La moschea del profeta Younis era uno dei simboli di Mosul. Svettava in cima alla collina dalla strada che segue il fiume andando dal centro della città verso il bosco. La città è rimasta a consumare la rabbia in silenzio quando nel 2014 il gruppo Stato islamico (Is) ha fatto saltare in aria la moschea, riducendola in macerie.

Il 28 gennaio 2017 le forze irachene che combattevano contro i jihadisti hanno ripreso il controllo della zona e hanno portato alla luce la gravità del danno. Quel giorno tutti si sono chiesti perché i jihadisti avessero distrutto la moschea. Si trattava di una moschea sunnita. Non c’era una spiegazione. Ora che si comincia a parlare di ricostruire la città, gli abitanti hanno mostrato l’intenzione di rimettere in piedi la moschea come parte della loro memoria collettiva.

Ma alcuni archeologi iracheni e internazionali hanno un’obiezione. “Aspettate un attimo”, hanno detto, “dobbiamo scavare sotto le macerie prima di cominciare a ricostruire la moschea!”. L’esplosione infatti ha portato alla luce uno degli accessi principali a un palazzo del 600 aC ancora intatto e di cui non si conosceva l’esistenza, che faceva parte della città assira di Ninive. Negli anni cinquanta dell’ottocento l’archeologo britannico Austen Henry Layard e il francese Paul-Émile Botta fecero a gara per scoprire e trafugare i tesori dei palazzi assiri in questi luoghi. Ma il governatore ottomano non gli permise di scavare sotto la moschea sacra. Era haram, proibito!

La rapina dei jihadisti
Quando Mosul era sotto il controllo dell’Is, gli abitanti sapevano che i jihadisti stavano scavando dei tunnel sotto le rovine della moschea per appropriarsi delle reliquie e venderle per finanziarsi. Era questo il motivo per cui avevano distrutto la moschea. Ma nessuno sa cosa hanno trovato, cosa hanno trafugato e cosa è rimasto.

Gli archeologi iracheni e internazionali sono sorpresi dalle dimensioni dei mattoni di pietra dell’ingresso del palazzo. All’interno di uno dei tunnel hanno scoperto anche un’iscrizione cuneiforme in marmo di re Esarhaddon che si pensa possa risalire al 672 aC. L’archeologa irachena Leila Saleh ha detto al giornale britannico The Telegraph che “c’è una storia immensa qui sotto, non si tratta solo di pietre ornamentali. È un’opportunità per tracciare finalmente una mappa della stanza del tesoro del primo grande impero del mondo, nel periodo del suo maggiore successo”. Per questo gli archeologi ritengono che valga la pena scavare prima di ricostruire la moschea.

(Traduzione di Francesca Gnetti)

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