Le piattaforme si vedono benissimo dalla litoranea tra Ortona e Vasto, in Abruzzo. Quella chiamata Ombrina mare, sei chilometri dalla costa, e più giù quelle di Santo Stefano, che estraggono gas: e non si può proprio dire che si fondano in quel paesaggio di colline a picco sul mare, spiagge protette dalle falesie, scogliere da cui si protendono i trabocchi – costruzioni di legno piantate in acqua, collegate a terra con pontili. Servivano per pescare, sono noti almeno dal settecento. D’estate diventano ritrovo di villeggianti: ma in queste giornate di fine inverno sono il regno di gabbiani e cormorani. Insomma, tra il verde e il mare corrucciato, quelle piattaforme per idrocarburi sembrano incongrue.

Del resto avrete la stessa strana impressione se risalite più a nord, oltre Pescara. Per esempio a Pineto, lungo la costa bassa che d’estate si anima di villeggianti, un lido dopo l’altro: guardate oltre la pineta, la spiaggia e il mare, ed ecco un paio di piattaforme di idrocarburi ben in vista (gli impianti Viviana e quelli del gruppo Fratello estraggono gas). Più a nord poi si infittiscono.

La mappa del ministero dello sviluppo economico è chiara: gran parte delle 122 concessioni attive nei mari italiani sono nell’Adriatico. Si aggiunga una ventina di istanze di ricerca e di concessione di “coltivazione” (è la metalingua degli idrocarburi: coltivazione è dove una compagnia ha il permesso di estrarre gas o petrolio). Insomma, tra la Romagna e la Puglia sono sparse decine di piattaforme collegate a centinaia di pozzi, indicate come Giovanna, Simonetta, Eleonora, tutti nomi femminili salvo qualche Squalo, Sarago e Vongola, e alcuni nomi di località costiere.

Per restare in Abruzzo ecco anche le piattaforme Rospo mare, che estraggono petrolio di fronte a Vasto, più al largo ma entro il limite delle 12 miglia nautiche che definisce le acque territoriali italiane. Ombrina è inattiva (è l’esito di una lunga battaglia civica). Ma presso il Mise giacciono decine di richieste (“istanze”) per la ricerca e per la “coltivazione” di idrocarburi anche a terra, in Abruzzo, oltre ai titoli minerari già rilasciati.

“Eravamo famosi come la regione verde d’Europa, diventeremo la regione groviera”, commenta Mario Di Pietro, sindaco di Bellante, piccolo comune della provincia di Teramo, che sta all’intersezione di diversi progetti di ricerca di gas.

Questo è l’ultimo pezzo di costa adriatica salvata dal cemento

Forse è per questo che in Abruzzo si sono moltiplicati negli ultimi anni imovimenti di protesta contro le trivelle, a cui hanno preso parte comitati di cittadini, enti locali, scienziati, in nome della difesa ambientale ma anche dell’economia agricola, della pesca o del turismo.

Ormai da otto anni “ci sentiamo in prima linea”, dice Fabrizia Arduini, abitante di Ortona, artista, ma anche biologa marina e ambientalista appassionata (e responsabile della sezione teatina del Wwf). Siamo sulla massicciata della vecchia ferrovia litoranea, in piena costa dei trabocchi: dismessa una decina d’anni fa perché minacciata dall’erosione del mare, è diventata una bella passeggiata di parecchi chilometri (la ferrovia invece ha un nuovo tracciato più interno). Questo è “l’ultimo pezzo di costa adriatica salvato dal cemento”, osserva la dirigente del Wwf: zona bella e fragile, dal 2001 è aperto l’iter istitutivo che ne farà il Parco nazionale della costa teatina.

Tutto è cominciato con il Centro oli progettato dall’Eni, ricorda Arduini. Doveva sorgere tra le colline del Montepulciano per raccogliere, lavorare e raffinare il greggio estratto dai pozzi Miglianico e Granciaro, a terra, e probabilmente anche da quelli offshore. La compagnia aveva fatto istanza di autorizzazione nel 2006, e all’inizio la cosa era rimasta molto riservata. Poi però la notizia che Ortona sarebbe diventata “zona mineraria” è diventata pubblica: un centro petrolifero sarebbe sorto in una zona nota per la produzione enogastronomica. E nella tranquilla provincia abruzzese è scoppiata una specie di insurrezione civile.

“Ci siamo organizzati, abbiamo cominciato a studiare le carte per controbattere punto su punto”, ricorda Fabrizia Arduini, ormai espertissima studiosa dell’industria degli idrocarburi. Comitati di cittadini e associazioni ambientaliste denunciavano la segretezza attorno a un progetto che avrebbe stravolto le economie consolidate della zona. “Abbiamo riunito un gruppo di scienziati”, chimici, geologi, fisici, ingegneri. “Ci siamo resi conto che era stato autorizzato un progetto pieno di imprecisioni, non reggeva a una seria valutazione di impatto ambientale: che arroganza”.

Il petrolio abruzzese è di qualità bassa e pieno di impurità sulfuree: vischioso, infiammabile, pericoloso da trasportare

Il movimento ha raggiunto grande popolarità quando è scesa in campo una fisica dell’università della California ma originaria di quelle zone, Maria Rita D’Orsogna, “che ha portato un metodo anglosassone: dati e fatti, nero su bianco. Ha anche saputo spiegarli in modo chiaro, alla portata di tutti”. Il petrolio abruzzese è di qualità bassa e pieno di impurità sulfuree (proprio come quello estratto in Basilicata): il tipo detto “amaro”, denso, vischioso, infiammabile, pericoloso da trasportare, va raffinato vicino ai punti di estrazione e per quello serviva il Centro oli di Ortona. Sono circolate anche stime dell’Istituto Mario Negri sud: bisognava aspettarsi circa una tonnellata e mezzo al giorno di emissioni inquinanti, dall’anidride solforosa all’idrogeno solforato, sostanza tossica di prima classe.

Sarebbe stata la fine per l’economia locale fondata sull’agricoltura “di qualità”. La provincia di Chieti in effetti esporta olio e soprattutto vino; nell’interno ci sono molini e pastifici, artigianali e industriali, anche rinomati. Insomma, alla fine tutti erano mobilitati: cittadini, cantine prestigiose, associazioni ecologiste, sindaci, fino ai vescovi. Infine, poco più di un anno fa, il progetto del Centro oli è stato accantonato.

Una raffineria galleggiante

“L’esperienza di quel movimento ci ha insegnato a organizzarci, studiare, documentare, e coinvolgere tutti”, dice Fabrizia Arduini. E la cosa è tornata utile molto presto. Di lì a poco infatti, nel marzo 2015, la commissione nazionale per la valutazione d’impatto ambientale ha dato il suo nulla osta al progetto Ombrina Mare, la piattaforma visibile davanti alla costa dei trabocchi. La società Rockhopper, che ha la concessione, intendeva scavare da quattro a sei pozzi nell’arco di alcuni mesi, da collegare alla piattaforma e poi a un impianto di stoccaggio, produzione e raffinazione da ancorare a una decina di chilometri dalla costa.

“In pratica sarebbe una raffineria galleggiante: e ci volevano far credere che non avrebbe avuto impatto sull’ambiente costiero, acqua e aria”. Di nuovo si sono mobilitati comitati di cittadini, sindaci, associazioni ambientaliste, scienziati. Hanno raccolto dati e presentato osservazioni alla commissione regionale per la valutazione d’impatto ambientale. In due anni, due manifestazioni hanno portato trentamila persone a Pescara e ancora di più a Lanciano, “una cosa mai vista”.

Anche il progetto Ombrina infine è archiviato: è notizia recente. O meglio, sospeso per la durata di un anno a partire dal 1 gennaio 2016, come si legge nel Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse (Buig) pubblicato dal ministero dello sviluppo economico il 31 dicembre 2015. A rigore di logica sarebbe cancellato, visto che nuove concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia marine sono escluse. Rockhopper Italia ha fatto ricorso, non sono escluse novità.

Metanodotti, elettrodotti, centrali di stoccaggio rientrano nel progetto di fare dell’Italia un hub energetico

Il Centro oli e il progetto Ombrina sono diventati cause celebri, che hanno mobilitato un po’ tutta la regione. “Ma quelli sono grandi progetti. In altri casi i cittadini si sentono soli”, dice Mariapaola Di Sebastiano, che sta cominciando una carriera da medico ed è diventata anche un po’ attivista ambientale per reagire, dice, “a una tale aggressione al territorio”. Ora siamo a Punta Penna, al limitare della zona protetta sulla costa teatina, con la lunga striscia di sabbia dove un anno fa si erano spiaggiati dei capodogli e decine di persone erano accorse per aiutare a rimetterli in mare, salvandoli. La spiaggia è chiusa dalla punta vera e propria, con il faro e il porto di Vasto, un deposito petroli e una minuscola area industriale; all’orizzonte le piattaforme Rospo.

Il pozzo Ombrina Mare, Chieti, nel 2010. (Ufficio stampa Legambiente/Ansa)

Mariapaola Di Sebastiano cita il suo paese, Filetto, grazioso comune di meno di mille abitanti sulle pendici della Maiella: su 13 chilometri quadrati di territorio conta 16 giganteschi tralicci dell’elettrodotto Villanova-Gissi, appena costruito da Terna, la società nazionale di distribuzione di energia elettrica. Anche là ci sono state opposizioni e resistenze. Per ironia, ora che l’elettrodotto è ormai ultimato emergono varie irregolarità, proprio quelle denunciate a suo tempo dal comitato dei cittadini.

Il fatto è che troppo spesso le autorità di controllo “non controllano, o non sono messe in grado di farlo”, dice Fabrizia Arduini (coautrice tra l’altro di un rapporto sull’offshore italiano, Trivelle in vista, che contiene anche un utile “abbecedario” e un vademecum per i cittadini). Spiega che i cittadini hanno diritto a presentare obiezioni motivate presso le commissioni regionali della valutazione d’impatto ambientale, prima che tutto passi alla commissione nazionale. Ma poi accade che “la commissione nazionale concede un nulla osta con annesse delle ‘prescrizioni’ a cui l’azienda in questione dovrebbe attenersi: poi, che le prescrizioni siano rispettate o meno, resta l’autorizzazione”.

Le mie interlocutrici parlano di “servitù”. Servitù? Rispondono che metanodotti, elettrodotti, centrali di stoccaggio, rientrano tutti nel progetto di fare dell’Italia un “hub energetico”, punto di arrivo e smistamento di petrolio e gas dal Nordafrica, dall’Azerbaijan via il gasdotto transadriatico, e quant’altro. Sospettano che l’Abruzzo sia stato “sacrificato” a questo progetto.

È una struttura a rete, le piattaforme offshore sono parte di una ragnatela

Spostiamoci alcune decine di chilometri più a nord: Scerne di Pineto è una piccola frazione costiera vicino a Roseto degli Abruzzi, provincia di Teramo. Qui c’è una centrale di trattamento di gas, il camino con la fiaccola si riconosce da lontano. Enrico Gagliano mostra una mappa: in questo impianto converge il gas estratto dal gruppo di pozzi al largo di Pineto (Fratello, Squalo, Giovanna, Emma, Camilla): “Non c’è separazione tra mare e terra”, dice.

Gagliano è tra i cofondatori del coordinamento nazionale NoTriv, nato nel 2012 e primo promotore del referendum indetto da nove regioni italiane per mettere un limite all’attività delle trivelle (è fissato per il 17 aprile, e la prima battaglia dei suoi promotori è fare in modo che i cittadini lo sappiano). Fa notare che l’impianto di Scerne si trova a solo duecento metri dal fiume Vomano: era stato autorizzato prima della legge Galasso (la prima legge di tutela ambientale, approvata nel 1985), oggi sarebbe vietato mettere un impianto simile così vicino a un fiume noto per le frequenti esondazioni – l’ultima è del febbraio 2015. Gagliano mostra altre mappe: i pozzi offshore nell’Adriatico, i centri di raccolta, la rete dei metanodotti che attraversa l’Italia dalla Sicilia fino al nord e poi verso i Paesi Bassi o la Russia, con le centrali di stoccaggio o di compressione. È una struttura a rete, insiste, le piattaforme offshore sono parte di una ragnatela.

La spiaggia di Scerne di Pineto, provincia di Teramo, marzo 2016. (Marina Forti)

La centrale di trattamento di Scerne è un puntino della ragnatela. Intorno ha una piccola area industriale, e poi le colline del teramano. È una zona “piena”: lungo la costa corrono la statale, l’autostrada e la ferrovia adriatica; gli abitati si susseguono senza quasi interruzione, in corrispondenza dei fiumi ci sono “grappoli” di capannoni e piccole aree industriali. Le colline sono punteggiate di piccoli comuni circondati di vigne e olivi, e coltivazioni più ampie nei fondovalle. L’economia ruota attorno all’agroalimentare, oltre che al turismo: cantine e piccoli pastifici, ma soprattutto conserve e surgelati, le chiamano “fabbriche del minestrone”.

Poi ci sono i pozzi di gas. Ecco un’altra serie di mappe: i “titoli” minerari in vigore nella provincia di Teramo, suddivisi in permessi di ricerca e concessioni di coltivazione. Coprono una bella percentuale del territorio, dalla costa alle colline, incluso il capoluogo Teramo. Queste zone sono oggetto di ricerca almeno da quando l’Eni di Enrico Mattei, negli anni sessanta, sognava di dare all’Italia l’autosufficienza energetica e aveva mappato ogni riserva di idrocarburi esistente nella penisola. Quelli italiani però sono per lo più giacimenti piccoli e impuri. L’Eni andò a cercare petrolio e gas in altre regioni del pianeta, dove i giacimenti erano ben più importanti e le riserve delle colline abruzzesi sono rimaste in sonno: fino ai primi anni 2000, quando in tutta Italia diverse società di ricerca sono tornate alla carica. In quegli anni il prezzo del petrolio era alto, e anche quello del gas, e le istanze di ricerca e di “coltivazione” si sono moltiplicate. In Basilicata è nato il “Texas” della Val d’Agri; in Abruzzo sono scoppiate le proteste.

Un’altra idea di sviluppo

“Un giorno del 2008, navigando sul web, ho scoperto per caso che anche la provincia di Teramo e il suo mare erano interessate da progetti petroliferi”, racconta Gagliano: all’epoca lui si occupava di rifiuti, sistemi di raccolta e smaltimento. Ha mandato la sua “scoperta” al giornale regionale, Il Centro, che l’ha pubblicata in prima pagina: “Il giorno dopo nelle locandine di tutte le edicole campeggiava la storia dell’Abruzzo ‘a vocazione mineraria’”. La cosa ha cominciato a far discutere. Del resto, le polemiche sul Centro oli di Ortona ormai divampavano.

Qualche tempo dopo Bellante, comune di 7.200 abitanti al centro delle colline teramane, ha scoperto di trovarsi anche al centro di un permesso di ricerca chiamato Colle dei Nidi, 82 chilometri quadrati in dieci comuni della provincia di Teramo e in uno marchigiano, oltre il fiume Vibrata. “Una cosa calata dall’alto senza consultare nessuno», ricorda il sindaco Mario Di Pietro. Macché consultati, neppure informati: hanno appreso che il territorio comunale era interessato dalla ricerca di idrocarburi solo a cose fatte. Bellante ha fatto ricorso, insieme ad altri due comuni vicini e alla provincia di Teramo. “Sembrava velleitario, ma eravamo decisi a ridare voce ai cittadini”, spiega il sindaco, che incontro nel suo ufficio, in municipio: “Il ministero dello sviluppo economico aveva concesso l’autorizzazione scavalcando gli enti locali e la popolazione”.

Il ricorso si è basato proprio su questo vizio di procedura, spiega Di Pietro, perché consultare gli enti locali era un obbligo di legge, e il Tar del Lazio gli ha dato ragione (ma oggi non sarebbe così, osserva: il decreto Sblocca Italia permette di saltare la consultazione e il parere delle regioni). “Ci siamo appellati alla procedura ma volevamo affermare un’altra idea di sviluppo”, continua il sindaco. “Il nostro è un piccolo comune e come tutti soffriamo la crisi, ma abbiamo una nostra idea basata sulla valorizzazione del patrimonio”. Parla di sviluppo ecosostenibile, di “valorizzare il patrimonio paesaggistico e culturale, l’agricoltura di qualità, l’enogastronomia”. Il comune ha destinato nove ettari a un “orto botanico diffuso” (a cui collabora Francesco Raimondo, dell’università di Palermo).

Tutto ciò che ha un impatto negativo sull’ambiente minaccia l’economia locale, oltre all’ecosistema

Il sindaco insiste su patrimonio naturale e tradizioni: “Ma vede, non è per un fatto romantico: pensiamo che sia la nostra migliore risorsa. Tutto ciò che ha un impatto negativo sull’ambiente minaccia l’economia locale, oltre all’ecosistema”. Giù nella piazza del paese è giorno di mercato. Bellante è sul crinale tra i fiumi Tordino e Salinello; la piazza affaccia su belle colline coltivate, una valle più in là sono le Marche. Tra il verde dei campi risaltano alcuni impianti fotovoltaici, chiazze luccicanti: molti qui pensano che deturpino il paesaggio.

Ma nell’opposizione al progetto non c’è un sospetto di “sindrome nimby”, non nel mio cortile? “No”, risponde il sindaco, “qui nessuno dice: ‘I pozzi vanno bene ma non a casa mia’. Il punto è quale sviluppo vogliamo. Noi non vogliamo i pozzi perché sono in conflitto con la vocazione naturale di questi territori”. Bellante ha un’azienda vinicola e due caseifici, piccolissime aziende, continua Di Pietro. Intorno si vedono anche colline più aspre, calanchi scavati dall’erosione: “L’agricoltura è la nostra vera risorsa. Dove i terreni restano abbandonati, perché le aziende sono troppo piccole e non ce la fanno, la terra è esposta all’erosione e al dissesto”. Manca un’idea del futuro, conclude il sindaco Di Pietro: “Le amministrazioni regionali si susseguono ma non si vede una progettualità coerente. L’Abruzzo vanta molte zone protette, ma tutto ciò che non è parco è a rischio. Invece di valorizzare ciò che abbiamo, montagne, colline, mare, andiamo fantasticando di ricerche minerarie”.

Poi ironizza: andrà a finire che il problema si risolve perché le compagnie petrolifere si tirano indietro. In effetti c’è qualcosa di misterioso nella moltiplicazione delle trivelle nel territorio e nei mari d’Italia, in tempi di crollo del prezzo del petrolio e del gas. Enrico Gagliano, del coordinamento nazionale NoTriv, cita ancora un dato: la regione Abruzzo incassa circa 253mila euro all’anno di royalties per l’estrazione di idrocarburi. Certo non ci diventa ricca. “C’è da chiedersi come sono impiegati: sospetto che finiscano nella spesa corrente”, osserva: ma d’altra parte gli enti locali sono in difficoltà, cercano di compensare il taglio dei trasferimenti dallo stato.

“Mi sono sentito come i cafoni di Fontamara”, sbotta Massimo Colonna. Era il 2009, spiega, ed era andato a un’assemblea pubblica nel suo paese d’origine, Bomba, novecento abitanti sulle montagne della provincia di Chieti. Lui abita a Pescara, non sapeva cosa bollisse in paese. Quel giorno ci ha trovato il sindaco e varie autorità, e i rappresentanti della Forrest oil di Denver, Colorado, società di ricerche petrolifere. “Parlavano di un pozzo di gas naturale. Ho afferrato che era l’incontro conclusivo di una ‘consultazione pubblica’ prevista dalle procedure di valutazione di impatto ambientale: avevano anche offerto un buffet per festeggiare. Nel progetto in realtà i pozzi erano tre, più una raffineria, ma loro si mascheravano dietro a tanti paroloni e in paese la gente non capiva”, spiega Colonna. “Gli abitanti avevano solo una vaga idea del progetto. Mi sono vergognato: ci stavano raggirando con un linguaggio complicato, proprio come fossimo i cafoni di Fontamara”.

Estrarre quel gas rischia di far sprofondare il terreno e provocare crolli

C’è una differenza fondamentale però tra gli agricoltori di oggi e quelli della piana abruzzese del Fucino negli anni venti del 1900, raccontati da Ignazio Silone in Fontamara: “È che oggi i figli dei cafoni sono andati all’università. La mia generazione ha studiato. Mia nonna era una bracciante analfabeta, seppur donna molto forte e intelligente; io sono laureato in chimica”, osserva Massimo Colonna. Dopo quell’assemblea con i petrolieri di Denver, a Bomba è nato un comitato di cittadini per “la gestione partecipata del territorio”: tra gli undici promotori c’erano un fisico e due geologi, oltre al chimico.

All’inizio erano in undici, in seguito sono arrivati a cinquecento tesserati, cioè metà del paese. “In principio non eravamo contrari al progetto, ma diffidavamo dei paroloni e volevamo vederci chiaro”, spiega Colonna. Sono andati al ministero dello sviluppo economico, a Roma, dove hanno fotocopiato il progetto della Forrest oil con tutti i dettagli tecnici per studiarlo. Hanno scoperto tutto ciò che i petrolieri non avevano detto: che il gas da quelle parti è ricco di idrogeno solforato, cioè molto sporco, per questo era necessaria la raffinazione in loco. Che il progetto avrebbe portato un po’ di lavoro nei primi due anni, durante la costruzione, ma nei 14 successivi l’impianto poteva funzionare con solo 12 tecnici dell’impresa. E poi che quello di Bomba era un piccolo giacimento, non valeva grandi investimenti, e infatti la Forrest oil aveva previsto un vecchio impianto al risparmio, “non la migliore tecnologia disponibile come vuole la legge”. Insomma, “per due anni avevano mentito a tutto il paese”, ricorda Colonna.

L’obiezione dirimente però è che il giacimento si trova nella media val di Sangro, in un punto dove la valle si restringe e c’è un lago artificiale, il lago di Bomba, creato negli anni cinquanta quando fu costruita una diga per produrre energia elettrica (in concessione all’Acea). Il gas si trova sotto quei 64 milioni di metri cubi d’acqua. “Dalle carte che abbiamo studiato risulta che nella zona ci sono diverse frane, sia attive che quiescenti, in particolare sul lato della diga. Estrarre quel gas rischia di far sprofondare il terreno e provocare crolli”.

Una battaglia vinta

La cosa interessante è che trent’anni fa l’Agip aveva la concessione per sfruttare il giacimento di Bomba, continua Massimo Colonna: “Ma nel 1992 aveva rinunciato, presentando una istanza insolitamente dettagliata, in cui spiegavano che il rischio idrogeologico era troppo forte e non potevano assumersi una tale responsabilità”.

Quando il comitato di Bomba ha scoperto tutto questo, la valutazione di impatto ambientale non era ancora chiusa. Così ha preparato una memoria dettagliatissima, poi ha tenuto assemblee in tutti i comuni della zona. Alla fine 14 comuni hanno approvato delibere contro il progetto. Per due volte il nulla osta ambientale è stato negato alla Forrest oil, che altrettante volte ha fatto ricorso al Tar ottenendo di cancellare la bocciatura. Finché comitati e comuni hanno fatto ricorso al consiglio di stato, che gli ha dato ragione. Insomma, i cittadini hanno vinto. La Forrest oil, che incautamente nel 2013 aveva messo a bilancio gli utili presunti dal progetto di Bomba, è fallita. “Le avevano tentate tutte, compreso invitare in Olanda alcuni amministratori locali a visitare degli impianti che avevano là. Non sono stati onesti. È sempre lo schema di Fontamara, l’arroganza verso i presunti ignoranti”.

Oggi Massimo Colonna è considerato un punto di riferimento dei movimenti abruzzesi per l’ambiente, e il comitato di Bomba è sinonimo di una battaglia vinta con il rigore dei dati, dei fatti, e con la partecipazione pubblica. “Non mi definisco ambientalista: sono un tecnico che ha a cuore l’ambiente”, dice. Pensa che cose come l’energia, l’acqua, le risorse comuni andrebbero gestite dallo stato a beneficio di tutti, non date in concessione per il profitto privato. “Nel 1992 i tecnici dell’Agip hanno avuto la coscienza di dire che sfruttare quel gas era troppo pericoloso, cioè hanno fatto prevalere la responsabilità, non il profitto”, osserva. In fondo, dice, i giacimenti sparsi per l’Italia erano stati studiati al tempo di Mattei: “Se non li hanno estratti allora, un motivo c’era”.

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