I migranti invisibili d’Algeria
Hanno messo dei tappeti sul pavimento e delle grandi tende dorate che dividono in due l’ambiente, isolando la zona notte. Un dondolo di plastica per bambini è incastrato accanto a un tavolinetto da cucina. Tutto per far dimenticare che ci si trova in un garage. D’altronde è la fine di novembre e comincia a fare freddo. Seduto in una poltrona, John (i nomi sono stati cambiati) promette che troverà una soluzione prima che la temperatura crolli. E invita il visitatore a non parlare troppo forte. C’è solo una tapparella di legno a separare il locale dalla strada.
A Coca, quartiere popolare della periferia di Orano, la decima città algerina, è meglio non farsi notare, soprattutto se si è neri e senza documenti. John, padre di famiglia di una trentina d’anni, arrivato dalla Liberia nel 2010, vive qui con la moglie Gloria e con i loro due bambini di quattro e due anni, nati entrambi in Algeria. Aveva già attraversato la frontiera algerina cinque volte tra il 2008 e il 2010, ma era stato sempre respinto. Dopo il conflitto in Mali, l’Algeria ha smesso di ricacciare sistematicamente i clandestini nel deserto.
Per questo gelido garage pagano 15mila dinari (circa 130 euro). “Facciamo dei lavoretti in nero, ma siamo senza documenti e quindi non abbiamo il diritto di lavorare o di prendere in affitto un alloggio”, spiega John. La cosa che più preoccupa la coppia è il fatto che i bambini non vanno a scuola. Fanno su e giù sovreccitati nel garage riadattato e scarabocchiano su un blocchetto.
“Qui puoi passarci vent’anni e sarai sempre allo stesso punto, come se fossi appena arrivato”, sospira.
Paese di emigrazione, per molto tempo l’Algeria ha offerto l’immagine degli harraga, i giovani algerini che partivano clandestinamente in barca per raggiungere l’Europa. Benché non sia del tutto scomparso, questo fenomeno è diminuito. Il ritorno alla pace dopo la decennale guerra civile degli anni novanta, l’aumento del numero dei visti per la Francia e i controlli delle autorità hanno contribuito a scoraggiarlo. Di contro, da qualche anno il paese è diventato la tappa di molti migranti subsahariani. Quanti sono? Le autorità azzardano la cifra di 20mila clandestini, mentre le associazioni che lavorano sul campo parlano di più di centomila cittadini subsahariani sul suolo algerino.
Una tappa sulla strada dell’esilio
Partiti dal Camerun, dalla Nigeria, dal Mali o dalla Costa d’Avorio con l’obiettivo di raggiungere l’Europa, si sono fermati in Algeria. Ci rimangono per alcuni mesi o anche anni, il tempo di rimettere insieme un po’ di soldi per proseguire il viaggio. A volte rinunciano, scoraggiati dalle difficoltà. Si stima che a Orano siano quattromila. Si tratta di una città molto apprezzata, sia perché è ritenuta più aperta del resto del paese, sia perché si trova sulla strada che porta alla località di Maghnia, al confine con il Marocco. Da lì è possibile raggiungere il suolo europeo attraversando la barriera delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, oppure via mare, a proprio rischio e pericolo.
Irène, una giovane volontaria, è partita da Douala sei anni fa. Ha lasciato il Camerun con una laurea in giurisprudenza in tasca e l’idea di trovare lavoro in Europa. Si è messa in marcia dopo aver venduto tutte le sue cose. Prima tappa, la Nigeria (Lagos e Kano), poi il Niger (Maradi e Zinder, a sud, prima di Agadez, ai confini con il Sahara e il Sahel).
“È lì che succede tutto”, racconta oggi scegliendo con cura le parole. “Quando arrivi alla stazione c’è un sacco di gente, ti chiedono subito dove vuoi andare”.
Dopo una settimana di attesa è salita a bordo di un camion diretto ad Arlit, una città mineraria del Niger settentrionale. A corto di denaro, ha venduto la borsa e il cellulare per settemila dinari. Il resto del viaggio è avvenuto su un fuoristrada fino a Tamanrasset, nel sud algerino. “In realtà ti lasciano diversi chilometri prima, nel deserto, e ti orienti con le luci della città”.
In Algeria i migranti affrontano una società poco abituata alla dimensione multietnica, in cui il razzismo è forte
Irène è rimasta lì finché un nigeriano coinvolto nel traffico di clandestini non le ha proposto di lavorare ad Algeri per un suo fratello che cercava una persona che parlasse francese. “Arrivando, ho capito subito che ero caduta in una sorta di matrimonio. Ho ceduto”, confessa. “Se sei una donna in un mondo sconosciuto, l’unica protezione è mettersi in coppia, stare con un uomo che si prende cura di te”. Alla fine Irène ha lasciato Algeri e ha raggiunto Orano, dove oggi aiuta i migranti che arrivano.
“La presenza dei migranti non è nuova, ma è diventata evidente solo dopo l’arrivo dei nigerini nel 2014”, sottolinea Leïla Beratto, corrispondente in Algeria di Radio France Internationale, e impegnata da oltre un anno su questo tema.
Nell’estate del 2014, nelle grandi città del paese hanno fatto la loro comparsa donne e bambini nigerini. In un paese tradizionalmente chiuso, queste scene di africani neri che mendicavano nel centro delle città non sono passate inosservate. La reazione delle autorità algerine non si è fatta attendere. È stato siglato un accordo di rimpatrio con il governo nigerino e sono state fatte delle retate, soprattutto ad Algeri e a Orano. “Oggi, a causa della guerra in Mali”, precisa la giornalista, “non ci sono più espulsioni tranne che per i nigerini. Chi è arrestato per immigrazione clandestina rischia due mesi di prigione. È difficile dare delle cifre, ma il numero dei migranti aumenta. La durata media del soggiorno in Algeria si allunga. Oggi si stima che sia di tre anni”.
A parte la vicinanza con l’Europa, dal 2011 anche altri fattori hanno reso l’Algeria una destinazione attraente per chi vuole partire: la paura delle violenze in Libia, il degrado della situazione economica in Tunisia, dove è più difficile trovare lavoro, ma anche la guerra in Mali. L’Algeria, che per quindici anni ha beneficiato della manna del gas e del petrolio, figura anche come uno stato ricco della regione. Grazie ai prezzi calmierati dell’energia e di alcuni prodotti alimentari, è possibile viverci senza spendere troppo. Per rimettersi in sesto finanziariamente, ci si stabilisce qui.
Nel quartiere di Aïn Beïda, alla periferia di Orano, Joseph, un camerunense con molto senso dell’umorismo, spiega di essere arrivato nel 2009. Lavora nei cantieri, sempre più numerosi grazie al boom edilizio che sta vivendo la città. “È vero che qui accanto, in Marocco, ci sono molte associazioni che offrono aiuto, ma non c’è lavoro. E qui la vita costa meno”, conferma aggiungendo che comunque non ha rinunciato al progetto di partire per l’Europa.
Popolazioni vulnerabili
Come tutti, sa che non avrà né permesso di soggiorno né regolarizzazione, che nella legislazione algerina semplicemente non esistono. La mancanza di documenti crea persone prive di diritti. All’inizio di ottobre, un fatto di cronaca ha occupato le prime pagine dei giornali: Marie, migrante di 33 anni, è stata vittima di uno stupro di gruppo a Orano, ma ha avuto grandi difficoltà a farsi curare e a sporgere denuncia. Nel quartiere di Aïn Beïda, Diana, 27 anni, ha vissuto una storia abbastanza simile. In Algeria da due anni, per vivere cucina e vende piatti tradizionali. Una sera è stata aggredita mentre era con sua figlia. Giunta al commissariato, Diana è stata messa in prigione con la bambina per immigrazione clandestina. Anche lei ha una piccola baracca in affitto a 14mila dinari al mese. “Qui la gente non vuole saperne di noi”, spiega davanti ai fornelli.
All’inconveniente di essere neri si aggiunge quello di essere cristiani in un paese musulmano
In Algeria i migranti affrontano una società poco abituata alla dimensione multietnica, in cui il razzismo è forte. Di solito, all’inconveniente di essere neri si aggiunge quello di essere cristiani in un paese musulmano. Perciò cercano di farsi dimenticare il più possibile. La maggior parte di loro vive nei quartieri periferici, non in centro. Nelle strade di Orano è possibile vedere gli uomini che lavorano nei cantieri edili che fioriscono nella città. Le donne, costrette a rimanere a casa, soffrono un isolamento maggiore.
“Dal 2012, il lavoro di sensibilizzazione ha comunque cominciato a dare i suoi frutti”, osserva Charlotte de Bussy, responsabile di Médecins du monde in Algeria. “I mezzi d’informazione sono più interessati, le istituzioni pubbliche e la società civile cambiano atteggiamento”. Alla fine del 2010, quando l’ong è arrivata per migliorare l’accesso alle cure mediche, l’argomento era tabù. A parte la chiesa e alcune associazioni, ben pochi si occupavano di questa realtà. Si arrestavano i migranti negli ospedali, le donne partorivano ammanettate. È stato fatto un lento lavoro di informazione.
Recentemente il ministero dell’istruzione ha ricordato che tutti i bambini devono avere accesso alla scuola. Una piattaforma sulle migrazioni nata a metà dicembre, che raccoglie una decina di associazioni, riconosce l’importanza dei recenti passi avanti, ma sottolinea le persistenti discriminazioni e afferma la necessità di una legge sull’asilo.
“Si tratta di popolazioni vulnerabili, che subiscono violenze anche all’interno delle loro comunità, e che vivono nell’emarginazione”, dice Charlotte de Bussy.
A Orano, nel piccolo locale della diocesi in cui Médecins du monde ha creato uno “spazio migranti” dove sono immagazzinati coperte e oggetti di puericultura, si viene a cercare un po’ di sostegno, dei consigli. Cynthia, una camerunense sui vent’anni, era stata mandata in Libano per fare la collaboratrice domestica (per 230 euro al mese) prima di finire in Algeria, in una casa in cui è stata maltrattata e tenuta prigioniera, senza mai essere pagata. Il suo incubo è finito diversi mesi dopo, grazie a una vicina algerina che ha avvertito la polizia. Ora vuole rientrare a casa. “Tornerò a mani vuote”, commenta amaramente.
Quanto a Irène, esita. Nella sua testa c’erano dei sogni: andare in Europa e da lì in Canada (ha fatto tutto il viaggio con i titoli di studio in tasca). “Ci penso ancora”, confessa, “ma non voglio imbarcarmi”. Lo sa bene: alcuni sono riusciti a compiere la traversata (un suo parente ora si trova in Italia), ma tanti altri sono morti. Conosce anche le gravi necessità che ci sono qui. Ma, senza documenti e senza la possibilità di lavorare, è difficile immaginare un futuro in Algeria.
(Traduzione di Cristina Biasini)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Le Monde.