Il porto dove si incrociano le storie di emigrati italiani e africani
Al porto di Civitavecchia, due ore prima dell’imbarco, le automobili occupano già la banchina, in quattro file ordinate: motori spenti, qualche portiera aperta, la maggior parte è chiusa e controllate a distanza.
Le persone, uomini e donne, molti bambini e bambine, adolescenti, stanno all’ombra sotto una tettoia o al fresco artificiale dentro la biglietteria. Sono le tre del pomeriggio, il caldo di un agosto molto caldo.
La nave partirà alle cinque e mezza, si fermerà a Palermo e arriverà a Tunisi alle quattro e mezza di domani. Immagino questo viaggio che dura quasi un giorno intero, in questa nave di tunisini emigrati e pochi turisti, lo immagino simile a quelli per Cagliari o per Porto Torres, che dura un po’ di ore in meno ma non tante, comunque la notte, la cena portata da casa da mangiare ai tavolini del bar, oppure sul ponte, qualcuno in cabina, l’improvvisa familiarità con gli estranei con cui si condivide il viaggio.
Le auto che aspettano di essere imbarcate sono vecchie e nuove Fiat, Ford, Citroen, Mercedes, multiple e furgoncini, hanno targhe tedesche, belghe, francesi, italiane. Il volume raddoppiato da portapacchi gonfi, da lontano strane forme colorate.
Da vicino sono sedie, tavoli, motorini, biciclette. Due biciclette e un vecchio Sì. Una mountain bike e una Vespa. Il manubrio di una Vespa e mobiletti in vimini. Due tricicli, un frigorifero e quattro bici da donna. Dentro le auto, vuote di persone, cofani pieni e sedili posteriori con sopra forni a microonde e frullatori, ferri da stiro e giochi per bambini.
Ricordo, quando ero bambina e ragazzina, la gioia di agosto che portava i miei coetanei figli di sardi emigrati in Germania, in Svizzera, nel nord Italia, in Belgio o in Olanda. Arrivavano in auto, dopo chilometri di Europa e molte miglia nel Mediterraneo, e per un mese erano di nuovo sardi come noi, nei nostri paesi lontani dal mare, orti e cortili, nonni e zii.
Arredare la casa di giù
Arrivavano i miei cugini, arrivava Rosa e arrivavano Stefano, Giovanni e Giuseppina, ogni anno un po’ più grandi e con cose sempre nuove da raccontare. Parlavano italiano con l’accento straniero, mischiandolo con il sardo e con il tedesco, il francese o l’inglese, lingue che poi sfoggiavano lasciandoci ammirati quando parlavano con i fratelli o con i genitori.
Indossavano vestiti di marche che da noi non si trovavano, conoscevano gruppi musicali alla moda e come andavano a finire i telefilm che tutti guardavamo.
Le stesse facce, sul molo del porto di Civitavecchia, il bimbo di un anno che i nonni ancora non hanno conosciuto, quella di dodici che è diventata nel frattempo una signorina, quello di quattordici a cui sono cresciuti i baffi, da un agosto all’altro, da una vacanza all’altra. Sono bambini tedeschi, belgi, francesi, italiani: i loro genitori in Europa da dieci o quarant’anni, ritornano al paese per le ferie, le auto nuove da esibire e i doni da distribuire.
Chiedo a un ragazzo con la barba e l’accento toscano perché il suo Fiorino è colmo di mobili, mi dice che sono per arredare la casa di giù, “con i mobili in legno e ottone, come piacciono a me”. Un signore dice che le biciclette sono per i nipoti, gli elettrodomestici per il cugino che si sposa. Samir, il figlio in braccio, dice che non è vero niente, che venderanno tutto.
Regali per restituire qualcosa a tutti quelli che a partire ti avevano aiutato
Sono vere entrambe le cose, capisco parlando con Francesco Bachis, antropologo dell’università di Cagliari che studia le nuove migrazioni transnazionali.
In parte, soprattutto le auto, i motorini e le biciclette, i pezzi di ricambio, i mobili, saranno rivenduti, in modo più o meno legale, più o meno organizzato.
In parte sono regali da fare ai parenti, agli amici, a quella rete che ha aiutato economicamente quando è stato il momento di partire, di abbandonare la terra, la comunità. Regali che servono a dimostrare il successo del processo migratorio, a dire a tutti guardate ce l’ho fatta, ho sofferto e fatto soffrire, ma è servito a qualcosa.
Regali anche per restituire qualcosa a tutti quelli che a partire ti avevano aiutato, una rete estesa di persone, parenti e amici, e ai parenti e agli amici di quelli che ti hanno aiutato quando sei arrivato in Germania, in Svizzera o in Olanda. Qui da noi l’emigrazione normalmente aveva un peso minore sulla comunità, si partiva soprattutto dopo aver accumulato con il proprio lavoro.
Il vuoto che rimane
In Tunisia, in Marocco, in Senegal, i progetti migratori si attivano invece di solito grazie al contributo di una famiglia allargata, di una rete ampia.
Nelle facce che aspettano la nave la stessa attesa della partenza, la stessa emozione, il senso di sollievo all’idea che per un mese, per queste ferie di nuovo potranno riprendere le vecchie abitudini, salutare le persone che sanno chi è tuo padre e chi è tuo nonno, che conoscono il soprannome che avevi da ragazzino, le persone a cui non devi raccontare chi eri, ma chi sei diventato.
Ritrovare gli odori, i rumori, la luce del pomeriggio quando fa troppo caldo per uscire di casa. Un mese da godere intero, ogni minuto, prima dell’arrivo di settembre, prima di ricaricare le auto di spezie e teiere, di ritrovarsi tutti in strada per gli abbracci, gli auguri, i consigli dell’ultimo minuto.
Il vuoto che rimane quando l’auto ha girato e sono spariti i visi, le mani che si muovono in segno di saluto. Prima di ritornare alle vite nuove, dall’altra parte del Mediterraneo.