La fascia di costiera adriatica nella quale sono ospitati gli sfollati del terremoto nell’Italia centrale in alberghi, campeggi e residence è lunga duecento chilometri. Va da Rimini, in Emilia-Romagna, a Tortoreto, in Abruzzo. Le fasi che hanno caratterizzato quest’esodo ricalcano l’andamento sismico che sta interessando l’Appennino. Alla prima emergenza, quella scatenata dal terremoto del 24 agosto che ha coinvolto circa seimila persone, si è aggiunta una seconda emergenza a fine ottobre, che ha fatto salire il numero degli sfollati a più di quarantamila.
La volontà del governo, ribadita dopo la scossa del 30 ottobre, è stata di offrire ai terremotati due alternative: farsi ospitare in alberghi e altre strutture, o mettersi alla ricerca di soluzioni abitative autonome con un Contributo di autonoma sistemazione (Cas), pari a 400 euro per ogni componente di una famiglia per un massimo di 900 euro a famiglia.
Le località chiave per l’accoglienza degli sfollati nelle due emergenze sono state San Benedetto del Tronto, dopo il 24 agosto, e Porto Sant’Elpidio, dopo il 30 ottobre. È lì che sono andato per discutere con chi lavora per garantire una sistemazione decorosa e un supporto umano, oltre che efficiente, alle persone che hanno dovuto abbandonare le loro case.
Dopo le scosse del 26 e del 30 ottobre sono 18.550 le persone assistite dalla protezione civile
Secondo la protezione civile, la mattina del 26 ottobre le persone assistite erano poco più di un migliaio, di cui 834 ospitate in alberghi e strutture ricettive (più della metà a San Benedetto del Tronto), 145 presso il Progetto C.a.s.e. o i Map messi a disposizione dal comune dell’Aquila, 134 in residenze sanitarie assistenziali (si trattava di anziani), e 23 nelle tendopoli: 6 a Saletta, una frazione di Amatrice, e 17 a Borgo, nel comune di Arquata del Tronto. Per i quattro quinti la popolazione colpita era tornata a vivere nelle case dichiarate agibili (circa il 50 per cento secondo il report della protezione civile), oppure aveva deciso di avvalersi del Cas per trovare una sistemazione (casa in affitto, ospitalità da amici e parenti, acquisto di camper e roulotte, in rari casi di container).
Dopo le scosse del 26 e del 30 ottobre, dai dati della protezione civile (ancora in evoluzione) risultano 18.550 assistiti. In particolare quasi 9.500 sfollati alloggiano in strutture alberghiere della costa o sul lago Trasimeno (gli umbri), meno di seimila “in palazzetti, centri polivalenti e strutture allestite ad hoc nel proprio comune e oltre 2.770 in strutture ricettive distribuite sul territorio”. A questi si aggiungono 380 persone che ancora vivono nelle tende tra Lazio e Umbria. A oggi la protezione civile, in collaborazione con le regioni, i comuni ospitanti e varie associazioni di volontariato, garantisce una sistemazione a circa la metà dei cittadini colpiti dal sisma.
Uno psicologo aquilano a San Benedetto del Tronto
Emanuele Sirolli è uno psicologo aquilano, volontario del Gruppo umana solidarietà (Gus), un’ong che collabora dal primo giorno con la protezione civile, le regioni Marche e Lazio, e i comuni colpiti. Lo incontro a San Benedetto del Tronto in uno dei suoi pochi momenti liberi. Il rapporto di collaborazione tra Emanuele e il Gus è nato nel 2009 ed è proseguito nel 2012 con il terremoto in Emilia-Romagna, grazie anche al sodalizio con la onlus aquilana 180amici, di cui è uno dei fondatori. Emanuele oggi coordina le attività del Gus nella cittadina marchigiana.
Il Gus ha un’esperienza ventennale nella gestione delle emergenze e la notte del 24 agosto, racconta Emanuele, “l’emergenza se l’è trovata in casa”. L’ong, con sede a Macerata, svolge un’importante attività a sostegno dei migranti nelle Marche. I volontari del Gus sono stati tra i primi ad arrivare ad Arquata del Tronto per distribuire tè caldo e coperte. Da allora sono sempre rimasti sul territorio, arrivando anche nei paesi vicini, come Accumoli, Castelsantangelo sul Nera o le frazioni più isolate.
I primi sfollati hanno raggiunto la costa la seconda settimana di settembre. Emanuele è entrato in servizio proprio in quei giorni. Il Gus è stato chiamato dal dipartimento di salute mentale dell’area Vasta 5 sia per facilitare l’accoglienza negli alberghi sia per segnalare eventuali casi clinici. In quei giorni sono arrivati circa 250 terremotati, tra cui molti da Accumoli, che in accordo con il loro sindaco avevano deciso di trasferirsi sulla costa. Ad attenderli c’era la protezione civile nazionale con una squadra specializzata nella gestione del flusso di sfollati, che ha subito allestito un centro operativo di accoglienza nell’ex scuola Curzi, mettendo a disposizione degli spazi anche a un’équipe di servizio al cittadino della regione Lazio, al comune di Accumoli, alla Psy+ onlus, a Oxfam e al Gus stesso.
“La fase iniziale del trasferimento, seppur nella sua complessità, è stata gestibile”, dice Emanuele. Sono stati direttamente i comuni colpiti e la protezione civile di San Benedetto del Tronto, in collaborazione con le regioni e il dipartimento nazionale, a organizzare la sistemazione nei primi cinque alberghi a disposizione. In questo modo si sono potute raggruppare le persone nelle strutture secondo un criterio di residenza, garantendo che le comunità non si disgregassero, cosa che non era successa nel 2009 dopo il terremoto dell’Aquila.
L’arrivo del freddo
Nelle settimane successive, con l’arrivo del freddo e la progressiva smobilitazione delle tendopoli, il numero degli sfollati arrivati sulla costa è raddoppiato. Risolta l’emergenza abitativa, si è aperta un’altra fase, quella della “normalizzazione”, cioè l’inserimento degli sfollati nella nuova realtà e il ripristino dei servizi sanitari e scolastici. Gran parte di questo impegno l’ha assunto la regione Lazio in collaborazione con il Gus e le altre realtà di volontariato attive, aiutando a gestire i rapporti tra i cittadini e l’azienda sanitaria ospitante, è intervenuto al comune di San Benedetto per aiutare i cittadini a rifare i documenti smarriti, ha favorito l’iscrizione dei ragazzi nelle scuole e la ricreazione di reti sociali, e ha organizzato, al bisogno, colloqui psicologici.
Dopo le scosse del 26 ottobre, ma soprattutto dopo quella del 30, la situazione è precipitata. La prima sera sono arrivati a San Benedetto altri 1.100 sfollati, che nell’arco di una sola settimana sono diventati più di 2.500. “Se non fosse stato per l’aiuto del Gus e delle altre associazioni di volontariato, a San Benedetto si sarebbe potuta verificare una circostanza molto critica”, dice Emanuele. A suo parere, la presenza della protezione civile nazionale sarebbe stata insufficiente, non in grado numericamente di sopportare la nuova, improvvisa ondata di sfollati: un rafforzamento, insomma, sarebbe stato più che auspicabile. “Per fortuna”, aggiunge, “era domenica e il Gus ha potuto richiamare, a supporto dei comuni terremotati e della protezione civile locale, una trentina di volontari”. Che a San Benedetto, continua Emanuele, sono stati fondamentali, assicurando un’équipe per albergo e distribuendo vestiti e generi di prima necessità.
È emblematica la situazione che si è creata sulla costa abruzzese, dove sono arrivati molti marchigiani e un gruppo di studenti stranieri dell’università di Camerino. Negli alberghi di Tortoreto, Alba Adriatica e Martinsicuro, sostiene Emanuele, non si è attivato nessun tipo di assistenza e non c’è stato nessun coordinamento con le amministrazioni locali. Una situazione che si è protratta per diversi giorni. Emanuele mi ha confidato di essere stato lui a comunicare al comune di Alba Adriatica il probabile numero degli sfollati ospitati a una settimana dal sisma. Alcuni studenti, letteralmente fuggiti da Camerino, sono arrivati in pigiama, senza scarpe, soldi e documenti. La Caritas locale ha provveduto ai vestiti e il Gus gli ha dato dei buoni spesa per un totale di tremila euro.
I disturbi del sonno sono molto diffusi, lo stress, l’ansia, le dinamiche psicologiche pregresse si acutizzano
Prima di concludere la nostra conversazione chiedo a Emanuele un parere sui disagi psicologici e sociali delle persone che si sono trasferite sulla costa. Lui fa subito una distinzione tra chi è stato costretto a sfollare per la prima volta, dopo il 30 ottobre, e chi invece ha subìto la violenza distruttiva di più terremoti e deve convivere con il trauma e il senso di precarietà. “A livello sociale”, dice, “sarebbe meglio rimanere sul territorio, tenere insieme la comunità, ma a livello psicologico è difficile restare, considerando che le scosse non accennano a fermarsi. Queste persone sono fortemente turbate, principalmente i bambini e coloro che stanno ancora metabolizzando il dolore del lutto”. I disturbi del sonno sono molto diffusi, lo stress, l’ansia, le dinamiche psicologiche pregresse si acutizzano, aumenta l’abuso di alcol, in particolare tra i giovani, mentre negli anziani lo sradicamento può arrivare a causare disturbi neurologici.
“In generale”, dice Emanuele, “le persone che hanno ancora un lavoro stanno meglio o che in qualche modo stanno cercando di riavviare la propria attività, anche se costretti a viaggiare per centinaia di chilometri al giorno”. Vivendo per un lungo periodo in albergo, senza privacy, senza i propri spazi, alla fine, come minimo, ci si annoia. Lo sradicamento può causare alienazione. “La smania di fare, la voglia di riattivarti che sulle prime ti prende, se non correttamente assistita col tempo può condurre a una frustrazione maggiore, in alcuni casi alla depressione”. Ecco perché il Gus, insieme a 180amici, sta attivando dei laboratori di cittadinanza in occasione di una Festa della creatività creata appositamente per gli sfollati di San Benedetto. Allo stesso tempo si cerca di sostenere associazioni locali, circoli, bocciofile, palestre, scuole di danza che offrono il loro aiuto. Anche di questo è fatta l’assistenza. “Assistenza”, ci tiene a rimarcare Emanuele, “che non deve sfociare nell’assistenzialismo”, perché la ripresa psicologica e sociale non può prescindere dalla volontà individuale.
Il coordinamento di Porto Sant’Elpidio
Arrivo a Porto Sant’Elpidio la mattina del 26 novembre, dove ho appuntamento con Letizia Bellabarba, un’altra coordinatrice del Gus che ho conosciuto nella tendopoli di Arquata del Tronto. Con lei c’è Maria Sibilla Iacopini, dirigente del dipartimento di salute mentale Asur dell’Area Vasta di Fermo. Da un mese lavorano fianco a fianco nel Presidio di assistenza sociosanitaria (Pass) allestito dalla protezione civile appena fuori il Camping Holiday, la struttura che ospita il Centro di accoglienza e smistamento per la regione Marche (Hub). Sibilla coordina i volontari delle associazioni che offrono un servizio psicosociale agli sfollati, tra cui il Gus, Prociv, la Federazioni psicologi per i popoli, la Ape onlus.
Davanti a un caffè, mi faccio raccontare qual è la situazione a quattro settimane dal sisma. “La prima emergenza, seppur in maniera un po’ caotica, è passata”, mi dicono. Data l’urgenza e il gran numero di persone coinvolte, il collocamento nei primi giorni è avvenuto in modo casuale. Gli sfollati che giungevano sulla costa sono stati allontanati dal centro di smistamento di Porto Sant’Elpidio, e hanno trovato alloggio in Romagna e in Abruzzo. Oggi, invece, si è in una fase di riavvicinamento, nella quale la protezione civile sta favorendo i ricongiungimenti familiari, cercando inoltre di soddisfare le esigenze scolastiche degli studenti.
Stanno emergendo diversi problemi sanitari e psichiatrici, legati sia a condizioni pregresse sia ai disagi causati del sisma, e il rischio è che non vengano correttamente seguiti a causa della dispersione della popolazione su un’area così vasta. Sarebbe necessario un grande coordinamento tra le Asl, i comuni di provenienza e le istituzioni ospitanti, ma spesso, lamenta Sibilla, si assiste a un rimpallo di responsabilità. “Manca una cabina di regia”, dice. “In questo momento bisognerebbe dare più sostegno ai sindaci dei comuni colpiti per non generare situazioni caotiche e differenze di trattamento”. E mi parla del caso delle scuole: tra i moduli provvisori nelle zone terremotate, l’ospitalità negli istituti costieri e la riapertura di un istituto alberghiero a Loreto, ancora in ristrutturazione, è difficile trovare soluzioni efficaci in tempi brevi.
Per avviare un processo di riorganizzazione sociale, sostengono Letizia e Sibilla, “sarebbe necessario un confronto diretto tra le tante realtà in campo, ma è proprio questo coordinamento dall’alto a essere carente”. “Dispiace vedere un apparato nazionale che non funziona efficacemente”, dice Letizia con rammarico. “Ci si aspetterebbe di più da un sistema che dovrebbe lavorare secondo protocolli standard e che invece dà l’impressione di essere in continuo affanno”. Due gli esempi: quello della protezione civile di Porto Sant’Elpidio e quello dei gestori delle strutture ricettive.
“Ai volontari locali”, dicono, “è stato affidato il solo compito di gestire il magazzino delle provvigioni”, limitando il loro contributo organizzativo. “Chi meglio di loro conosce il territorio, la qualità delle strutture e le persone che le gestiscono?”. Alcuni disservizi avrebbero potuto essere evitati, come nel caso dell’hotel Gilda, dove il ristorante non può essere riaperto e gli ospiti sono costretti ad andare al Camping Holiday per mangiare. I gestori, invece, hanno troppe responsabilità. “Non sono formati per affrontare disagi psicologici e sociali. Non è un loro compito, non è il loro lavoro”. Sibilla vorrebbe organizzare un incontro formativo con i gestori per aiutarli ad affrontare le piccole emergenze quotidiane, ma per il momento non trova riscontro tra i dirigenti del dipartimento della protezione civile.
A carte scoperte
Salutate le due donne, mi dirigo verso il Camping Holiday sperando di parlare con qualcuno della protezione civile. Trovo Lorenzo Alessandrini, il dirigente che in questi cento giorni ha condotto le operazioni di trasferimento della popolazione sulla costa. Alessandrini è in forza presso l’Ufficio relazioni istituzionali della protezione civile nazionale e, quando gli dico che sono aquilano, mi rivela di essere stato chiamato per quest’incarico proprio per il lavoro che aveva svolto nel 2009: fu lui a occuparsi della dislocazione degli sfollati aquilani. Da subito mostra doti da comunicatore e una disponibilità davvero apprezzabile. Io, invece, ammetto di non avere un buon ricordo della gestione dell’emergenza nella mia città, e quindi di nutrire un pregiudizio nei confronti della protezione civile.
A carte scoperte, la conversazione è diretta. Alessandrini conferma quanto detto da Sirolli: il dislocamento dopo il sisma del 24 agosto è avvenuto con facilità, secondo un programma pianificato. Questo è stato possibile poiché “non si lavorava in emergenza, il numero degli sfollati era ridotto e perché si è potuta concertare ogni decisione con i sindaci”. Si è riusciti a mantenere unite le comunità e, rispetto a quello che Alessandrini chiama il “modello L’Aquila”, i risultati sono stati migliori.
Dopo il 26 ottobre, invece, nonostante il sistema di trasferimento fosse ormai in piedi, si è riscontrata qualche difficoltà. “La protezione civile”, spiega, “stava dimagrendo. Si andava verso la smobilitazione. Ed è stata dura cercare di far salire di nuovo dentro di noi l’adrenalina necessaria a reagire”. La violenta scossa del 30 ottobre ha complicato il lavoro. In tempi brevissimi si è dovuto attivare un altro sistema, simile al “modello L’Aquila”, che lui definisce “catena di solidarietà al buio”. Per contenere il fiume di persone che si è riversato sulla costa, e senza il supporto delle amministrazioni locali, anch’esse colpite dal sisma, si è predisposto un deflusso sia verso nord sia verso sud, creando un effetto dispersivo tra la popolazione.
È stato Alessandrini a scegliere il Camping Holiday come centro delle operazioni. Nel 2009 aveva ospitato gli sfollati aquilani, quindi Alessandrini sapeva che il campeggio poteva accogliere più di 600 persone. Inoltre è facilmente raggiungibile dall’area colpita trovandosi in corrispondenza dello sbocco dell’arteria principale, la strada statale 77. Nella scelta delle altre strutture, mi spiega, “si è cercato di privilegiare i campeggi con bungalow e i residence per garantire un minimo di privacy agli sfollati”. Ma le difficoltà non finivano qui. Tra la variegata offerta della costa adriatica bisognava individuare strutture che avessero il riscaldamento e che garantissero la pensione completa in un periodo in cui molte sono in manutenzione.
Secondo Alessandrini i risultati finora ottenuti sono buoni, per certi versi migliori di quelli dell’Aquila
Delle tre fasi che caratterizzano questo tipo di assistenza, la prima, con cui si cerca di assicurare vitto e alloggio agli sfollati, si è conclusa. Dopo 15-20 giorni inizia la seconda fase, quella dei ricongiungimenti. “Stiamo provando a riunire non solo le famiglie, ma anche le comunità e addirittura i clan”, dice Alessandrini, riferendosi alla reti di amici. È una fase complessa, ma si seguono delle direttive, per esempio dando la priorità a chi ha malattie gravi e a chi ha ancora un lavoro. In generale, dice, “si sta cercando di riportare tutti nelle Marche”. L’ultima fase è la più critica: il ritorno alla “normalità”.
Bisogna risolvere il problema del rientro a scuola degli studenti, favorire l’iscrizione degli sfollati nelle liste degli utenti delle aziende sanitarie ospitanti, organizzare un sistema di mobilità che integri le corse dei pullman speciali a quelle di linea, armonizzare la vita quotidiana dei terremotati con il tessuto sociale del comune che li accoglie. È questo l’obiettivo finale della “task force” che dirige: “Creare un coordinamento che faccia funzionare in sinergia l’esistente”. E a suo parere i risultati finora ottenuti sono buoni, per certi versi migliori di quelli dell’Aquila.
Quando dico ad Alessandrini di aver riscontrato alcune criticità nell’operato della protezione civile, lui non si scompone, mantiene calma e sorriso, e ribatte colpo su colpo. La situazione degli sfollati in Abruzzo, a suo avviso, non è stata così allarmante e sarebbe comunque in via di risoluzione. Quanto ai gestori delle strutture ricettive starebbero collaborando egregiamente. “Stanno gestendo molte difficoltà in autonomia e ci chiamano quando hanno bisogno di aiuto”, dice Alessandrini. Sulla collaborazione con le amministrazioni e le associazioni di volontariato, dice, si lavora in sinergia, anche se “una macchina così grande ha bisogno di una grande armonia e ci vuole tempo per realizzarla”.
Meno poteri per la protezione civile
Gli chiedo se alcune difficoltà non dipendano dalla riforma della protezione civile del governo Monti. Alessandrini risponde che “in generale, maggiore è la potenza di fuoco, migliori sono i risultati”. A suo parere, è innegabile che il meccanismo assistenziale d’emergenza funzioni meglio tramite le ordinanze di tipo commissariale, come ai tempi di Bertolaso, perché il flusso di risorse è diretto e immediatamente disponibile. “È vero che la protezione civile è stata depotenziata”, dice, “ma stiamo facendo tutto il necessario per tornare in piena efficienza e il lavoro fatto in questi mesi lo dimostra”.
Gli domando ancora se la perdita di una struttura fortemente gerarchica e il decentramento dei poteri e delle responsabilità a favore delle protezioni civili regionali e delle amministrazioni locali non abbia causato qualche rallentamento. “Siamo in una specie di palestra, è un momento decisivo di riorganizzazione della struttura, a ogni livello”, ammette Alessandrini. Gli chiedo se nelle prossime settimane sarà possibile il passaggio di consegne alla regione e ai comuni. Lui dice di sì, ne è sicuro. Quando insisto nel sapere dove siano i responsabili regionali, diventa un po’ evasivo.
Spostando la conversazione sulla condizione degli sfollati e su quanto questa possa sostenibile nel lungo periodo, Alessandrini dice che “gli alberghi sono sociologicamente un tema da approfondire”. In hotel ci sono limitazioni di spazio che alla lunga possono creare problemi: non c’è privacy, la stanchezza può creare aggressività o ansia, e c’è un forte rischio di alienazione. In attesa della costruzione delle casette, prevista per il prossimo anno, si cerca di “invitare all’autonomia”, di incoraggiare la ricerca di soluzioni più vicine alle esigenze individuali. Ed è anche in quest’ottica che va considerato il Contributo di autonoma sistemazione: “Non come una forzatura dello stato, ma come una concreta possibilità offerta ai cittadini”.
Dopo la chiacchierata con Alessandrini mi sento rinfrancato, ma anche confuso. Sono molte le divergenze con quanto mi hanno detto i volontari, gli sfollati e i gestori. “È davvero la migliore assistenza che si possa offrire?”, mi domando. A chiarirmi le idee è stato l’incontro con un responsabile della protezione civile di Porto Sant’Elpidio, che mi chiede di rimanere anonimo. Dal suo punto di vista di volontario cresciuto professionalmente dentro il meccanismo di emergenza, “la protezione civile nazionale è tornata indietro di dieci anni. Quello messo in campo oggi è un sistema che non funziona”.
Conflitti di competenze
Pur elogiando lo straordinario lavoro della squadra di Alessandrini, riconoscendole il merito di aver “affrontato tre emergenze consecutive, cosa mai successa in Italia da quando esiste il dipartimento”, il responsabile di Porto Sant’Elpidio riscontra un evidente problema di coordinamento tra le istituzioni. “Tra protezione civile nazionale, regionale e locale, la regione Marche, la prefettura e i sindaci, ci sono troppi soggetti in gioco, e non esiste un protocollo che determini le dinamiche decisionali”. Non stupisce che l’Hub di Alessandrini e l’Asur fatichino a trovare un’intesa: “Cercano di fare la stessa cosa, ma in modo diverso e finiscono per sovrapporsi”. Invece “sarebbe stato sufficiente potenziare i mezzi dell’azienda sanitaria”.
Rispetto al terremoto dell’Aquila, durante il quale “la protezione civile gestiva, tramite la Direzione di comando e controllo (Dicomac) e i Centri operativi misti (Com) sparsi sul territorio, ogni aspetto dell’emergenza”, nel cratere sismico dell’Italia centrale la struttura del comando sarebbe invece “fortemente decentrata”. E questo non sarebbe dovuto solo al fatto che la Dicomac si trova a Rieti, quanto all’attuale difficoltà di dialogo tra i soggetti istituzionali coinvolti e alla mancanza di leggi chiare che ne determinino i ruoli. A suo parere, è questo deficit di coordinamento a creare problemi di gestione, ritardi, rimpalli di responsabilità e conflitti di competenze. “Certi protocolli operativi”, conclude il responsabile, “si potrebbero, anzi, si dovrebbero rivedere, altrimenti il rischio cui andiamo incontro è che questo modello diventi il modello”.
“È davvero questa la migliore assistenza che si possa offrire?”. Andando via da Porto Sant’Elpidio, mi rendo conto che la domanda è ancora senza risposta.
Questo articolo è stato aggiornato il 20 dicembre 2016.
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