Accompagnato da alcuni uomini della scorta, il generale iracheno Abdul Wahab al Saadi ha fatto un giro tra le macerie della moschea Al Nuri, a Mosul, da dove Abu Bakr al Baghdadi aveva proclamato la nascita del califfato nel 2014. Nel corso della battaglia per riprendere il controllo della moschea fondata ottocento anni fa, hanno perso la vita 61 jihadisti. Mentre le temperature raggiungono i 45 gradi, i loro corpi restano intrappolati sotto i detriti.
È stata una sconfitta simbolica per il gruppo Stato islamico (Is) a Mosul dopo otto mesi di duri combattimenti. Ma non è la fine dei giochi. Decine di miliziani si sono nascosti in alcune case vicino al fiume Tigri, in quella piccola parte della città vecchia che è ancora sotto il controllo jihadista.
Il portavoce delle forze statunitensi, il colonnello Ryan Dillon, ha dichiarato che è ormai “questione di giorni, non di settimane”. Dalla linea del fronte, il primo ministro iracheno Haider al Abadi, in tenuta militare, ha proclamato vittoria, promettendo di dare la caccia all’Is finché l’ultimo jihadista non sarà stato ucciso o arrestato.
Nessun piano
Ma, anche se siamo alle battute finali, non sembra emergere nessun piano per la fase successiva. I politici dei principali partiti sono presi dai preparativi per le prossime elezioni, previste per il 16 gennaio 2018. La concorrenza è già accesa e alcuni, come l’ex premier Nuri al Maliki, stanno già cercando di usare la vittoria contro l’Is come tema della campagna.
Intanto gli attivisti delle ong cercano di raccogliere un milione di firme per una petizione che chiede l’apertura di un’inchiesta internazionale sugli abusi commessi dall’esercito di Baghdad durante l’assedio di Mosul. Gli attivisti sono convinti che la vittoria non possa chiamarsi tale senza accertare queste responsabilità. Inoltre vogliono impedire che gli ufficiali e gli alti funzionari coinvolti in questi abusi non ne traggano un vantaggio dal punto di vista elettorale.
(Traduzione di Francesca Sibani)
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