Sulla strada che va dal quartiere di Jadriya a quello di Karrada, sulla riva orientale del Tigri, nel centro di Baghdad, sono stati messi dei poster che mostrano le foto dei “martiri” delle milizie sciite che hanno combattuto a fianco dell’esercito iracheno contro il gruppo Stato islamico. I giornali e le tv, inoltre, ricordano i 1.700 soldati morti alla base di Camp Speicher, vicino a Tikrit, nel giugno del 2014. Il massacro fu commesso dai jihadisti (che rivendicarono l’uccisione di sciiti), con il sostegno delle tribù sunnite. Invece, alcuni blogger sunniti pubblicano le foto dei saccheggi e delle case bruciate dalle milizie sciite dopo la liberazione di Tikrit.

Ogni parte cerca di apparire come vittima dell’altra. È lo stesso tipo di vendetta “mediatica” a cui abbiamo assistito durante la guerra civile nel 2006 e 2007. Ogni parte vuole mostrare che le sue moschee vengono bruciate o fatte esplodere. Vittimizzazione e vendetta sono il risultato di uno scontro tra mezzi d’informazione molto schierati, che parlano soprattutto dei crimini commessi dai loro nemici. In questo modo le divisioni si consolidano sempre di più ogni volta che viene mostrata un’immagine di morte e distruzione.

Durante un pranzo al parco Sami Rahman, a Erbil, ho chiesto a Lailan Saad, un imprenditore di 36 anni, se tornerà al suo villaggio, Al Alaam, vicino a Tikrit. Lui si è girato verso il parco verde, con le rose rosse, e mi ha detto: “Certo, vorrei rivedere la mia famiglia. Ma solo dopo che finirà tutta la violenza dei mezzi d’informazione. Vorrei che ci rendessimo conto che siamo entrati in una spirale di violenza di cui tutti saremo vittime”.

(Traduzione di Francesca Sibani)

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