In questi giorni i giornalisti iracheni che coprono l’offensiva su Mosul stanno raccontando i violenti combattimenti che caratterizzano gli ultimi difficili passi dell’avanzata verso la Grande moschea, dove il leader del gruppo Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, fece il suo primo – e ultimo – discorso.
Affiancando le forze irachene per documentare i progressi sulla linea del fronte, alcuni coraggiosi reporter devono affrontare molti rischi: autobombe piazzate negli stretti vicoli che separano le vecchie case, cecchini appostati alle finestre e sui tetti, colpi di mortaio ovunque, droni, bombardamenti alleati. Il giornalista Muafaq Mohamed mi ha detto: “Camminiamo in campi minati senza sapere dove si nascondono i pericoli mortali”.
Un documentario della tv pubblica irachena tv ha mostrato alcuni attentatori suicidi nascondersi dietro i civili per spostarsi da aree piene di macerie a zone più sicure. “L’avanzata è lenta e potenzialmente mortale. Per questo ci teniamo sempre al riparo dei muri delle case nella città vecchia”, racconta Dlovan Berwary, un giornalista di Mosul. “Dopo i bombardamenti non riconosco più la mia città. Molte abitazioni sono rase al suolo o sono diventate delle trappole esplosive”.
Protetto da un elmetto e da uno scudo, Dlovan si è mosso insieme agli uomini delle forze antiterrorismo. È sopravvissuto a tre autobombe. “I terroristi sono alle strette. L’unica cosa che gli resta è suicidarsi”, spiega. Dal suo nascondiglio vede il famoso minareto, leggermente storto, della Grande moschea. “Chissà se il simbolo di Mosul riuscirà a superare indenne questi giorni sanguinosi?”.
(Traduzione di Francesca Sibani)
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