In un mondo in cui da una parte regna la moda mentre dall’altra dominano gli stracci, quello che indossiamo è diventato un elemento di giudizio. È l’epoca in cui tutti si pavoneggiano, sfoggiando più di quanto permettano le tasche.

Per le strade dell’Avana c’è un andirivieni di Adidas, anche se molti di quelli che le portano non hanno acqua corrente o un materasso decente su cui dormire. Dopo anni di privazioni materiali, i cubani si sono arresi ai capricci dell’abbigliamento. È stato un lungo processo di attrazione verso i tessuti e le stoffe.

Tutto è cominciato nei grigi anni settanta, quando un paio di jeans potevano attirare l’accusa di essere filostatunitense e provocare rappresaglie per “problemi ideologici”. Poi è arrivato un momento in cui tutti ci vestivamo nello stesso modo, a causa della poca varietà offerta dal mercato razionato.

Con le rimesse inviate dagli esuli e l’apertura dei negozi in pesos convertibili il nostro abbigliamento è cambiato. Molti cubani sono stati travolti dalla valanga del consumismo e hanno cominciato a parlare degli ultimi modelli Benetton.

Di fronte ai negozi si vedono persone stregate dai manichini, a cui sorridono mostrando un dente d’oro o un piccolo diamante incastonato nell’incisivo. Ma a casa quelle stesse persone hanno a malapena un piatto di riso o l’acqua e il sapone per farsi la doccia. Hanno scelto di portarsi dietro tutto quello che hanno: la loro ricchezza è quello che indossano.

Yoani Sánchez è una blogger cubana. Il suo blog è tradotto in quattordici lingue, tra cui l’italiano. Vive all’Avana, dove è nata nel 1975. In Italia ha pubblicato Cuba Libre (Rizzoli 2009). Scrive una rubrica settimanale per Internazionale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it