Visto da fuori, il Casino de oficiales a Buenos Aires sembra una palazzina dozzinale, bianca, composta da due ali che si aprono intorno a un corpo centrale. Tinteggiato da poco, è immerso nel verde, tra alberi alti e frondosi, al margine estremo di quella che un tempo fu la Escuela de mecánica de la armada, più comunemente nota come Esma. Durante la dittatura militare che insanguinò l’Argentina tra il 1976 e il 1983 fu uno dei principali centri illegali di sequestro, detenzione, tortura e sparizione degli oppositori politici gestito dalla marina. Insieme a Campo de mayo, il Casino – una struttura di tre piani in un angolo dell’Esma – fu il più grande luogo di desaparición forzada (sparizione forzata) della capitale. Da qui, si calcola, passarono almeno cinquemila persone, che in maggioranza furono poi eliminate con i voli della morte: i loro corpi, coscienti o anestetizzati, venivano gettati in mare dagli aerei al largo della costa. Nel gergo cifrato dei militari, i voli erano definiti “trasferimenti”.
I centri clandestini disseminati nel paese furono più di 500 e fecero scomparire trentamila persone, per lo più tra i 16 e i 35 anni. E se queste cifre non servono certo a spiegare cosa fu nel dettaglio il terrorismo di stato, permettono almeno di avvicinarsi a due sue caratteristiche fondamentali. L’operazione di “annichilimento della sovversione” fu condotta in maniera sistematica, capillare, ossessiva a Buenos Aires, Córdoba, Rosario, Tucumán, Mendoza fino alle più sperdute città della vastissima provincia argentina, e – per metterla in piedi e portarla a termine – richiese non solo il coinvolgimento delle forze armate, della polizia, dei tribunali, ma anche di settori più ampi della società.
Una cappa plumbea di sospetti, denunce, delazioni si creò accanto a una vita che, per molti, continuava a scorrere nella più assoluta normalità. In secondo luogo, la repressione ebbe un carattere fortemente generazionale. Si abbatté su una parte consistente di quella generazione che – a metà degli anni settanta, quando non già prima del ritorno in patria di Juan Domingo Perón nel 1973 – aveva abbracciato la militanza politica nelle formazioni comuniste, guevariste o peroniste di sinistra, tanto che, nell’involuzione retorica dei teorici della dittatura, gioventù e sovversione finiscono spesso per essere termini interscambiabili.
La domanda ‘com’è stato possibile tutto questo?’ attraversa una parte consistente delle ultime generazioni
Nel 2004 il presidente Néstor Kirchner volle che diventasse la sede dell’Espacio memoria y derechos humanos. Nell’ultimo decennio è stato il cardine di una vasta opera di recupero della memoria che attraversa l’Argentina in maniera molto più incessante che nei vicini paesi latinoamericani, nonostante anche questi ultimi siano stati governati da dittature militari negli stessi anni.
Si può dire che fin dopo la sua morte nel 2010 e sotto la presidenza di sua moglie, Cristina Fernández de Kirchner, la macchina storica e quella giudiziaria siano andate avanti insieme. Da una parte, una volta giudicate incostituzionali le leggi dell’obediencia debida e del punto final, che avevano garantito un’ampia amnistia per i militari che avevano preso parte alla repressione, sono cominciati – non solo a Buenos Aires, anche in provincia – una miriade di processi che si sono chiusi con la condanna all’ergastolo di decine e decine di torturatori e repressori. Dall’altra il giornalismo, l’editoria, l’università, il dibattito pubblico, i musei sono stati attraversati, e in alcuni casi riplasmati, dalla riscrittura della storia degli anni settanta.
Tutto ciò è avvenuto dopo un limbo ventennale, in cui l’assenza di processi si era spesso unita al silenzio dei sopravvissuti e a quello delle generazioni successive, cresciute negli anni ottanta e novanta. Alla difficoltà di trovare le parole per decifrare l’orrore subìto si era spesso contrapposto il rifiuto di nominare il grande trauma da parte di chi era bambino durante la fase di passaggio dalla dittatura alla democrazia.
Di questo doppio movimento il museo dell’Esma costituisce l’architrave simbolico. Da una parte per la cosiddetta megacausa in cui è stato condannato l’intero Grupo de tareas che aveva organizzato e gestito la repressione al suo interno, e che è stata seguita da altri due processi conclusi e un terzo ancora in corso. Dall’altra per l’intervento museale che vi è stato realizzato, un intervento che – come si può leggere su una lastra all’ingresso – si basa su due assunti: “Minimo intervento, massima conservazione dei materiali originali”.
Dentro la macchina della repressione
Ciò che sorprende del campo di concentramento dell’Esma è la sua organizzazione razionale all’interno di uno spazio ridotto. I prigionieri erano detenuti in un angolo della soffitta chiamata capucha, sotto il tetto spiovente della palazzina. Erano detenuti a gruppi di sessanta alla volta, divisi in piccoli cubicoli separati, incappucciati, le gambe e i polsi legati. Non erano mai chiamati con il loro nome, ma semplicemente designati con un numero.
L’angusta capucha non è lunga più di trenta metri, il che fa capire perché lo spazio riservato a ogni singolo detenuto fosse definito “cuccia”. Una volta qui impossibile non fare due calcoli e pensare a quanto frequenti siano stati i “trasferimenti” per eliminare migliaia di persone attraverso un lager impiantato in una soffitta.
Accanto alla capucha ci sono poi altre stanze adibite agli interrogatori e alle torture, i bagni e una piccola camera destinata alle donne incinte: furono più di trenta quelle che passarono per l’Esma. I neonati venivano sottratti alle madri e consegnati a famiglie di militari o vicine al regime: si calcola che in tutto il paese furono più di 400 i neonati sequestrati. Finora, nonostante il lavoro delle Abuelas de plaza de Mayo (Nonne di plaza de Mayo), è stato possibile identificarne solo 122.
Sempre all’ultimo piano ci sono il pañol chico e il pañol grande. Nel primo venivano accatastati vestiti, scarpe, portafogli dei detenuti “trasferiti” o in procinto di esserlo. Nel secondo i beni sottratti nelle loro case: mobili, stufe, biciclette, librerie, valige, lavatrici.
Sotto la soffitta, per volere di Emilio Massera in persona, l’ammiraglio ai vertici della marina e della dittatura, fu creato il centro informazione che doveva rispondere alle campagne interne e internazionali contro la dittatura (come quella per il boicottaggio dei Mondiali del 1978).
L’intervento sulla struttura originaria è stato il meno invasivo possibile. Ogni tanto tra le stanze anguste e asettiche della capucha ci sono cartelli informativi o video con le testimonianze dei sopravvissuti al processo dell’Esma e nel primo processo contro i vertici della dittatura, quello del 1984-85, di cui rimangono solo poche ore di registrazione. I sopravvissuti si soffermano sui dettagli della loro detenzione, le violenze subite, il rapporto con il tempo, il terrore, i compagni scomparsi, gli oggetti e i piccoli dettagli a cui ci si aggrappa per non soccombere.
Dalla capucha erano portati nei sótanos, negli scantinati, dove venivano interrogati e torturati, torturati e interrogati, in sessioni lunghe e sistematiche. Per condurli dalla soffitta alle viscere della palazzina, e viceversa, veniva usata la scala interna. E qui il corteo incontrava gli ufficiali ospitati nel Casino. Non solo quelli addetti alla gestione del centro clandestino, non solo i grupos de tareas che avevano il compito di stroncare la sovversione, ma anche gli ufficiali che insegnavano nella Escuela mecánica de la armada e che ogni mattina si alzavano e uscivano da lì per tenere lezione. Ed è proprio questa vicinanza ad apparire oggi incredibile.
È lo stesso motivo per cui le stanze più sinistre dell’intero edificio sono quelle che al piano terra costituivano la Casa del almirante, la residenza occupata, a partire dal golpe del 1976, dal contrammiraglio e direttore dell’intera Esma Rubén Jacinto Chamorro, detto Delfín (Delfino). Una casa molto grande, i cui pavimenti sono quasi interamente ricoperti da parquet, con una cucina ultramoderna per gli standard dell’epoca e un ampio salone di rappresentanza che affacciava sul giardino interno, i pini, le aiuole curate. Qui Chamorro ospitava la famiglia nei fine settimana. Durante la settimana invece era solito salire in soffitta, accompagnato dai suoi sottoposti, per far visita ai detenuti incappucciati che, una volta torturati, sarebbero stati “trasferiti”.
Oltre l’Esma
A giudicare dal numero di persone che si incontrano tra i corridoi, l’Espacio memoria ricostruito all’interno dell’Esma è un luogo molto visitato. Turisti stranieri, scolaresche, studenti universitari… Così come molto visitato è il centro Haroldo Conti, che sorge poco più in là e che ospita mostre, spettacoli teatrali, dibattiti, rassegne cinematografiche (lo spazio cinema prende il nome di Raymundo Gleyzer, regista militante dell’Ejército revolucionario del pueblo fatto sparire il 27 maggio 1976).
Tuttavia, per capire come l’Espacio memoria sia solo la punta dell’iceberg di un movimento di recupero diffuso, molecolare, occorre allargare lo sguardo, in città e altrove.
La domanda alla base di tutto, e cioè “come è stato possibile tutto questo?”, attraversa una parte consistente delle ultime generazioni e ricorda quello che è accaduto in Germania dopo il 1968, quando cominciò un radicale processo di denazificazione. L’obiettivo non è dire ciò che non è stato detto per decenni, ma decostruire la zona grigia della dittatura e le tante contraddizioni di un passato politico complesso che riguarda non solo gli anni successivi al golpe, ma anche quelli convulsi che lo precedettero.
La biblioteca nacional ha ospitato per tutto il mese di giugno una mostra su Rodolfo Walsh, autore di Operazione massacro, ucciso dai militari subito dopo aver scritto Lettera aperta alla giunta militare. Della morte di Walsh sono stati ritenuti responsabili proprio Alfredo Astiz e il Grupo de tareas dell’Esma, dove il cadavere fu portato dopo il sequestro. Negli anni del kirchnerismo, Walsh, da sempre considerato dalla destra argentina alla stregua dei terroristi per la sua militanza nella formazione peronista rivoluzionaria dei Montoneros, è stato oggetto di un forte recupero (quasi in opposizione al conservatore Borges). La sua Lettera aperta è scritta quasi per esteso su dei pannelli di vetro nel parco davanti al Casino de oficiales. I suoi libri e racconti spuntano nelle vetrine di tutte le librerie. Il suo volto (gli occhiali dalla spessa montatura nera, le guance scavate) compare nelle foto issate in ogni manifestazione di ricordo dei desaparecidos. Gli è stata intitolata anche una stazione della metro.
Sui marciapiedi di Buenos Aires spuntano invece le baldosas por la memoria. Piccole targhe, spesso colorate, che ricordano il nome dei militanti che hanno vissuto nel quartiere e proprio lì, nelle case che affacciano su quei marciapiedi, sono stati sequestrati. In un quartiere come San Cristóbal, lo stesso in cui fu sequestrato Rodolfo Walsh, ce ne sono tantissime. Sulle strade principali del quartiere formano una lunga striscia che accompagna il cammino dei passanti.
La minaccia del revisionismo
Da quando Mauricio Macri si è insediato alla presidenza, e cioè nel 2015, organizzazioni storiche come le Madres, le Abuelas e gli Hijos temono che il lavoro fatto nell’ultimo decennio sia messo in discussione. Due sono i capisaldi teorici attraverso i quali sarebbe avallato il revisionismo storico. Il primo è la messa in discussione del numero dei trentamila desaparecidos. Ne sono un esempio le parole pronunciate da Claudio Avruj nell’agosto del 2016, nuovo segretario di diritti umani (settore del ministero della giustizia incaricato di coordinare le azioni di promozione e di difesa dei diritti umani), indignato per l’equiparazione tra i militari argentini e i nazisti: “I desaparecidos non superarono i novemila, però le organizzazioni dei diritti umani hanno fatto così tante storie da obbligarci a ripetere la menzogna delle trentamila vittime”.
Il secondo è costituito dalla teoría de los dos demonios, secondo cui c’è stato sicuramente il terrorismo di stato, ma c’è stato anche quello delle formazioni estremiste, il primo si è opposto al secondo, e gli argentini sono finiti nel bel mezzo di questo fuoco incrociato. Pertanto, come si ricordano i morti degli uni (per esempio i “trasferiti” dell’Esma), bisogna cominciare a ricordare anche i morti degli altri. Ed è stato proprio Claudio Avruj a ricevere gli esponenti del Centro de estudios legales sobre el terrorismo y sus victimas, organizzazione che vorrebbe far processare i militanti delle organizzazioni guerrigliere sopravvissuti al terrorismo di stato e responsabili di azioni armate.
Nel nuovo museo della Casa Rosada, che sostituisce per volere del nuovo presidente il museo del bicentenario voluto da Cristina de Kirchner, la storia degli ultimi due secoli del paese è raccontata con parole diverse rispetto a quelle ufficiali degli anni precedenti. In particolare, gli anni che vanno dal 1955 al 1983 sono definiti sbrigativamente “república condicionada”, come se fossero un unico blocco. La parola “dittatura” è usata con parsimonia, mentre si parla esplicitamente di formazioni terroriste peroniste che hanno contribuito al caos da cui poi germinò il “piano di riorganizzazione nazionale”.
A ciò si aggiungono gli avvicendamenti alla direzione di quasi tutti gli istituti culturali voluti dalla nuova presidenza. E, come lamentano per esempio alcuni dipendenti del centro Conti che preferiscono rimanere anonimi, i fondi destinati alle politiche della memoria cominciano a essere ridimensionati, quando non destinati direttamente ad altre iniziative.
La punta dell’iceberg di questo sommovimento è costituita dalla vicenda del “2x1”. Quando la corte suprema, grazie all’impulso dei nuovi giudici nominati da Macri, ha proposto di dimezzare gli anni di carcere per alcuni responsabili del terrorismo di stato che si sono macchiati di crimini contro l’umanità, riesumando la “legge del 2x1”, a Buenos Aires si è tenuta ai primi di maggio un’imponente manifestazione. Non c’erano solo le organizzazioni storiche come ad esempio le Abuelas che sul loro bollettino mensile hanno ribadito: “Non permetteremo l’impunità. L’unico luogo per un genocida è la prigione comune, perpetua ed effettiva”.
La grande maggioranza dei manifestanti aveva meno di 35 anni: cosa usuale nell’Argentina odierna, chi è nato dopo “i fatti degli anni settanta” è più portato a schierarsi di chi è nato prima. Inoltre, a poche ore dalla manifestazione, il senato aveva votato quasi all’unanimità (con un solo voto contrario) una legge che rende inapplicabili i benefici dello sconto di pena per chi si è reso responsabile di crimini contro l’umanità. Così la corte, e lo stesso governo Macri che aveva appoggiato la misura, sono stati costretti ad arrendersi.
Quelle manifestazioni hanno segnato uno spartiacque nel rapporto tra il governo Macri e le politiche della memoria adottate fino alla sua presidenza. Come dice Horacio Verbitsky (tra i primi a denunciare la regresión in materia di diritti umani con un lungo articolo sul quotidiano Página12), “il tentativo da parte del governo c’è, è in atto ed è del tutto evidente, ma non è detto che prevalga”. Non è detto che ciò avvenga, prosegue Verbitsky, perché ormai le parole d’ordine dei diritti umani e la condanna del terrorismo di stato sono talmente radicate tra le persone e nel discorso pubblico, da non permettere un colpo di spugna, almeno non tanto facilmente.
Ribaltamento della verità
Verbitsky, autore di Il volo, uno dei libri fondamentali per capire come è stata condotta l’eliminazione sistematica degli oppositori, mi riceve nel suo studio nel cuore di Buenos Aires, a poche centinaia di metri dall’obelisco al centro di avenida 9 de Julio. La stanza è piccola e affollata di libri e, tra le foto che spuntano alle spalle della scrivania, è impossibile non notarne una che lo ritrae da giovane (avrà avuto meno di trent’anni) accanto a Juan Domingo Perón. Nella foto sorridono entrambi. Da giovane peronista di sinistra, Verbitsky era poi entrato nei Montoneros, collaborando con Walsh alla creazione della Agencia de noticias clandestinas, uno dei pochissimi tentativi di mettere in piedi un centro di controinformazione durante la dittatura.
Del nuovo revisionismo dice lapidario: “Un conto è l’autocritica, un altro il ribaltamento della verità. Non è vero che i sopravvissuti delle formazioni guerrigliere non abbiano fatto autocritica. Noi Montoneros per esempio l’abbiamo fatto. Abbiamo criticato il nostro militarismo, il settarismo, gli errori commessi. Ma ora si pretende qualcosa di diverso, si pretende che i sopravvissuti e le organizzazioni dei diritti umani assumano lo stesso punto di vista di chi allora stava con la dittatura”.
Se da una parte c’è chi vorrebbe sostituire l’analisi del terrorismo di stato con quello della lotta tra opposti estremismi, dall’altra c’è chi sostiene – proprio sulla scia dei libri di autori come Verbitsky – che quella argentina non è stata semplicemente una dittatura militare, bensì una dittatura “civico-militar y ecclesial”. E che quindi occorre estendere l’analisi anche alle responsabilità di una parte delle istituzioni ecclesiastiche e delle alte sfere dello stato (i giudici, per esempio) e dell’economia (le grandi imprese che avevano, e hanno, in mano l’economia del paese).
Due libri da leggere
Basta fare un giro in una delle tantissime librerie che affollano Buenos Aires (lungo a Corrientes, tra librerie di catena, indipendenti e di libri usati, ne ho contate una ventina in pochi isolati) per accorgersi di quanti libri sugli anni settanta siano prodotti ogni anno, se non addirittura ogni mese. E di come molti di questi rispondano a tale esigenza ulteriore di spazzolare la storia contropelo, che va ben oltre il modo in cui lo scontro politico tra kirchnerismo e antikirchnerismo ha utilizzato, da una parte e dall’altra, lo spazio della memoria.
Vorrei segnalare due tra i libri usciti negli ultimi mesi che più hanno suscitato un dibattito. Il primo è Ceniza que te rodearon al caer di Federico Lorenz, un esempio rigoroso di giornalismo narrativo che scava nella vita di Ana María González, la ventenne militante montonera che nel 1976 uccise il capo della polizia della dittatura Cesáreo Cardozo.
Ana María era collega di università della figlia di Cardozo, studiavano insieme, era accolta regolarmente nella casa del generale, che poco o nulla sospettava di lei fino a quando un pomeriggio non pose una bomba al tritolo sotto il letto dove dormiva. Lorenz non rievoca solo i fatti di allora, ma il modo in cui furono raccontati dai mezzi d’informazione vicini al regime, e soprattutto compone la biografia di Ana María González, cosa l’ha spinta alla militanza e a una simile azione, provando a ridurre la distanza tra il contesto dell’Argentina di quegli anni e quello attuale. Cos’è cambiato davvero? Cosa appare lontano anni luce?
Profeta del genocidio, dei giovani storici Lucas Bilbao e Ariel Lede Mendoza, analizza invece la controversa figura del vescovo Victorio Bonamín, ai vertici del vicariato castrense, che guidò i cappellani militari mentre si compiva la mattanza. Bonamín rappresenta il punto più estremo di quella parte della chiesa cattolica organica alla dittatura militare, tanto da arrivare a legittimare l’uso della tortura nella guerra contro il caos “creato dai sovversivi”.
Ma se centinaia tra i militari e i poliziotti dell’epoca sono stati condannati all’ergastolo o a pene cospicue per crimini contro l’umanità, lo stesso non si può dire per i cappellani militari e per quella parte della chiesa vicina alla dittatura. Finora il solo caso di un cappellano condannato al carcere a vita è quello di Christian von Wernich, che prese parte alla repressione a La Plata e che è stato ritenuto responsabile di 33 sequestri e 19 omicidi. I curati coinvolti sono stati presumibilmente un centinaio, ma nessun altro processo è riuscito, per un motivo o per un altro, a giungere a conclusione.
Nominare i sommersi
Oltre all’ex Esma, l’altro importante polo pubblico intorno al quale si articola il ricordo delle vittime del terrorismo di stato è il parque de la Memoria che sorge lungo il mare, a due passi dalla città universitaria.
Qui sono ricordati tutti i desaparecidos di cui è stato possibile indicare i nomi. Sono tutti impressi – i nomi e i cognomi di donne, uomini, bambini, seguiti dal numero di anni che avevano al momento della scomparsa – su lastre di porfido grigio disposte su cinque lunghissimi muri che paiono posati a zig zag sul prato verde. I nomi, nient’altro che i nomi. E l’età, nient’altro che l’età. Per i primi anni della dittatura, il 1976 e il 1977, quando la repressione fu feroce, la lista è interminabile.
Una fredda sequenza che permette ancora una volta di avvicinare, se non proprio comprendere pienamente, l’entità del terrorismo di Stato. I lunghissimi muri accompagnano il visitatore verso le acque marroni del rio de la Plata, il fiume-mare che bagna Buenos Aires. Ed è allora, proprio allora, che ho un sussulto.
Il ricordo essenziale (e allo stesso tempo insopportabile) di decine di migliaia di vite ridotte al nulla non può non far affiorare in un angolo della mia mente altri muri bianchi tappezzati di nomi, nient’altro che nomi, visti molti anni fa nella sinagoga di Praga. Nomi che nominavano altri sommersi ridotti in cenere nei lager europei, così come quelli nominati su questi muri furono dati in pasto ai pescecani, una volta “trasferiti” dal buio dei centri di detenzione.
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