La famiglia australiana che ha scelto di vivere tra i profughi in Iraq
Il 9 giugno 2014 Tim Buxton, un operatore umanitario originario del Queensland, in Australia, è arrivato con la moglie Sarah e i loro tre bambini tra le montagne del Kurdistan iracheno, con un’idea coraggiosa per la cittadina di Soran.
La mattina dopo, la città di Mosul, che dista 150 chilometri, è caduta nelle mani del gruppo Stato islamico (Is) dopo una serie apparentemente inarrestabile di vittorie militari. Preoccupato, Buxton seguiva con la famiglia le notizie sull’espansione jihadista.
Diciotto mesi dopo, l’Is è ancora a Mosul. Ma, passato quel periodo terribile, alcuni territori conquistati nell’estate del 2014 sono stati riconquistati e il suo potenziale militare si è ridotto.
Anche Buxton è ancora a Soran, insieme alla sua famiglia.
Dopo quei momenti iniziali carichi di tensione, Tim ha costruito sei piccoli campi per i profughi cacciati dalla violenza jihadista, è sgattaiolato sul confine turco in piena notte, ha organizzato il salvataggio di alcune ragazze yazide rapite dagli estremisti e, nei rari giorni liberi, ha giocato con i figli su campi da sci abbandonati.
I figli, che hanno 5, 3 e un anno, quando vanno in Australia per l’estate, smaniano: “Quando torniamo in Iraq?”, gli chiedono. Ora, per loro, è casa.
Una città-rifugio
Soran è un posto che si dimentica facilmente.
Per anni, mentre la violenza infuriava in tutto il sud dell’Iraq, la regione autonoma del Kurdistan settentrionale era additata come esempio di un paese arretrato in cui la pace aveva portato stabilità e un pizzico di sviluppo.
Anche la posizione geografica aveva contribuito a rendere Soran un rifugio naturale. La città infatti è arroccata sui contrafforti dei monti Zagros, a 30 chilometri dal confine con l’Iran e a 40 dal territorio turco.
Per generazioni, la città è stata un’oasi per chi sfuggiva le persecuzioni di ogni genere: chi scappava dal regime iraniano, chi dalla brutalità imprevedibile di Saddam Hussein, chi ancora dalle repressioni delle minoranze attuate dal regime turco, tutti hanno scampo a Soran. Gli ultimi ad arrivare sono stati gli yazidi, i turkmeni e i cristiani caldei, cacciati dall’avanzata del gruppo Stato islamico.
“È stata una città-rifugio per decenni”, racconta Buxton, un luogo con un atteggiamento sempre ecumenico in una parte del mondo che a lungo è stata frammentata dalle divisioni religiose. Soran è nota anche col nome di Diana, la parola curda per cristiano, dagli assiri cristiani che ci vivevano inizialmente.
Ma gli ultimi disordini sono andati ben oltre le capacità di tenuta da parte di Soran.
“Alla fine degli anni ottanta c’erano 15mila abitanti in questa città, adesso sono 150mila. C’è stata una crescita esponenziale, con persone che arrivavano da ogni parte: curdi, yazidi, musulmani di etnia shabak, gente che cercava un posto dove essere al sicuro”.
Buxton, originario della Sunshine coast, è stato a Soran la prima volta nel 2010, nel quadro del suo lavoro sul terreno per conto della Times square church, a New York.
Buxton è orgoglioso della sua fede cristiana, ma con leggerezza. La sua conversazione è costellata di riferimenti a madre Teresa, William Wilberforce e Dietrich Bonhoeffer.
Lavora per World Orphans, un’organizzazione umanitaria di ispirazione cristiana con sede nel Colorado che si occupa di bambini, ma senza limitarsi ai cristiani perseguitati della regione. Nei campi che organizza convivono musulmani sciiti curdi assieme a yazidi e zoroastriani, più tutte le sfumature religiose che popolano il Medio Oriente.
“Siamo qui per le persone. Non ce l’abbiamo con chi ha un’altra fede. Sappiamo che la gente vuole solamente il meglio per le proprie famiglie, i figli e le comunità in cui vive”.
Dopo alcuni periodi di lavoro in Zambia, Colombia e a Gaza, Buxton ha capito di voler tornare a Soran perché, afferma, ha scoperto “che ce n’è tanto bisogno”.
Ma ci sono voluti tre anni (e un altro figlio) dalla prima visita perché la famiglia si sentisse pronta a trasferirsi in Iraq a tempo pieno. Con gli amici e la famiglia allargata è stato necessario smontare la convinzione semplicistica che l’“Iraq è pericoloso”.
“La prima cosa che abbiamo fatto è stata sederci attorno a un tavolo con le nostre famiglie per spiegargli che lavoro intendevamo fare, e che sarebbe stato sicuro. Mia moglie e i miei figli sono la cosa che amo di più al mondo. Non li metterei mai in pericolo in modo avventato. A Soran ci sentiamo al sicuro”.
La moglie, la statunitense Sarah Buxton, il cui precedente lavoro consisteva nell’occuparsi degli orfani in Sudafrica, all’inizio era restia a trasferirsi nel conflittuale Medio Oriente.
“La guerra è tutto quello che il mondo al di fuori di qui sa dell’Iraq, è ciò di cui parlano tutti i mezzi di informazione”, dice Sarah. “Ma quando ci vai e vedi il posto, incontri persone accoglienti, sincere e pacifiche, tutti quegli stereotipi crollano da soli”.
“Una volta giunti a Soran, non avevamo alcun modo di tornare indietro. Ma non avevo più paura, non avevo affatto l’impressione di mettere a repentaglio la mia famiglia, mi sentivo tranquilla”.
L’avanzata del gruppo Stato islamico
Appena due mesi dopo il loro arrivo a Soran, però, quella serenità d’animo fu messa a dura prova. Mentre i Buxton cercavano di creare un centro comunitario in mezzo alla città, il gruppo Stato islamico proseguiva la sua avanzata verso est.
Il 7 agosto 2014 i combattenti del gruppo Stato islamico conquistarono la diga di Mosul, la più grande dell’Iraq e centro strategico per le forniture idriche ed elettriche del paese. Si disse anche che i jihadisti premevano su Erbil.
Questo fece scattare l’allarme. World Orphans disse ai Buxton di andarsene.
“Abbiamo avuto paura solamente una volta”, spiega Tim Buxton. “È stato quando dovevamo fuggire ma gli aeroporti erano stati chiusi e i nostri voli cancellati. Era una situazione angosciante, pensavamo: ‘Dobbiamo partire e non possiamo’”.
“Abbiamo preso un taxi in una notte di mezza estate e ci siamo diretti verso la frontiera con la Turchia che era stata chiusa ai cittadini iracheni, senza sapere se invece per noi sarebbe stata aperta. Alla fine tutto è filato liscio, adesso sappiamo che ci sono altri modi per uscire dal paese, ma quello è stato un periodo difficile”.
Buxton, la sua famiglia e i suoi collaboratori hanno sviluppato una nuova filosofia per accogliere i profughi: ‘Comunità, non campi’
Le conquiste del gruppo Stato islamico sono durate poco e il 1 settembre i Buxton riuscirono a tornare a Soran. Il loro intento era quello di fondare e gestire un centro comunitario, ma il sindaco della città nel primo incontro li informò di una ventina di musulmani sciiti di etnia shabak che avevano occupato abusivamente un edificio in costruzione e da cui stavano per essere sfrattati.
“Non avevano un altro posto dove andare”, racconta Buxton. “Allora abbiamo utilizzato il terreno che avevamo allestendo un minicampo per loro”.
Le Nazioni Unite non operano a Soran ma avevano donato alla città alcune tende, che sono servite come base di partenza. Un pezzo alla volta, è nato un campo e da lì un nuovo programma, chiamato Refuge initiative.
Buxton si ricorda dei primi giorni, dei passi falsi e dei piccoli progressi graduali – “non avevamo nessuna idea di quello che stavamo facendo” – ma oltre alla normale gestione di un campo per farci vivere delle persone, a poco a poco Buxton, la sua famiglia e i suoi collaboratori hanno sviluppato una nuova filosofia per accogliere i profughi: “Comunità, non campi”.
“Questi gruppi di famiglie che sono scappate rimanendo unite, volevamo tenerle unite, conservare le loro strutture sociali, in cui i capi famiglia amministrano la comunità e mantengono l’ordine”.
“Non ci siamo andati per dispensare un nuovo modello di campo profughi, è piuttosto qualcosa che ci siamo ritrovati fra le mani. A volte pensiamo ancora di non avere nessuna idea di cosa stiamo facendo, però ogni circostanza serve a imparare qualcosa: cosa funziona, cosa no, in fondo proviamo a migliorare le cose un po’ ogni giorno”.
Soran ha esigenze che crescono col passare del tempo. Il campo originario ha ricevuto una sistemazione migliore, alla periferia della città, e ne sono nati altri due.
Spesso la quantità di profughi impone le condizioni dell’accoglienza. I megacampi di Za’atari, in Giordania, e di Jalozai, in Pakistan, non sono tali per scelta, ma per il solo fatto di dover ospitare una massa enorme di profughi in cerca di asilo. Ma l’esperienza di Buxton insegna che se è possibile avere dei campi più piccoli e autonomi, questi funzionano meglio.
“Nelle organizzazioni senti parlare della ‘regola dei 150’: quando hai più di 150 posti, diventa molto più difficile gestire tutto quanto. Il limite che abbiamo trovato per noi è fra le 20 e le 25 famiglie. Il primo campo che abbiamo avuto era più grande, fino a 42 famiglie, e c’erano maggiori problemi. In quelli più piccoli c’è più autonomia e più cooperazione”.
Ma anche la Refuge Initiative di Soran rientra in una tendenza globale più ampia, quella segnata da imprese individuali che vanno a colmare gli spazi nei quali i governi o le organizzazioni internazionali non possono o non vogliono intervenire.
È qualcosa che si manifesta in diverse maniere, dalle più grandi alle più piccole: ci sono austriaci che raggiungono a piedi le loro frontiere per accogliere i profughi in arrivo; c’è Chris Catrambone con la sua Moas (Migrant offshore aid station) che salva migliaia di profughi alla deriva nel Mediterraneo; e poi ci sono anche le strette relazioni nate tra queste nuove abitazioni a Soran.
I campi profughi non sono mai stati perfetti, e non lo sono neanche adesso. Si sono verificati degli inconvenienti. Quando è arrivato l’inverno, le tende hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza.
“Non è una bella favoletta. Succedono delle cose che non vanno bene. Ci siamo resi conto rapidamente che le tende non potevano reggere le condizioni atmosferiche. Lì abbiamo davvero toccato il fondo, la gente viveva in tende che venivano giù a ogni tormenta di neve e di solito dovevamo andare da loro al mattino, dopo che avevano passato una notte tremenda; non sapevamo proprio che fare per aiutarli”.
“Non avevamo soldi a palate, anzi qualche volta neanche due monete da un dollaro”.
Con il tempo, però, i Buxton hanno tirato fuori una soluzione, raccogliendo fondi da donazioni per la campagna “Dalle tende alle case”. Con un po’ di esperienza, sono riusciti a contenere in cinquemila dollari il costo per costruire a ogni famiglia una vera casa in muratura, completa di bagno, cucina e soggiorno con deumidificatore e stufa a kerosene – “per le condizioni meteo rigidissime” –, tetto con intercapedine per l’isolamento termico, fossa biologica, impianto elettrico e serbatoio idrico.
“Viene costruito tutto dalla gente di qui. Abbiamo un imprenditore edile che assume le maestranze locali, è tutto un sistema che gira, adesso”.
Aspettative in crescita
Secondo Buxton le persone impegnate nella Refuge Initiative sanno bene che molti individui di cui si occupano sono arrivati a Soran con traumi profondi. In decine di famiglie yazide gli uomini sono stati uccisi e le donne rapite dal gruppo Stato islamico.
Buxton racconta la storia di un uomo le cui due figlie erano state sequestrate. Il gruppo terroristico gli aveva telefonato chiedendogli un riscatto per lasciarle andare e minacciando di ucciderle se non avesse pagato. Erano soldi che non aveva, che nessuno ha a Soran. Buxton ne ha scritto sul blog, il suo post è stato letto da un funzionario dell’amministrazione regionale del Kurdistan che si è dato da fare per liberarle.
Le due donne sono state salvate e in seguito la famiglia si è trasferita in Germania.
“Quella storia ha avuto un lieto fine, ma ne sento ogni giorno e non finiscono sempre bene. Queste persone hanno sofferto tantissimo e a lungo”.
Sarah Buxton aggiunge che il trauma di essere sradicati dalla propria abitazione è più grave per le donne: soffrono già per il solo fatto di essere donne. Mentre gli uomini vanno al bazar o cercano lavoro, di rado le donne lasciano i campi. Lo sconvolgimento causato dalla fuga le ha strappate dalla loro sfera tradizionale, la casa.
“Quindi per me, come donna, è importante andare nelle comunità, mettermi a sedere insieme alle altre, condividere una tazza di tè e parlarci – non so bene il curdo e loro non parlano bene l’inglese, ma proviamo lo stesso a scambiare due chiacchiere. Per loro è importante sapere che c’è qualcuno che si prende cura di loro”.
La maggior parte dei bambini che arriva a Soran non sono andati quasi mai a scuola. “Abbiamo capito che, una volta assicurato un riparo ai profughi, era necessario tirare fuori dai campi i bambini”.
Il centro comunitario di Refuge Initiative è diventato la loro classe. Le lezioni si tengono di pomeriggio e quello che all’inizio era apprendimento ricreativo per tre giorni alla settimana, è cresciuto fino a cinque giorni di classi per 130 ragazzi, dai tre ai 18 anni. Ci lavorano cinque insegnanti del posto, musulmani e cristiani.
Buxton non sa quanto rimarrà in Iraq: ma ci starà finché potrà e finché sarà utile
Il programma di Refuge Initiative cresce, ma si tira dietro anche delle aspettative. “Dato che siamo l’unica organizzazione non governativa in città, la gente si aspetta che provvediamo a tutto. Sanno che l’ong è americana, quindi pensano che io abbia il numero di telefono di Obama, o che disponiamo di risorse economiche infinite, mentre la realtà è che dobbiamo sperare nelle raccolte di fondi (non saprei come altro definirle) per ogni singola cosa che vogliamo realizzare”.
Buxton non sa quanto rimarrà in Iraq: ma ci starà finché potrà e finché sarà utile.
Non gli piace sentirsi chiamare “missionario”. Il suo lavoro, protesta, non comporta fare proseliti.
Tuttavia ammette che il mondo può essere un luogo ostile per i cristiani – il rapimento di un anziano medico e della moglie in Burkina Faso a gennaio è stato un esempio lampante di quanto siano imprevedibili le regioni dilaniate dai conflitti.
E le tracce del conflitto non sono mai molto lontane dall’oasi creata dai Buxton sulla montagna. Il pericolo non viene sempre da dove lo si aspetta.
Quest’anno gli aerei turchi che bombardavano posizioni forse del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sui monti Qandil – ad appena 40 chilometri – hanno scosso le case di Soran.
Buxton dice di essere consapevole, con tutta la famiglia, delle sabbie mobili del conflitto in corso, ma di essere disposto a fare ugualmente quanto è nelle loro possibilità, fino a quando gli è consentito.
“Qui siamo come una famiglia”, aggiunge. “Vogliamo avere un impatto, nella misura in cui siamo in grado di fare la differenza per le vite delle persone in cui siamo. È una cosa che continua a entusiasmarci”.
Ai suoi figli, Elliana, Charlie e Lily, la “casa” in Iraq piace tantissimo, a detta dei genitori.
“La casa è dove c’è la famiglia”, dice Sarah. “I bambini si sono adattati in maniera straordinaria. Si vogliono bene e noi cerchiamo semplicemente di amarci a vicenda come una famiglia. Ma i miei bambini sono amati anche da tutta la gente di Soran. Hanno cercato di imparare la lingua e qualcosa sul nuovo posto dove vivono. So che si sentono protetti e al sicuro dove stanno, li abbiamo fatti sentire come a casa loro”.
Tim dice che la figlia maggiore, Elliana, è completamente a suo agio con la gente e la cultura locali e ha cominciato anche a imparare un po’ di curdo. “È molto estroversa e in curdo sa già dire ciao, arrivederci e contare”.
“E l’altro giorno mi ha chiesto: ‘Quando torniamo a casa in Iraq?’ Per loro, quel posto è casa. Non hanno timori – da adulti, possiamo proiettare le nostre paure sui figli, ma non ce n’è nessun bisogno”.
(Traduzione di Alessandro De Lachenal)
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.