Mestre all’ombra del gigantesco bancomat di Venezia
Dal 2024 per visitare Venezia si dovranno pagare cinque euro. Di fatto, un biglietto d’ingresso. Per ora si tratta di una sperimentazione che riguarda circa trenta giornate, a cominciare dal prossimo aprile e per i weekend che si prevedono più affollati. Poi si vedrà. Dal punto di vista simbolico, però, sembra una resa alla trasformazione definitiva di Venezia in un museo. Anche perché nel frattempo l’esodo dei residenti verso la terraferma non si ferma, e svuota sempre di più la città di esistenza.
La scorsa estate nella città storica il numero dei veneziani è sceso sotto la soglia dei cinquantamila. Nel 1951 erano più di 170mila. Un nuovo allarme è scattato poco dopo, quando l’osservatorio civico sulla casa e la residenza (Ocio) e l’associazione Venessia hanno denunciato che a settembre del 2023 il totale dei posti letto destinati ai turisti era superiore al numero dei residenti. E oggi il divario è cresciuto ancora, poiché il numero dei posti letto turistici ha superato quota cinquantamila.
Il biglietto d’ingresso dovrebbe servire a scoraggiare il turismo giornaliero e favorire quello basato su chi si ferma a dormire in città. Ma i numeri raccontano una storia diversa: quella di un’agonia causata dal sovraffollamento turistico, a partire proprio da quello basato sui pernottamenti. Secondo uno studio dello scorso ottobre commissionato da Federalberghi Veneto, i turisti che si fermano in alberghi o altre strutture della città, e quelli che ricorrono agli affitti brevi, sarebbero più di cinquemila per chilometro quadrato. E si tratta di una stima prudente.
Se Venezia si trova in queste condizioni è perché non sembra più capace di immaginare se stessa se non come attrazione turistica. Un museo, appunto. Tanto è vero che, come osserva l’antropologa Clara Zanardi, cofondatrice della casa editrice veneziana wetlands, “da un lato si pensa al biglietto per la città storica e dall’altro sono incentivati gli accessi a quella stessa città, trasformando la terraferma in un terminal e in un dormitorio”.
Per farsene un’idea, basta vedere cos’è successo negli ultimi anni a Mestre, grosso centro abitato che si affaccia sulla laguna proprio di fronte a Venezia, con la quale forma un unico comune. Tra il 2013 e il 2017 i posti letto turistici a Mestre e Marghera sono passati da 13.506 a 17.453. E questo nonostante il fatto che dal 2019 si sia verificata una serie di eventi drammatici – dall’acqua alta eccezionale nel 2019 alla pandemia nel 2020, fino alla guerra in Ucraina – che hanno avuto conseguenze sul turismo, facendo segnare un significativo arretramento, poi ampiamente compensato.
La crescita ha contribuito a cambiare radicalmente il volto di una città come Mestre, che da tempo si è messa sempre più al servizio del turismo. Se “una volta era considerata il dormitorio degli operai”, dice lo scrittore Roberto Ferrucci, “ormai è diventata il dormitorio dei turisti che poi, di giorno, affollano Venezia”.
Tutti i sindaci hanno lasciato il turismo libero di svilupparsi quasi senza regole
Uno dei simboli di questa trasformazione è il grande distretto alberghiero nato nel 2017 su via Ca’ Marcello, a ridosso della stazione di Mestre. Attualmente è formato da quattro alberghi e due ostelli. In laguna la discussione su questa operazione è stata, ed è ancora oggi, piuttosto vivace, non solo perché si tratta di un ulteriore investimento sul turismo, ma anche per il senso che ha avuto per la città. “Quella era una zona particolarmente degradata che è stata riqualificata e che ora è diventata molto più tranquilla, con una ricettività di qualità”, dice Claudio Scarpa, direttore dell’associazione veneziana albergatori (Ava).
Tuttavia, sono in molti a ritenere che la nascita di quel distretto abbia contribuito a una nuova perdita d’identità della città. “Come parte del tessuto cittadino non esiste, perché guarda a Venezia e non dialoga con Mestre”, dice Gianfranco Bettin, scrittore con una lunga storia politica alle spalle, ex deputato dei Verdi, che oggi siede in consiglio comunale. E spiega che invece, poco lontano da lì, dove una volta c’era un vecchio deposito dell’azienda del trasporto locale, c’è un centro commerciale. Ma in virtù di un accordo tra amministrazione e imprenditori, sono stati realizzati anche alcuni servizi per i cittadini, con un lavoro di ricucitura urbana che, in questo caso, ha dato vita a un pezzo di città.
Anche secondo Lidia Fersuoch, consigliera nazionale di Italia nostra e della sezione veneziana dell’associazione, “la zona degli alberghi di Ca’ Marcello danneggia Mestre, ma anche Venezia”. Nel marzo 2023 La Nuova Venezia raccontava di una “città dormitorio della città”, di un progetto di riqualificazione della periferia del quale “resta poco” e di un “turismo low cost che spolpa due città”. Inoltre, “tutto intorno fiorisce il tessuto della Mestre usa e getta”, come le “stanze improvvisate per l’accoglienza dei turisti” negli appartamenti.
Naturalmente questo non dipende dall’esistenza del distretto di Ca’ Marcello. Sono semmai entrambe conseguenze di un processo, per così dire, di omologazione con Venezia che sta investendo Mestre, a causa di un’economia sempre più dipendente dal turismo. “Anche qui”, spiega Bettin, “sta succedendo ciò che è già accaduto a Venezia. Il sistema degli affitti brevi, per esempio, si è molto diffuso anche sulla terraferma”.
Il fatto è, aggiunge Scarpa, che da almeno trent’anni “tutti i sindaci hanno lasciato il turismo libero di svilupparsi quasi senza regole. È mancato del tutto un intervento strategico”. E anche il biglietto d’ingresso, prosegue, “se è certamente un esperimento che ci vede favorevoli, l’avremmo visto però come la fine di un percorso di gestione dei flussi, non come l’inizio”. Così, in questo vuoto, “Mestre ha cominciato a ricavarsi un suo ruolo, ospitando il turismo dei gruppi e quello legato ai congressi, mentre a Venezia è rimasto quello individuale”.
Inoltre, dice ancora Scarpa, al territorio “non è stata offerta alcuna alternativa all’industria turistica. E lo dico anche a chi critica l’eccesso di turismo”. Questa espansione, spiega ancora il direttore di Ava, “è stata favorita anche dallo spopolamento di Mestre, che è sempre più percepita come una periferia”. D’altra parte, la recente turistificazione ha a sua volta rafforzato la tendenza allo spopolamento, come in un circolo vizioso.
Il senso di restare
Il rischio, spiega Bettin, “è proprio che i mestrini non trovino più il senso di restare, anche solo per la diminuzione sempre più evidente dei servizi”. Del resto, dice ancora Scarpa, “Mestre è male amministrata da molti anni. E un po’ tutti i sindaci sono sembrati distratti dal grande palcoscenico veneziano”.
Sembra quasi la storia del ritratto di Dorian Gray, il quadro che invecchia al posto del protagonista del romanzo di Oscar Wilde: negli ultimi anni Venezia si è mantenuta artificiosamente brillante, mentre i segni dei suoi peccati sono sempre più evidenti su Mestre. Ma non c’è riscatto nella realtà: Mestre sta facendo la stessa fine di Venezia, travolta da una crisi che l’ha decisamente trasformata, in peggio.
La zona di via Piave, una volta classica strada-salotto, “ha smarrito la speranza”, raccontano le cronache locali. Mestre “in questi anni ha avuto un’involuzione sociale”, racconta Ferrucci. “Ha il maggior tasso di morti per droga in Italia. Lo spaccio avviene vicino a via Piave e corso del Popolo, le due strade principali. Quando Gianfranco Bettin era prosindaco, Mestre era diventata un esempio in Europa per la riduzione del danno, mentre la giunta attuale punta unicamente sulla repressione”. La responsabilità, sostiene Scarpa, “è di chi non riesce a gestire il problema, o lo gestisce pensando solo alla repressione, e non anche a politiche d’inclusione”.
Tra le cause della crisi d’identità in cui Mestre sembra dibattersi c’è anche il particolare rapporto politico-amministrativo con Venezia. I due centri formano un comune unico da quando, spiega Jane Da Mosto, cofondatrice e direttrice del collettivo di ricerca e piattaforma di attivismo We are here Venice, “Mussolini decise di riarticolare il territorio dando un’unica amministrazione a laguna e terraferma. Da allora però non c’è mai stato un momento di riconciliazione tra le grandi diversità di questi territori”.
“Noi”, spiega Da Mosto, “abbiamo cercato un momento di simbiosi tra questi due mondi riconsiderando tutto il periodo del comune unico, e pensavamo di trovarlo soprattutto tra il 2017 e il 2019, quando ci siamo impegnati nel referendum per una nuova divisione tra laguna e terraferma. Ma non abbiamo trovato nulla”.
Secondo Lidia Fersuoch, Mestre “fatica a ritrovare la sua identità anche perché ha sbagliato a non separarsi da Venezia con i referendum celebrati a cavallo tra gli anni settanta e i primi anni del nuovo secolo”. L’indipendenza, continua la consigliera di Italia nostra, “sarebbe stata un vantaggio. Invece ora Venezia e Mestre sono la periferia l’una dell’altra. Con tutti i problemi che ne derivano, come appunto quello dell’esodo dei residenti”.
Sarà interessante capire se le dinamiche nate negli ultimi anni sposteranno in futuro l’equilibrio del potere, considerato il fatto che da tempo, dice Ferrucci, “Mestre è il vero polmone elettorale della città”, avendo molti più residenti di Venezia. E questo significa che “è la terraferma a decidere il sindaco”. Anche se, aggiunge Bettin, “non è del tutto vero che il peso demografico della terraferma oggi si traduca sempre in effettivo peso politico: l’importanza delle questioni veneziane sul comune infatti è enorme”.
Bonifica umana
Comunque sia, almeno per quello che riguarda il turismo i due centri sembrano marciare uniti. E non potrebbe essere altrimenti. “Salvaguardare la Venezia turistica”, fa notare Clara Zanardi, “è un interesse della terraferma. Venezia ormai è come una fabbrica”. E, aggiunge Da Mosto, “in questa condizione le decisioni su Venezia non sono prese per Venezia come città viva, ma come generatore economico”. Ecco insomma che Venezia sembra quasi di poterla immaginare anche come un gigantesco bancomat.
Quello del turismo, però, non è un destino inevitabile. Spinta da una pulsione allo sviluppo continuo, la città oggi si fonda economicamente e culturalmente sul turismo. E questa monocultura economica è difesa come se non ci fossero alternative, quasi come un dogma religioso. Quella del turismo “non è però un’evoluzione naturale”, spiega Zanardi, “ma il frutto di scelte politiche che hanno avuto come elemento comune l’incentivo all’esodo della popolazione, per liberare la città a vantaggio delle classi dirigenti e dei grandi investitori. Intanto parti della città si svuotavano e potevano essere risanate e poi riconvertite in attività redditizie”.
All’origine della Venezia che conosciamo oggi c’è insomma, dice ancora Zanardi, “la bonifica umana della città” decisa dalle classi dirigenti veneziane nel novecento. E non si tratta di un’esagerazione: “È anzi un’espressione che all’epoca era utilizzata sui giornali”, spiega Zanardi, che l’ha ripresa come titolo di un suo libro interessante La bonifica umana. Venezia dall’esodo al turismo (Unicopli 2020).
“Si tratta di compiere la bonifica umana”, proclamava nel 1935 Vittorio Cini, imprenditore e personaggio centrale nella storia della Venezia moderna, invitando a trasferire “nel quartiere del lavoro” la popolazione veneziana. È stato un processo avvenuto in più fasi, a partire dall’inizio del secolo scorso, e in particolare da quando fu edificata la prima area industriale di Porto Marghera.
Fu un’operazione che sconvolse una città che fino a quel momento aveva riunito in sé tutte le funzioni, l’abitare e il lavoro, e che contava ancora su una composizione sociale interclassista. Con la nascita della grande area industriale sul bordo della laguna, si cominciano invece a separare le funzioni e a disarticolare la composizione sociale: sulla terraferma la città industriale e gli operai, nella città storica le classi dirigenti. “Si trattò”, spiega Bettin, “anche di un tentativo di rilegittimare Venezia e di lanciarla nella modernità, dopo aver fatto della propria decadenza un affare per tutto l’ottocento”. Ecco allora l’invenzione della Biennale, del Lido, di Porto Marghera. “Non più solo la città di Tiepolo e Tiziano, ma anche del cinema e dell’industria della chimica”. Era insomma anche un’operazione culturale ma, dice Bettin, “fu una violenza inaudita”.
Il momento più duro dell’esodo verso la terraferma ci fu nel dopoguerra, a partire dagli anni cinquanta, gli stessi in cui fu realizzata la seconda, gigantesca area industriale di Porto Marghera. Allora molti veneziani vivevano ancora in alloggi in condizioni inaccettabili. La soluzione che diede la politica a questa emergenza non fu quella del risanamento della città storica ma di nuovo quella dell’incentivo all’esodo verso i nuovi quartieri costruiti sulla terraferma. E, questa volta, insieme ai più poveri, ad andarsene fu anche buona parte della classe media. In poco meno di vent’anni quasi novantamila veneziani dovettero abbandonare la città per trasferirsi a Mestre. Poi, negli anni della crisi di Porto Marghera, il passaggio dall’industria chimica a quella turistica per Venezia diventò inevitabile e irreversibile.
Arriva così a compimento un processo “di normalizzazione della città avviato dal potere politico ed economico, che ha reso Venezia simile alle altre città europee”, spiega ancora Zanardi. Basti pensare a quanti rii sono stati interrati nella città storica, a come la circolazione pedonale fino all’ottocento fosse residuale rispetto a quella che sfruttava le imbarcazioni, ai ponti che furono costruiti per unire le isole che formano la città. “Ed è anche questa omologazione”, dice ancora Zanardi, “che ha reso possibile la città turistica di oggi: una città completamente stravolta, spopolata, monoclasse. Tanto che ormai si fatica a considerarla ancora una città”.
Questo processo è stato ancora più evidente soprattutto dalla fine degli anni novanta, con l’esplosione delle locazioni turistiche. Dall’incrocio tra i numeri presenti in fonti aperte e i risultati di vere e proprie esplorazioni urbane svolte dall’osservatorio Ocio, risulta che “ci sono calli e campielli in cui”, racconta Francesco Penzo, attivista di Ocio, “ogni finestra o quasi corrisponde a una stanza destinata all’affitto turistico”. E spiega che “a volte gruppi di appartamenti sembrano gestiti da un unico soggetto”, circostanza che smentisce il luogo comune secondo cui “le locazioni brevi sono attività esercitate in modo estemporaneo, magari utilizzando l’appartamento ricevuto in eredità dai nonni”.
Secondo Penzo, si tratta invece di “attività d’impresa vera e propria”. Tuttavia, aggiunge, “le città vivono quando sono abitate dai residenti, e poiché molti luoghi in cui l’esistenza della città si sviluppava sono ormai diventati attività ricettive, si è persa anche l’idea che questa sia una città”. E allora, osserva Da Mosto, forse non a caso è emersa anche “una certa incapacità nel permettere alla città di aprirsi a nuove opportunità. Per esempio, ci sono molti spazi vuoti che potrebbero essere utilizzati e che invece restano ad aspettare di essere riempiti con qualche grande evento una o due volte all’anno. C’è qualcosa nella città che sembra scoraggiare ogni iniziativa”.
A tutto ciò si è sottratta in parte solo Marghera, in virtù della propria storia industriale e operaia. Anch’essa fa parte del comune di Venezia insieme a Mestre, accanto alla quale è sorta nel novecento, e all’enorme area industriale edificata sul bordo della laguna, che copre circa 1.500 ettari di superficie e seicento ettari d’acqua, incluso il porto. Dopo il declino, cominciato a partire dagli anni settanta con il progressivo smantellamento di molte attività chimiche e metalmeccaniche, negli ultimi dieci anni è partita una metamorfosi che ha prodotto la rigenerazione di attività già esistenti, come quelle portuali, ma ne ha attratte anche di nuove.
Così è arrivata l’università, ma c’è ancora Fincantieri, “ed è lì anche la raffineria dell’Eni, che stava per chiudere ma poi si è deciso di trasformarla in una bioraffineria”, racconta Bettin. Si tratta di una metamorfosi lenta, perché, spiega ancora Bettin, manca la guida della politica nazionale. “A livello locale”, dice, “l’unica cosa che si poteva fare era mantenere la vocazione industriale, ma il resto spetta allo stato”.
Intanto, però, mentre Mestre declina, soffocata dagli eccessi dell’industria turistica, Marghera sta dando segnali di resistenza, a partire dal lavoro e dalla ricerca.
Venezia, invece, è ormai tutt’altro che una città. E il discorso sulla sua decadenza è talmente logoro che si ha ormai la sensazione che almeno una parte dei turisti venga anche per ammirarne il declino, anch’esso ormai attrazione turistica. Succede, per esempio, in campo Santa Margherita, dove le guide accompagnano gruppi di visitatori a vedere il contatore che segnala il numero dei posti letto turistici esistenti nella città storica, proprio quello che l’osservatorio Ocio ha installato nella vetrina della libreria Marco Polo per denunciare gli eccessi dell’industria turistica.
È il turismo che si guarda allo specchio, e che osserva se stesso mentre divora Venezia. Il potere politico e quello economico, afferma Ferrucci, “non sembra avere nessuna intenzione di gestire il fenomeno. Oppure fa finta di gestirlo: pensa al biglietto d’ingresso, ma poi non fa che incentivare l’esodo dei residenti dalla città e l’arrivo dei turisti”.
“Si vuole estrarre la ricchezza”, aggiunge Francesco Penzo, “sfruttare il brand rappresentato da Venezia. La città è stata svenduta da chi ha potuto speculare, e dall’assenza della politica e di regole adeguate”. “Il potere”, dice ancora Ferrucci, “vuole che la città storica diventi un museo. E noi veneziani in fondo siamo d’accordo. La colpa è dei veneziani. Ce la siamo svenduta noi questa città”, conclude con amarezza.