di Troia, perché non si tratterà più di entrare di nascosto da qualche parte, semmai di espandersi, di allargare il bacino dei potenziali clienti. Cascherà a pennello il testimonial illustre: Matteo Salvini (ancora lui) griffato Pivert, brand di abbigliamento legato a CasaPound.
Il capitalismo neofascista non farà di tutta l’erba fashion: avrà agenzie di viaggi, società finanziarie, aziende di servizi postali e altre attività, come emerso da numerose inchieste giornalistiche. Ma la produzione principale sarà quella di segni: segni da indossare ed esibire, status symbol. Il neofascismo come business e come griffe, con relativo feticismo, quel culto delle firme già elevato dai paninari a culto guerresco: chi non le feticizza – perché darkettone, metallaro, cinese (cioè di estrema sinistra) – è un nemico.
Il neofascismo diverrà una delle tante identità acquistabili dal catalogo. Di primo acchito, ciò sembrerà dar ragione a Pasolini, che riduceva l’essere neofascisti al puro dirsi fascisti. Ma con quei segni viaggerà un’ideologia, e non sarà solo l’ideologia dei consumi: sarà ideologia fascista, fatta di nazionalismo, razzismo, sessismo, antisemitismo, falsificazioni storiche. Ideologia per niente “archeologica”, anzi, pienamente attuale. Pericolosa nell’immediato – per i soggetti additati come nemici, soprattutto i migranti – e distruttiva sul piano culturale. A maggior ragione perché, come farà notare Christian Raimo, il lifestyle neofascista non sarà solo una moda: sarà proprio di moda tra giovani e giovanissimi di diverse zone del paese.
Pasolini metteva in guardia dalla merce come neofascismo, invece abbiamo il neofascismo come merce. Merce inquinante, tossica.
Oggi un corrispettivo della passeggiata del Merda ci mostrerebbe fascistelli azzimati, tatuati fino a sembrare tappeti, in preda a conformiste risate hipsteriche.
Non tutto è fascismo
Se è necessario contestualizzare certe formule di Pasolini è anche perché si prestavano a essere decontestualizzate. Se tocca aprire sentieri col machete in una quarantennale foresta di equivoci, è anche perché molti equivoci furono seminati allora. Il fascismo non era un’ideologia morta e sepolta insieme all’Italia rurale. Le libertà conquistate non erano solo “permissività” del potere. Le riforme sociali non erano irreversibili. Fascismo e consumismo erano perfettamente compatibili, e al tempo stesso la società dei consumi non era “il vero fascismo”.
Dire fascismo per indicare qualunque potere oppressivo presente e futuro, o addirittura per etichettare qualunque forma di violenza, annacqua il concetto e genera equivoci a non finire.
Per esempio, il cosiddetto “ordoliberismo” – il liberismo autoritario fatto di parametri di bilancio e vincoli di spesa fissati in accordi sovranazionali – non è un “nuovo nazifascismo”, come gridano alcuni sovranisti e noeuro. Possiamo dire che le politiche tecnocratiche dell’Unione europea favoriscono reazioni di estrema destra, non che tutto è uguale a tutto.
Nondimeno, Pasolini ha ancora molto da dire, se si sa cosa chiedergli. Nel frattempo, va difeso da strumentalizzazioni e falsificazioni. Un uomo che ha combattuto il fascismo per tutta la vita, e dai fascisti è stato combattuto, non merita l’offesa di essere applaudito da piazze di estrema destra.
Nei giorni della campagna elettorale è spuntato anche uno scurrile contro-meme, che vale la pena citare. A una foto di Pasolini si accompagnava questa frase:
“Mi chiedo, caro Alberto, se questo tirarmi in ballo a cazzo di cane non sia un’arma di distrazione di massa per difendere i fascisti”.
Aggiornamento, 25 giugno 2018. Il blogger Yaddad de Guerre ha proseguito la ricerca sulla genesi del meme “Caro Alberto” e il suo resoconto sul blog Giap conferma la matrice neofascista dell’operazione.
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