Boicottaggi, censura e discriminazione
La guerra in Ucraina sta coinvolgendo la vita culturale internazionale: il direttore d’orchestra russo Valerij Gergiev, che rifiuta di prendere pubblicamente le distanze dall’amico Vladimir Putin, è stato licenziato dall’orchestra filarmonica di Monaco e non condurrà i previsti concerti alla Scala di Milano. La soprano Anna Netrebko, che ha detto di essere contraria a costringere gli artisti a rivelare le proprie convinzioni politiche, ha subìto la stessa sorte. I commenti dei mezzi d’informazione sono contrastanti.
In Grecia la ministra della cultura Lina Mendoni ha deciso di annullare la trasmissione in diretta da una sala da concerto ad Atene del Lago dei cigni, uno spettacolo del teatro Bolshoi di Mosca, e di sospendere la cooperazione con le organizzazioni culturali russe. Iniziative approvate dall’editorialista Aris Hatzistefanou, sul portale Infowar: “La trasmissione è stata posticipata non perché l’opera è stata scritta da un russo, Ciajkovskij, ma perché lo spettacolo è fornito da un’istituzione finanziata dallo stato russo, che attualmente sta bombardando un paese indipendente. Per l’esattezza, il teatro Bolshoi, che è anche la sede del Bolshoi ballet, è controllato da una squadra di politici, banchieri e imprenditori selezionati personalmente da Putin”.
Anche il mondo dello sport sta lavorando per escludere gli atleti russi dalle federazioni e dalle competizioni. Mentre alcune misure hanno una portata simbolica, altre hanno ripercussioni molto concrete. Flavio Viglezio sul Corriere del Ticino ricorda che ci sono molti esempi del genere nel passato : “Attese, richieste a gran voce, inevitabili. Sulla Russia, dopo quelle economiche e politiche, si sono abbattute anche le sanzioni sportive. Ed è tutto fuorché una sorpresa: perché lo sport è anche e soprattutto – in particolare ai massimi livelli – economia e politica. Genera cifre d’affari milionarie ed è da sempre uno strumento di propaganda politica”.
In Italia, su La Stampa la filosofa Donatella Di Cesare esprime forte preoccupazione per quanto sta accadendo nel mondo delle università e della cultura: “Che chi è russo debba essere qui improvvisamente additato a nemico appare non solo inconcepibile, ma anche indegno di un paese civile. È vero che i venti di guerra soffiano forti ormai anche per le nostre strade e nelle nostre piazze, e che c’è chi fa di tutto per accendere gli animi, ma forse occorrerebbe fermarsi prima di compiere gesti di cui pentirsi e vergognarsi. […] C’è un equilibro da mantenere, che non è equilibrismo, c’è una assennatezza etica e politica che fa parte integrante della maturità di un paese. Se molti leader politici si sono messi l’elmetto, occorre allora disobbedire, perché qui ne va davvero della civiltà; discriminare un altro solo sulla base della sua nascita, della sua appartenenza a una nazione, è un atto discriminatorio e razzista. Non vogliamo che i nostri teatri, i nostri stadi, le nostre università, le nostre piazze diventino altrettanti fronti di guerra”
La guerra diventa anche battaglia per controllare l’opinione pubblica. Per prevenire la propaganda russa in occidente, l’Ue intende vietare la trasmissione dei mezzi d’informazione statali russi Rt e Sputnik. Il Cremlino, da parte sua, ha bandito i canali critici del potere in Russia e ha inasprito le leggi relative ai media. Anche se le misure adottate in Europa non sono paragonabili alla censura russa, i mezzi di comunicazione chiedono il mantenimento della libertà di opinione.
La Repubblica Ceca ha chiuso diversi siti filorussi accusandoli di “istigazione all’odio”. Una decisione sbagliata, secondo l’opinione di Martin Komárek apparsa
su Deník: “Le opinioni filo-Putin e le fake news sono una minaccia per la nostra sicurezza? La risposta è no. La maggioranza dell’opinione pubblica condanna l’invasione dell’Ucraina. Molte persone stanno offrendo aiuto. Può una manciata di troll cambiare tutto questo? Appoggiare l’aggressione è un crimine. Ma ciò non significa che sia una buona cosa mettere a tacere le piattaforme che potrebbero farlo. La libertà di opinione è uno dei beni più preziosi della democrazia. Se vogliamo la libertà, dovremo sopportare le bugie, ma senza crederci”.
Secondo Ben Krischke, sul mensile tedesco Cicero, si tratta di un pericoloso precedente: “Un divieto del genere viola chiaramente i princìpi della libertà di stampa e della libertà di opinione, e potrebbe avere gravi conseguenze per il pluralismo alle nostre latitudini. Quando applichiamo una censura una volta per controllare l’opinione pubblica, qualunque sia la nobiltà delle ragioni per giustificarla, rischiamo di farlo una seconda volta, prima o poi. La differenza è che la prossima volta o quella dopo non colpirà più solo i mezzi d’informazione propagandisti, ma forse anche coloro che, nel dibattito pubblico, si rifiutano di trasmettere certe storie qualificate come ‘verità’ dai leader, quando in fondo si tratta solo di opinioni”.
In prima pagina e nel suo editoriale, il quotidiano danese Politiken si rivolge direttamente alla popolazione russa, nella lingua di Puškin: “Le sanzioni che isoleranno e impoveriranno la Russia renderanno la vostra vita più difficile. Il loro obiettivo non è prendere di mira la popolazione russa, ma aiutare l’Ucraina e il vostro stesso popolo. Diciamo no alla sanguinosa aggressione del presidente Putin. Diciamo sì alla Russia e alle persone che meritano di meglio di Putin e della sua autocrazia assassina e dispotica. E come quotidiano danese, diciamo prima di sì alla copertura giornalistica onesta e sincera di questa atroce guerra, in cui il vostro presidente ha precipitato l’Ucraina e il resto d’Europa”.
Il punto alle 16
Voci da Charkiv
Il sito d’informazione francese Mediapart ha parlato con alcuni abitanti della città di Charkiv, nell’est dell’Ucraina, dove abitano 1,4 milioni di persone assediate dall’esercito russo.
Vladimir Putin pensava di ripetere quello che era era riuscito a fare in Crimea nel 2014: conquistare Charkiv senza combattere. Ma si sbagliava. Dal 24 febbraio la seconda città dell’Ucraina è sotto assedio.
I bombardamenti contro i quartieri residenziali e diversi edifici amministrativi nel centro della città hanno finito per convincere la popolazione, per lo più di lingua russa, a “non voler essere liberata dalle bombe di Putin”, racconta Sergej, un abitante della città. Charkiv, 1,4 milioni di abitanti, situata nel nord dell’Ucraina a due passi dalla Russia, è un concentrato di tutta la complessità del giovane stato ucraino. Da un lato i trionfali edifici sovietici che hanno fatto la gloria di questa ex capitale, un’economia fortemente industriale (aerei, carri armati, trattori, eccetera), a lungo concentrata nelle esportazioni verso Mosca. Nel 2014, quando il Cremlino accendeva la miccia nell’estremo oriente dell’Ucraina, i militanti separatisti tentarono perfino di issare la bandiera russa sopra l’edificio dell’amministrazione regionale. Dall’altro lato, l’università di Charkiv – dove hanno studiato migliaia di studenti, soprattutto africani o arabi – che, dall’indipendenza dell’Ucraina, ha coltivato una ricca tradizione intellettuale, culturale e politica. La città ha intrapreso anche una vera svolta economica, investendo massicciamente nelle nuove tecnologie, “che possono essere vendute ovunque nel mondo e non solo alla Russia”, spiega Sergej. La grande statua di Lenin che un tempo dominava la piazza centrale è stata abbattuta nel 2014.
Chiudere gli occhi
Dal 2014, racconta poi un’altra abitante, Anna, molti sia all’est sia all’ovest del paese, hanno chiuso un occhio sulla breccia aperta dall’annessione della Crimea, nonché sul conflitto congelato intorno alle due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, che da solo ha il pesante bilancio di 13mila morti e 730mila sfollati. “Solo i pochi che lavorano per le organizzazioni umanitarie internazionali hanno visto da vicino cosa sta succedendo lì”, dice Anna. “Il resto di noi si è concentrato sui propri affari… Tutti si sono in qualche modo abituati alla situazione e alla propaganda dei mezzi d’informazione. Non nego che qualcuno ancora sogni la Russia, ma lo scenario più spaventoso è diventare come quelle repubbliche autonome”.
Lo spettro del separatismo, e soprattutto l’aperto intervento militare russo in questi giorni, ha compattato l’unità del popolo ucraino. Sergej spiega di essere uno di quei russofoni che hanno sostenuto “la prima e la seconda Maidan” (le proteste del 2004 e del 2014). “La questione etnica, se sei russo, ucraino o ebreo, ora non ha importanza. Anche se, per me, la questione linguistica è più complicata. Ritengo che i leader di questo paese mi abbiano reso un cittadino di terza classe negli ultimi anni. Ma a dire il vero, non importa ora che siamo in guerra”.
“L’impressione comune è che l’esercito ucraino resisterà fino alla fine”, conferma un’altra ragazza, Anastasia. “E anche se le autorità lasciassero entrare i russi, gli abitanti non accetterebbero una tale occupazione. Lo so perché chi avrebbe mai immaginato di vedere professori universitari, medici, dentisti, donne, uomini iscriversi e mettersi in fila per difendere la propria città?”.
Navalnyj invita a scendere in piazza
Il politico russo d’opposizione russo Aleksey Navalnyj, attualmente in carcere, ha invitato la popolazione di Russia, Bielorussia e altri paesi a intraprendere azioni quotidiane contro l’invasione russa dell’Ucraina. Un post con questa esortazione è stato pubblicato sull’account Instagram di Navalnyj e su Twitter dalla sua portavoce, Kira Yarmysh.
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— Кира Ярмыш (@Kira_Yarmysh) ?
“Navalnyj invita a protestare contro la guerra ogni giorno alle 19 e nel fine settimana alle 14, nelle piazze di ogni città, ovunque voi siate”.
La Polonia al centro della solidarietà dell’Europa
Il governo di Varsavia si è mobilitato per accogliere i profughi ucraini ed è diventato uno snodo per le forniture belliche e umanitarie inviate dall’Ue, che ora vive una storica inversione di rotta infrangendo il tabù della “potenza”. Il commento di Pierre Haski.
Il punto alle 10
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