Ha solo 32 pagine e una sobria copertina blu: il passaporto cubano sembra più un salvacondotto che un documento d’identità. Indispensabile per uscire dall’isola, averlo non garantisce però di poter prendere un aereo.
Viviamo nell’unico paese al mondo in cui per avere questo documento di viaggio bisogna pagare in una valuta diversa da quella dei nostri stipendi. Costa 55 pesos convertibili, e un lavoratore medio deve mettere da parte lo stipendio di tre mesi.
All’inizio del ventunesimo secolo non è più così insolito incontrare un cubano con un passaporto, ma negli anni settanta e ottanta solo pochi eletti ne avevano uno. Eravamo diventati un popolo immobile, e i pochi che andavano all’estero erano in missione per il governo (o cercavano di raggiungere l’esilio). Attraversare la barriera del mare era un premio concesso ai più fedeli, mentre gli altri restavano a guardare. Per fortuna le cose sono cambiate, forse grazie all’arrivo dei turisti, che ci hanno contagiato con la loro curiosità.
Oggi quando ottengono la cittadinanza di un altro paese i miei compatrioti tirano un sospiro di sollievo: sanno che presto proveranno un senso di appartenenza per un altro luogo. Poche pagine, una copertina foderata di pelle e l’emblema di un altro paese possono fare la differenza. Nel frattempo, il libretto blu con l’emblema di Cuba rimane nascosto in un cassetto, in attesa che diventi una ragione di orgoglio e non di dolore.
*Traduzione di Sara Bani.
Internazionale, numero 876, 10 dicembre 2010*
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