Il secondo lungometraggio di Payal Kapadia, primo film indiano (per di più indipendente) a vincere il Grand prix a Cannes, comincia con il caos di Mumbai, che però sembra diverso dal solito. C’è un senso del ritmo nel disordine, una qualche forma di destrezza nel navigarlo. Lentamente il ritmo rallenta fino a soffermarsi sul volto pensieroso e stanco di una donna su un treno, con il paesaggio che scorre veloce dietro di lei. La scena è quasi ipnotica. Poi quando abbiamo fissato il suo volto nella nostra mente, il ritmo cambia di nuovo e ci ritroviamo nel caos della città. Queste prime immagini stabiliscono in modo magistrale i battiti poetici di All we imagine as light, un capolavoro per la forza del linguaggio visivo e per la tenerezza della storia che racconta. La donna sul treno è Prabha, un’infermiera, che divide la casa con Anu, anche lei infermiera, più giovane e inesperta. Le due donne, entrambe trapiantate dal Kerala, passano tanto tempo insieme eppure hanno dei segreti l’una per l’altra. Prabha non sa che Anu ha un fidanzato musulmano. E Anu non sa che Prabha è divorata interiormente dalla lunga assenza del marito che, emigrato in Germania, non le dà più notizie da tempo. La città appartiene a tutti e a nessuno. Si può rimanere anonimi, ma non si è mai completamente liberi. Kapadia non mette in primo piano la politica che però pulsa silenziosamente in tutto il film, soprattutto nella storia di Parvati, amica di Prabha, prossima allo sfratto perché non può dimostrare che il marito alla sua morte le ha lasciato la casa. Ed è anche nella rappresentazione della storia d’amore “proibita” di Anu. Parvati decide di andarsene (prima che qualcuno la costringa a farlo) e le due infermiere decidono di accompagnarla nella città sulla costa di cui è originaria. A quel punto tutto cambia. Il ritmo, le inquadrature, la luce e con loro l’umore delle tre amiche. Intrecciando i fili delle loro speranze e dei loro desideri, Kapadia ha creato un dramma profondo e intimo, concentrato sulle vite interiori di tre donne indiane lavoratrici. Un promemoria che la speranza si può ancora vedere all’orizzonte, come il primo raggio di luce dopo la più scura delle notti.
Pahull Bains, Mint
Francia / India / Paesi Bassi / Lussemburgo 2024, 115’. In sala
Francia 2024, 93’. In sala
Quando La storia di Souleymane è stato proiettato a Cannes nessuno avrebbe potuto immaginare che sarebbe uscito in sala in un contesto politico ancora più pesante e minaccioso. L’attore principale del film, Abou Sangare è un operaio di origine guineana, arrivato in Francia a sedici anni e, sette anni dopo, ancora senza documenti. Ha prestato il suo carisma e la sua espressività a Souleymane, che invece è un fattorino, ma vive più o meno la stessa precaria situazione. La sua vita quotidiana è una corsa a ostacoli permanente: non deve solo consegnare pacchi, ma mantenere vivo il sogno della fluidità delle merci per chi invece i documenti ce li ha già.
Didier Peron, Libération
Oltre a confermare che le pietre sono tutt’altro che oggetti inerti, con il loro documentario in tre parti, formalmente diverse l’una dall’altra, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti ci invitano in un viaggio nel mondo, che non è il nostro, ma quello che condividiamo con animali e piante. Bestiari, erbari, lapidari è un’opera educativa, ma anche profondamente coinvolgente. Una specie di miracolo terapeutico, commovente e informativo al tempo stesso.
William Stottor, Loud & Clear
Il film ha un’impostazione familiare con al centro un racconto confortante. Ma guardandolo come si guarderebbe un dipinto, davanti a noi si apre un mondo completamente nuovo. Roz è un robot con una voce femminile finito ai margini di una foresta. Persa in questo mondo naturale interagisce con gli animali, impara il loro modo di vivere e finisce per prendersi cura di un papero appena uscito dal suo uovo. Sanders crea una dissonanza visiva tra robot e natura che in definitiva alimenta l’idea centrale del film.
Bilge Ebiri, Vulture
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