A spasso tra le meraviglie della street art di Roma
L’Art Tribune ha definito Roma “la capitale europea della street art, per qualità e quantità di opere, per la loro concentrazione omogenea tra centro e periferie, per il lavoro straordinario svolto in sinergia da associazioni culturali e amministrazioni, a favore di una produzione legale, pianificata e ben intrecciata con il tessuto cittadino”.
Il punto di partenza sta nella forza e nella vitalità della street art all’interno del mondo dell’arte contemporanea. Il cammino, però, è segnato dalle contraddizioni e va dritto dentro la storia dell’arte.
Il primo paradosso è questo: un’arte nata sulla strada, con artisti che per anni si sono sentiti chiamare vandali, che rischiavano e subivano (e spesso subiscono ancora) denunce e processi, diventa legale, pianificata, riconosciuta.
Il secondo è quello legato ai quartieri: un’arte principalmente delle periferie che nasce con intenzioni di denuncia sociale, di protesta magari, di racconto delle realtà più difficili o scomode, che spesso ha arricchito le pareti di spazi sociali e occupazioni abitative per “proteggerle” da un’eventuale demolizione (come a Roma nei casi dell’opera di Blu a Porto Fluviale, per esempio, o l’esperienza di Metropoliz), rischia di diventare elemento determinante nei processi di gentrification, ovvero la riqualificazione di alcuni quartieri ai margini del centro storico.
Un’arte nata sulla strada, con artisti che per anni si sono sentiti chiamare vandali, diventa legale
Questo processo passa spesso attraverso speculazioni immobiliari e costringe i residenti, quelli che ci abitano da sempre o quelli che li avevano scelti proprio perché più economici, a trasferirsi più lontano per l’aumento dei prezzi degli immobili e delle attività commerciali e di ristorazione.
Paradossi frutto di un cambiamento, di un momento di passaggio delle opere d’arte sui muri e del ruolo degli artisti, della definizione adottata di volta in volta (street art, arte contemporanea, arte e basta con i suoi vari generi). Paradossi di un periodo in cui nascono progetti finanziati – sempre nelle periferie, sia perché legati all’idea di diffondere e condividere arte e stimoli culturali, sia perché i muri del centro non si possono dipingere, per i vincoli della soprintendenza – e perfino figure come quella dei curatori e dei committenti.
Roma è piena di street art, e non da poco tempo.
Artisti come Hogre, Sten&Lex, Blu, Ericailcane, Tellas, Alice, Lucamaleonte, Diamond, Mr Klevra, per citarne solo alcuni, dalla fine degli anni novanta hanno dipinto muri, sottopassaggi, vecchie stazioni, pareti di centri sociali e case occupate. Moltissimi sono i writer, quelli che lasciano i loro tag, alcuni oggi sono passati ai dipinti, come Lek&Sowat. Chi è abituato a camminare guardando i muri li conosce e li sa riconoscere: dai soggetti, dal tratto, dalla poetica.
Dal Forte Prenestino all’ex Snia, dal Cinodromo a Casale De Merode, fino a Metropoliz.
Metropoliz, “la città meticcia”, è un’occupazione abitativa in fondo alla via Prenestina, dove vivono più di duecento persone di origine molto diversa, dai ghaneani ai rom, dai peruviani agli italiani. Un’area molto vasta con un edificio enorme dotato di una torre, che era un salumificio, al centro del cortile un razzo pronto a partire verso la luna con i messaggi dei residenti, i bambini che giocano a pallone. Vasi di fiori davanti alle abitazioni, l’aspetto curato e trascurato assieme di molte occupazioni. I dipinti sono sui muri delle casette del cortile, in una grande sala al piano terra della torre e sulle pareti esterne.
Chi è abituato a camminare guardando i muri li conosce e li sa riconoscere: dai soggetti, dal tratto, dalla poetica
Nel 2012, da un progetto di Giorgio de Finis in collaborazione con i Blocchi Precari Metropolitani e con i residenti, nasce così il Maam: Museo dell’altro e dell’altrove, con l’intento esplicito di dare valore a quelle pareti, a quel luogo, renderlo più sicuro per le persone che ci abitano.
Sui muri di Roma, come a Ostiense e a Testaccio, si trovano poi le opere richieste e volute dalle amministrazioni e assegnate dai curatori, come Stefano Antonelli e Francesca Mezzano, che vengono dal mondo dell’arte contemporanea, quella delle gallerie e delle biennali, e con la loro associazione 999Contemporary hanno realizzato diversi progetti, come quello di Big City Life, a Tor Marancia, quartiere popolare tra la Cristoforo Colombo e la via Ardeatina.
Prima di loro, già dal 2010, David Vecchiato, che si firma Diavù, comincia a dipingere nei quartieri intorno alla Casilina e fa nascere, assieme a Giorgio Silvestrelli, il progetto M.U.Ro. Da allora hanno chiamato decine di artisti da tutto il mondo, hanno dipinto muri di abitazioni private al Quadraro, a Tor Fiscale, a Torpignattara. Organizzano tour e stanno sviluppando, assieme a Sky Arte, un’app che permetterà di individuare le opere sulla mappa e di sapere che dipinto si sta guardando e chi è l’artista.
Il Quadraro è un quartiere racchiuso tra la via Casilina e la via Appia, isolato dai due grandi acquedotti romani dell’Acqua Claudia e dell’Acqua Felice, diviso in due dalle quattro corsie della via Tuscolana. La parte vecchia è fatta di case basse con i giardini, molte sono le stesse che erano state costruite quando era ancora campagna, molte altre sono degli anni dopo la guerra.
È un quartiere unito dalla memoria della più grande deportazione di civili fatta a Roma dall’esercito nazista, dopo quella del ghetto degli ebrei, voluta e diretta dal colonnello Kappler per colpire gli abitanti del quartiere che più aveva aderito alla resistenza e che il console tedesco di allora aveva chiamato “nido di vespe”.
Furono deportate 947 persone e meno della metà riuscirono a tornare a casa. Il rastrellamento, avvenuto all’alba del 17 aprile 1944, è memoria viva tra gli abitanti del Quadraro, grazie anche alle molte associazioni culturali che ogni anno organizzano letture, dibattiti, spettacoli, di qualità e molto partecipati.
I curatori del progetto M.U.Ro hanno raccontato la storia e le storie del quartiere agli artisti, per permettergli di inserire le loro opere in un contesto. Così Lucamaleonte dipinge il vespaio, mentre lo statunitense Ron English, che non si tagliava i capelli da quando era morto suo padre, va a farseli tagliare da Gino, lo storico barbiere di via dei Quintili. Quest’anno, in occasione del 17 aprile, grazie anche a un bando del municipio e con l’aiuto degli studenti delle scuole, M.U.Ro dipinge un sottopassaggio con un arcobaleno e fotografa i ragazzi e gli altri residenti con un pigiama a righe e una scarpa in mano, davanti all’ingresso del tunnel.
In questi giorni David e Giorgio sono impegnati a seguire e accompagnare Nicola Verlato, artista di fama internazionale impegnato per la prima volta in un’opera su muro. Sta dipingendo sulla parete di una palazzina privata in via Galeazzo Alessi, a Torpignattara: Pasolini che precipita nel vuoto, attraversa una specie di girone infernale e arriva a un sé stesso bambino che legge seduto in braccio a sua madre. Accanto a loro c’è Ezra Pound, che Pasolini aveva intervistato quando l’uno era già vecchissimo e l’altro molto giovane (un video dell’intervista si può vedere sul sito di Rai letteratura), e l’opera racconta il rapporto perduto di Pasolini con la poesia.
In un altro quartiere di periferia, questa volta in fondo alla via Tiburtina, dopo Rebibbia e prima del grande raccordo anulare, è nato il primo progetto di street art che partecipa a un bando pubblico e lo vince.
Siamo nel 2012 a San Basilio, una delle dodici borgate costruite dal fascismo nell’agro romano, in cui erano stati mandati a vivere gli sfollati del centro, quelli che abitavano nelle case buttate giù per fare le nuove strade volute da Mussolini, e gli immigrati: abruzzesi, pugliesi, sardi e siciliani, veneti e marchigiani, gli italiani poveri che a Roma cercavano una vita migliore. A guerra finita il quartiere crebbe per via della costruzione di nuove palazzine volute dal piano Marshall.
L’8 settembre del 1974 erano già diversi giorni che 150 famiglie che avevano occupato alcune palazzine dell’Iacp (l’attuale Ater, l’ente pubblico delle case popolari) resistevano ai tentativi della polizia di sgomberarle. In solidarietà erano arrivati anche molti manifestanti da tutta Roma. Tra loro c’era un ragazzo di 19 anni, Fabrizio Ceruso, militante del Comitato proletario di Tivoli, che quel giorno fu ucciso dalla polizia.
Oggi quelle palazzine popolari, tutte dell’Ater (le chiamano lotti e spesso sono identificate con un numero) appaiono aggraziate e quasi dolci, non tanto alte e con i cortili davanti oppure al centro, soprattutto se paragonate ai più recenti palazzoni di altre periferie.
A San Basilio c’è il mercato e un via vai di persone che fanno la spesa, entrano al bar, portano i bambini nel parchetto davanti alla chiesa del santo che dà il nome al quartiere, ritratto da un mosaico colorato sopra l’architrave.
Incontriamo Simone Pallotta, dell’associazione culturale Walls, ideatrice e curatrice del progetto SanBa: un progetto di arte pubblica partecipata, decisa assieme agli abitanti. SanBa ha vinto il bando del comune di Roma “RomaCreativa” nel 2014, ed è stato finanziato dalla fondazione Roma. Con trentacinquemila euro hanno realizzato quattro murales su quattro facciate delle palazzine dell’Ater, di artisti di fama internazionale come lo spagnolo Liqen e l’italiano Agostino Iacurci; hanno organizzato laboratori nelle scuole e nel centro anziani, hanno chiamato una banda musicale che ha attraversato il quartiere per festeggiare le opere finite.
Nel 2015 hanno realizzato altri sei murales, tutti dello stesso artista, Hitnes, sulle palazzine più lontane: un orso, un gatto, fagiani, pavoni e papere che guardano un parchetto dall’aria un po’ malandata, alle spalle una campagna desolata. Ci andiamo assieme a Simone e a un gruppo di ragazze e ragazzi che arrivano da tutta Italia perché Walls è la capofila di un progetto europeo sull’arte e lo sport nelle città. Simone ci descrive i dipinti, ce li racconta, un ragazzino gioca con il suo cane e io mi chiedo come dev’essere avere dodici anni in questo quartiere. Simone, giovane critico d’arte con un passato da writer, “proprio quelli dei treni”, è riuscito a unire le sue competenze accademiche alla conoscenza dal di dentro del mondo dell’arte di strada, creando una figura originale di curatore di arte pubblica e urbana, oltre che di mediatore culturale, visto il tipo di intervento realizzato nel quartiere.
Anche qui, nello stesso quartiere, su palazzine molto simili tra loro, convivono opere che hanno origini molto diverse: vicino alla chiesa, all’angolo un bar alimentari, davanti il mercato, l’immagine del santo occupa un’intera facciata. Lo stile riprende quello del mosaico della chiesa, ma qui il santo, a figura intera, ha in mano un paio di tronchesine con cui spezza un lucchetto, quello delle case da occupare.
In basso, a sinistra, le case del quartiere, la gente sul tetto e sulle strade; a destra il muro è bianco, la scritta “censura” in rosso nasconde le immagini dei poliziotti, diventati dei maiali, che caricano gli occupanti. Il dipinto è di Blu, è stato fatto per ricordare i giorni di protesta del 1974 e soprattutto Fabrizio Ceruso, e i poliziotti maiali sono stati cancellati dai vigili urbani e dai carabinieri.
Ma ve posso chiede’ ‘na cosa? Ma com’è che viene tutta ‘sta gente a fare le foto al muro?
Mentre io lo guardo e Simona lo fotografa, una signora con i sandali ai piedi e un piumino lungo fino alle ginocchia ci dice: “Brave che lo fotografate, è un dipinto bellissimo”, e poi esprime tutto il suo sdegno per quella censura. Ci dice che la cultura è l’unica arma, ci parla a lungo del suo quartiere, da quando erano tutte baracche alla morte di Ceruso, le storie di ieri e quelle di oggi: “Che c’è solo cocaina perché ce vojono rimbabiti”.
Mentre ci allontaniamo, un signore che chiacchiera con gli amici appoggiati a una vecchia Cinquecento bianca, ci chiede se vogliamo la foto del dipinto prima della censura, loro si dicono d’accordo con quell’azione compiuta dalle forze dell’ordine: “Va bene il disegno ma non bisogna offendere nessuno, anche perché l’artista se n’è andato ma noi qua ci rimaniamo”.
Quando li salutiamo il signore della foto ci dice: “Ma ve posso chiede’ ‘na cosa? Ma com’è che viene tutta ‘sta gente a fare le foto al muro?”.