Alla fine sono arrivate le casette anche a Castelluccio di Norcia. Sono arrivate – otto in tutto – quando ormai sono trascorsi tre anni dal terremoto e il paese è ancora una grande zona rossa nella quale non si entra. Di ciò che fu, i turisti vedono soprattutto le macerie, che sono tuttora qui. Così, più che un paese, Castelluccio sembra una scenografia cinematografica, una di quelle usate per girare i film western, fatte di tante costruzioni delle quali esistono solo le facciate, e dietro il nulla.
Qui il nulla è fatto di edifici lesionati, che una volta erano bar e ristoranti, ma che adesso se ne stanno nascosti dietro a certi moduli prefabbricati adibiti a nuovi bar e nuovi ristoranti, in una fantasiosa replica di sé. Alcuni sono attorno alla piazzetta, lungo la statale che attraversa il fianco del paese. Poco più su, la strada che portava nel centro dell’abitato termina d’improvviso contro le transenne. “Welcome to Castelluccio”, dice ottimista uno striscione. “Divieto d’accesso - Zona Rossa”, lo corregge un cartello lì accanto. E poi non c’è più nulla, solo le macerie come viscere nude di ciò che non c’è più, poveri resti d’una esistenza sbriciolata in un istante. O, meglio: poi c’è il Deltaplano.
È una struttura teoricamente temporanea, perché dovrebbe essere smontata se e quando il paese sarà ricostruito. È composta da tre edifici che ospitano tutti i ristoranti che in paese non potevano più stare perché si sono visti portare via tutto dal terremoto. Quando si cominciò a parlare della sua costruzione si scatenò una polemica durissima sull’opportunità che una struttura di questo genere sorgesse proprio qui, in questa sterminata conca in cima all’Appennino, dove sembra di stare più in alto di ogni cosa, galleggiando nel vento e nel silenzio, e si ha a che fare con poche case e gli animali per il latte, il verde del pascolo a perdita d’occhio e le lenticchie, quelle famose ovunque. E poi i fiori, ovunque e per chilometri, che tra giugno e luglio occupano il fondo dell’intero catino e allora sembra di trovarsi di fronte a un lago effimero e d’ogni colore. È soprattutto per questo – per la grande fiorita – che migliaia di turisti vengono fino a qui quando l’estate comincia.
Ed è proprio sui primi tornanti che rimontano l’altura verso il paese, proprio nel mezzo della conca che divide pian Grande e pian Perduto, che se ne sta appollaiato il Deltaplano, ben fuori dall’abitato. Quella che sta trascorrendo è la sua prima estate: ha aperto da alcuni mesi, lentamente, un ristorante dopo l’altro, fino quasi a diventare un villaggio della ristorazione da centinaia di coperti. E se Castelluccio di Norcia ha la sembianza di un villaggio Potëmkin, il Deltaplano al contrario vive soprattutto di sostanza. Ma è una sostanza in parte evanescente perché intimamente intrecciata con mille speranze. Proprio al Deltaplano, infatti, tutti si aggrappano perché Castelluccio sopravviva.
“Qui stiamo bene”, dice Rossana Coccia. Prima del terremoto gestiva l’albergo, ristorante, bar Sibilla in paese e adesso un bar al Deltaplano. Parla dolcemente, sebbene gli occhi tradiscano di continuo il dolore dovuto ai ricordi sui quali la voce spesso s’increspa ancora. “Abbiamo aperto il bar da un paio di mesi. All’inizio è stata dura anche perché ci sono venuti addosso tutti gli ambientalisti. Ma adesso siamo contenti perché c’è di nuovo il lavoro. E poi non ho più voglia di piangere: stiamo ricominciando. Se non avessero fatto il Deltaplano saremmo dovuti andare via e se fossimo andati via non saremmo più tornati”.
Fabrizio Brandimarte, invece, la sua attività, villa Tardioli, è riuscito a riaprirla in paese ma, dice, “il Deltaplano è servito per far ripartire Castelluccio. Se hai un lavoro hai anche una speranza. E se hai una speranza rimani. Altrimenti di cosa avremmo vissuto? Ci sarebbero restati solo i ricordi”.
È tutto fermo da un anno, c’è ancora da portar via le macerie
Così la pensano tutti, da queste parti. Quasi tutti, per la verità, ma la voce dei dissidenti spesso preferisce restare anonima per evitare nuove polemiche e perché dopo tutto il dolore si prova a guardare al futuro, anche se tanti lo fanno con un certo fatalismo. E si capiscono le speranze che il Deltaplano suscita, e perfino la necessità che hanno in tanti di concentrarsi solo sul presente, perché l’abisso che ha inghiottito questa terra è potente e straripa sul futuro. Ed è proprio a causa di questo abisso che la sostanza di questa struttura si fa evanescente.
“Rivoglio il mio albergo”, dice ancora Coccia. “Adesso siamo contenti perché il lavoro c’è, ma non abbiamo le case e non abbiamo la certezza che le ricostruiranno. Non hanno ricostruito a Norcia, figuriamoci qui. Io rivoglio il mio albergo e il mio paese”. La sua è la voce di tanti. Lo pensa anche Luisa Trabalza, che aveva la residenza a Castelluccio e che però, avendo anche una casa a Norcia, non ha avuto diritto alla casetta. Nell’appartamento di Norcia però non può rientrare perché è stato lesionato dal terremoto, così da quasi tre anni vive, un po’ kafkianamente, in un prefabbricato provvisorio. Ogni giorno, come tutti da queste parti, è costretta ad arrivare fin qui – e saranno una trentina di chilometri di salite e tornanti – per poi andarsene quando fa buio. “Ci serve il paese”, ripete Trabalza nel suo ristorante, Lu Soccio, ospitato al Deltaplano. “È tutto fermo da un anno, c’è ancora da portar via le macerie. Non si parla di ricostruzione né di sgombero delle macerie”.
Di più: le otto casette che sono state appena consegnate, con tanto di cerimonia e benedizione, non sono ancora pronte. Perché siano abitabili, spiegano in paese, si rischia di dover attendere la fine della stagione e mancano anche gli alloggi promessi per gli operatori dei ristoranti. In queste condizioni, a sera, qui non resta nessuno, dunque non si lavora. E ancora: si fa notare che si è pensato alle attività di ristorazione ma non ai servizi per chi aveva la seconda casa in paese. Persone con cui, peraltro, i ristoranti lavoravano molto.
Il lavoro non basta
Non c’è nemmeno un’area camper, mi ripetono in tanti, né un luogo di ritrovo, niente. Queste sarebbero state le condizioni per una ripresa vera. Non pensare solo alla domenica con la fioritura, perché poi, passata la fioritura, si rischia di restare con il nulla in mano. Ed ecco finalmente il punto.
Mancano le case, le macerie sono ancora qui, il lavoro serve ma da solo non basta. Si devono ricostruire anche e soprattutto le condizioni della vita quotidiana. E tre anni sono già troppi per chi qui si suda la vita, perché sì, adesso ci sono le condizioni per ricominciare, ma mancano quelle perché riprenda anche l’esistenza. Castelluccio, insomma, nonostante i turisti che tornano a migliaia e la vita che rinasce è, dicono qui, “un paese fantasma”.
In Italia s’incontrano ovunque paesi abbandonati e paesi venuti giù e ricostruiti altrove, dopo un terremoto, una frana, un’alluvione: Gairo, Craco, Salaparuta, Montevago, Osini, Conza, Bisaccia, Cavallerizzo, Roscigno, e molti, molti altri, fino agli esempi eclatanti di Noto e Grammichele. Ciascuno è sopravvissuto a se stesso o risorto, scegliendo per sé il proprio destino. Tra tutti, Castelluccio – così remoto e fragile – rischia di essere il caso più estremo, non soltanto del cratere dell’Appennino. E, in un certo modo, fa pensare a Gibellina.
Rasa al suolo dal terremoto che nel 1968 colpì il Belice, a Gibellina le condizioni della rinascita furono individuate nell’arte e nella cultura. Fu una splendida utopia. E però nella ricostruzione mancò perfino l’ombra che stempera il sole siciliano e consente la chiacchiera in piazza, così che oggi d’estate le larghe strade sono terra deserta, mentre le opere d’arte che avrebbero dovuto rianimare il paese sono andate in malora, arrugginite, quasi dimenticate. A Castelluccio non c’è l’arte ma il cibo al centro d’ogni cosa. A tutt’oggi non sembra esserci speranza d’altro, nello stesso modo in cui a Gibellina ci fu soprattutto l’arte, e non bastò.
Che tipo di turismo?
Alla fine, considerato il tempo oramai trascorso dal sisma, considerate le condizioni attuali del paese e considerata soprattutto l’esperienza di altri terremoti dei quali sappiamo com’è andata a finire ogni promessa, diventa lecito chiedersi se il destino di Castelluccio e dell’Appennino non sia proprio quello di diventare un grande Deltaplano, al di là d’ogni intenzione e nonostante ogni rassicurazione. Qui il turismo è una miniera d’oro. Si tratta solo di capire se dopo il terremoto, mancando case ed esistenza, rimarrà solo il turismo.
Intanto, c’è chi pensa che questo “villaggio alimentare” già qualche effetto sul turismo lo stia producendo. Secondo alcuni, l’aver raggruppato gran parte dei ristoranti all’interno di un’unica struttura fuori del paese sarebbe stato un errore che tiene lontana una parte della vecchia e consolidata clientela che saliva fin qui. Allo stesso tempo, la sua presenza starebbe però attirando un tipo nuovo e diverso di turisti. Il Deltaplano starebbe dunque funzionando meglio con una clientela occasionale. Lo spettro del turismo di massa, insomma, fa capolino.
Ma c’è anche chi la pensa diversamente. Antonio Barcaroli, per esempio, nel suo gazebo in paese vende prodotti tipici e guarda al futuro. È ottimista e tenace, nonostante la sua famiglia abbia perso parecchio a causa del terremoto. “Ho lavorato tanto a Castelluccio e anche in giro per l’Italia”, dice, “e so che il turismo di massa spesso non porta cose buone, ma qui dopo il terremoto si sta affermando un turismo più di nicchia. Le persone che arrivano sembrano più interessate, ci puoi parlare, le puoi coccolare. E poi adattarsi ai cambiamenti fa parte della vita”.
La ferita
E anche il paesaggio si è dovuto adattare. Per quanto il Deltaplano abbia un impatto visivo inferiore a quanto inizialmente alcuni avevano temuto, la ferita al paesaggio c’è e non basta l’insistenza sulla temporaneità della struttura a rassicurare, poiché in Italia il temporaneo si fa permanente con estrema disinvoltura e a volte perfino un terremoto può diventare la scusa per eternare il provvisorio. È ciò che, per esempio, è successo a Messina, dove si è passati ineffabilmente dalle casette rapidissime del 1908 alle baracche in lamiera di oggi e che da decenni formano slum incredibilmente mal raccontati, se non taciuti senz’altro, dalle cronache italiane.
Il fatto è che questo genere di ferita al paesaggio non è mai solo una circostanza materiale. Spesso è invece soprattutto una rottura culturale e riguarda per questo l’esistenza stessa delle persone. Lo spiegò Pier Paolo Pasolini in un celebre articolo – “Sfida ai dirigenti della televisione”– uscito sul Corriere della Sera e poi in un documentario Rai, La forma della città. Usando come esempio il profilo intatto di Orte, incrinato dalla presenza incongrua di poche palazzine moderne, Pasolini sosteneva che l’estraneità di quelle palazzine rispetto al contesto – la forma della città di Orte – non costituisce solo un turbamento estetico ma rappresenta una perdita di senso, l’interruzione di una storia umana e l’affermazione di un’altra storia che non arricchisce quella già trascorsa, ma la nega. I mattoni con cui viene edificata sono quelli dell’omologazione imposta dalla società dei consumi che “non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo”. E così cancella ogni cultura, e la storia stessa delle tante comunità che da secoli hanno abitato l’Italia.
Se Pasolini aveva ragione, per quanto si possa e si voglia ridimensionarne la portata, ferite di questo genere rappresentano comunque un rischio poiché autorizzano ogni futuro, anche i meno auspicabili. Ce lo conferma la storia di questo paese, almeno dagli anni sessanta del novecento. Ed è questa storia a rendere lecite anche le domande che in tanti si erano posti quando si cominciò a discutere del Deltaplano e dei modi della ricostruzione, come fecero tra gli altri Loredana Lipperini, giornalista e conduttrice di Fahrenheit, su Rai Radio3, e Mario Di Vito sul manifesto.
Sembrano affermarsi le ragioni dell’economia su quelle dell’esistenza
Poi, sì, quella ferita potrebbe rimarginarsi, così che gli allarmi risuonati in questi mesi finiranno per rivelarsi affrettati ed eccessivi. Si può sperare, certo, ma è molto rischioso affermarlo oggi, vedendo il Deltaplano pieno di turisti ai piedi di un paese che, perfino dal fondo della lunga strada che taglia il pian Grande e lo raggiunge dopo alcuni chilometri, appare ancora sbriciolato, quasi materia morta, mentre sembrano affermarsi le ragioni dell’economia su quelle dell’esistenza. “Rivoglio il mio paese”, dice Rossana Coccia. La risposta a ogni possibile domanda sul futuro, e perfino una possibile smentita dell’esperienza opaca di decenni di storia italiana, è lì, in quelle poche parole di Coccia che dovrebbero essere ascoltate da chi ha il potere di prendere decisioni, perché altrimenti qui si rischierebbe l’oblio.
Lasciando l’altopiano per tornare su via Salaria si scende ad Arquata del Tronto e si passa per le sue frazioni che letteralmente non esistono più. Ci sono turisti che ancora vengono qui a scattarsi delle foto davanti a ciò che non c’è più, visto che sono rimasti solo muri accartocciati, porte che si aprono sul cielo, scale che salgono senza andare più da nessuna parte, macerie che raccontano i morti.
Chissà poi quelle foto a chi le mostreranno, forse ai figli, agli amici, e chissà che cosa gli diranno: guarda, qui c’erano i morti, in queste case c’erano i morti e ora ci siamo noi che ci facciamo questa foto. E forse lo diranno senza provare nessuna pena per se stessi, poiché il terremoto è così, sovverte ogni cosa, imprevedibile come un fiume che cambia letto, come il rimbalzo sporco di un pallone.
Cambia le cose della natura e quelle umane, cambia l’esistenza, cambia ogni cosa. Eppure, a cambiare davvero ogni cosa, a sovvertire le cose umane e quelle naturali, sono le decisioni che prende l’uomo dopo che il terremoto ha finito il suo lavoro. E di queste, infine, ciascuno sarà responsabile.
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