Per le boliviane partorire senza rischi è ancora un miraggio
Il giorno del parto può essere uno dei più importanti nella vita di una donna: in quel momento il suo corpo dà alla luce una nuova vita. Ma in alcune parti del mondo è anche il più pericoloso, in cui la vita la può perdere: si stima che nel 2015 siano morte 303mila donne a causa o per complicazioni connesse al parto.
È la povertà la maggiore responsabile di queste vittime: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 99 per cento delle morti è avvenuto in paesi in via di sviluppo, i due terzi delle quali nelle regioni dell’Africa subsahariana. In termini assoluti il triste primato spetta a Nigeria e India, rispettivamente con 58mila e 45mila morti, ma è la Sierra Leone a raggiungere il tasso di mortalità più alto, con 1.360 morti ogni centomila parti.
Dall’altro lato dell’oceano, a spiccare per gli indici drammatici sono paesi che hanno vissuto recenti crisi umanitarie come Haiti (359 morti ogni centomila parti). E poi c’è la Bolivia, che invece negli ultimi dieci anni ha goduto di stabilità politica e una prosperosa crescita economica.
Primitivo Condori Kawaya ha 36 anni e ha vissuto praticamente tutta la sua vita in una comunità vicino al lago Titicaca, in Bolivia, tra colline verdi e nuvole che sembrano così vicine da poter essere afferrate. A dispetto dei panorami impressionanti, lo sviluppo economico della zona è bassissimo. Primitivo si dedica all’agricoltura e all’allevamento su piccola scala. Ed è proprio portando al pascolo la sua mandria che ha conosciuto Rosa, la sua prima sposa.
Rosa è morta a 27 anni per una emorragia in seguito al parto, una delle cause più diffuse di decessi materni al mondo, seguita da infezioni, aborti praticati in condizioni insicure, ipertensione e complicazioni mediche. La maggior parte di questi fattori di rischio possono essere limitati, e spesso annullati, con un’adeguata attenzione da parte di un professionista. Un’emorragia dopo il parto, per esempio, può uccidere una donna in salute nel giro di poche ore se non riceve le cure adeguate, mentre le infezioni vengono facilmente identificate e trattate durante i controlli prenatali.
Proprio per questo motivo, nel 2000 i leader mondiali hanno inserito la lotta alla mortalità materna tra gli Obiettivi di sviluppo del millennio, puntando a ridurre del 75 per cento il numero di decessi entro il 2015. Il progresso è stato innegabile, dato che si è passati da una morte ogni 180 donne incinte a una ogni 73, ma l’obiettivo è stato mancato.
Secondo le stime ufficiali, nel 2015 sono ancora 830 le donne che muoiono ogni giorno per le conseguenze o le complicazioni della gravidanza, ma la cifra reale, a causa dell’incertezza dei dati e sulla procedura di calcolo della stessa Oms, potrebbe essere più alta.
A dimostrazione dell’invariata situazione di emergenza, la mortalità materna è stata inserita ancora nei nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile varati dall’Onu durante l’assemblea plenaria dello scorso settembre a New York. Il nuovo obiettivo è portare il tasso mondiale al di sotto delle 70 morti ogni centomila nascite, assicurandosi che nessun paese superi del doppio la media mondiale. In Italia muoiono in media 9,8 donne ogni centomila parti.
Si tratta però di uno sforzo mastodontico: per raggiungere un simile risultato, il tasso di mortalità dovrebbe calare di circa il 7,5 per cento annuale tra il 2016 e il 2030, triplicando quindi la diminuzione avvenuta tra il 1990 e il 2015.
La povertà non comporta solo l’impossibilità di ricevere cure mediche adeguate per mancanza di risorse economiche. Riguarda anche una serie di fattori geografici, educativi e culturali che vanno ben al di là del prodotto interno lordo di un paese.
“In Bolivia esiste un’enorme lacuna nell’accesso al servizio sanitario tra le donne indigene delle zone rurali”, spiega Alexia Escobar, rappresentante locale di Family care international, una ong che si occupa di promuovere una maternità sicura e informata nei paesi in via di sviluppo. “Questa mancanza è dovuta alla loro educazione carente, ma anche a una scarsa professionalità nel tipo di trattamento che ricevono in ospedale”, spiega Escobar. Inadeguata preparazione dei medici, grandi distanze da percorrere, mancanza di informazione e anche alcune pratiche tradizionali mettono quindi a rischio la vita delle donne.
La Bolivia rappresenta un caso paradigmatico: storicamente si tratta della zona più povera dell’America Latina, ma a partire dagli anni novanta il paese ha goduto di uno sviluppo impressionante, con una crescita media del prodotto interno lordo del 2,3 per cento negli ultimi 15 anni. L’aumentata disponibilità economica ha permesso, sotto l’amministrazione di Evo Morales, una riduzione di circa un terzo delle persone che vivono in condizioni di povertà estrema, cioè con meno di 1,25 dollari al giorno.
Tuttavia, secondo il gruppo di lavoro composto da diverse agenzie internazionali, la Bolivia ha mancato l’obiettivo del millennio sui decessi collegati al parto. L’Oms ha stimato che nel 2015, in media, sono morte 206 boliviane ogni centomila nascite. È il terzo paese americano per il tasso di decessi materni, dietro ad Haiti e alla Guyana. Lo stesso presidente Morales, nel discorso per i suoi dieci anni alla guida del paese, ha dovuto riconoscere che “siamo molto indietro, c’è stata una riduzione, ma praticamente non ha avuto alcun impatto”.
Una delle cause dell’alta mortalità materna in Bolivia è la difficoltà di attrarre i cittadini nelle strutture sanitarie. Ne è convinto Antonio Lapenta, consulente dell’ufficio per la cooperazione dell’ambasciata italiana a La Paz. “La barriera principale è la percezione che i cittadini hanno del sistema sanitario. È lì che stiamo fallendo”. In un paese in cui la professione medica è ancora quasi esclusivamente appannaggio maschile, gli ospedali e le visite ginecologiche vengono percepiti dalle donne delle zone rurali come una violazione del proprio pudore e delle proprie tradizioni culturali.
Il profilo delle donne a rischio è quindi chiaro: indigena, proveniente dalle zone rurali, con bassi livelli d’istruzione e di alfabetizzazione. Succede in tutti i paesi ad alto tasso di mortalità materna. Ma in Bolivia questa caratterizzazione è ancora più stridente perché si innesta sulla storica disuguaglianza sofferta dalle etnie indigene su un’altra problematica fortemente radicata, quella della discriminazione delle donne e della violenza di genere.
Le parteras aiutano le donne indigene a partorire in casa con nozioni ancestrali e pratiche sciamaniche
Nei primi due mesi del 2016 sono stati commessi 19 femminicidi in Bolivia, una media di uno ogni tre giorni. Anche l’Inchiesta nazionale di mortalità materna del 2011 sembra confermare questi trend: in una prima versione del rapporto emergeva come un quarto delle morti in gravidanza era riconducibile a cause esterne come omicidi, suicidi e altri incidenti violenti.
Il dato è stato successivamente stornato nella versione definitiva, in quanto l’Oms non considera queste cause come strettamente collegate alle morti di parto. Tuttavia, questi dati sembrano confermare l’inquietante fotografia elaborata nel 2013 dall’Associazione di studi panamericana sulla salute, che attribuiva al paese il più alto tasso di violenza contro le donne di tutto il Sudamerica (ma non dell’intera America Latina).
Il 42 per cento dei decessi materni avviene in casa e non in ospedale. Confinate nei loro letti, spesso per propria scelta, le boliviane che devono partorire si affidano a levatrici e medici tradizionali, che cercano di aiutarle somministrando infusioni e facilitando l’uscita del neonato attraverso massaggi.
Le parteras mischiano esperienza sul campo a conoscenze erboristiche rudimentali e pratiche sciamaniche, spesso senza alcuna formazione medica. Eppure, nell’altipiano andino, una di queste donne dalla gonna lunga e dalla caratteristica bombetta nera portata storta sul capo può rappresentare l’unica salvezza quando un parto non va come dovrebbe.
Questo articolo è il primo di una serie di tre del progetto Mother and children first realizzato da Michele Bertelli, Felix Lill e Javier Sauras, grazie al sostegno della fondazione Bill and Melinda Gates attraverso il bando pubblico Innovation in development reporting, gestito dallo European Journalism Centre.
Ricerca e visualizzazione dati: Carolina Cristanchi
Video: Michele Bertelli
Fotografie: Javier Sauras