“Sono italiana, ma la mia vita è a Londra: sulla carta d’identità ho un indirizzo inglese e ho qui il mio medico di base. Però negli ultimi anni il clima è diventato sempre più ostile, soprattutto verso di noi senza dimora. Pochi giorni fa mi hanno mandato questa lettera dove dicono che non ho più il diritto di risiedere nel Regno Unito, perché secondo loro ‘non sono regolare’. Cosa vuol dire che non sono regolare?”.
Incontro Francesca una mattina di fine gennaio in un bar nella periferia nord di Londra. Il nome è di fantasia, come quello degli altri senza dimora intervistati, che hanno chiesto di rimanere anonimi per non esporsi troppo. Francesca ha cinquant’anni e da cinque vive nella capitale britannica. È minuta, porta i capelli ossigenati tagliati cortissimi, una pesante linea nera le ricalca il contorno degli occhi, che così sembrano ancora più azzurri.
“Non sono la prima, è successo anche ad altri italiani che conosco. Un ragazzo era qui da sette anni e l’hanno rimpatriato, un altro è tornato a casa a Natale e non gli hanno permesso di rientrare. Una mia amica che sta qui da 17 anni ha ricevuto la stessa lettera, però lei ha un figlio con un inglese e ha potuto impugnare la decisione, altrimenti avrebbero espulso anche lei”.
Questo provvedimento ha colpito deliberatamente una delle categorie più vulnerabili della società
Negli ultimi cinque anni, il governo britannico ha rimpatriato più di 200mila persone. Dopo il referendum sulla Brexit, le espulsioni hanno colpito sempre di più una categoria: i cittadini europei. Solo nel 2017, 5.300 sono stati allontanati dal Regno Unito, con un aumento del 20 per cento rispetto all’anno precedente.
“Tornare in Italia per me sarebbe impossibile, lì non ho più niente: i miei figli vivono con il mio ex marito e i miei genitori non mi vogliono a casa”. Appena arriva il cappuccino, Francesca prende una decina di bustine di zucchero, le apre tutte e le versa una dopo l’altra nella sua tazza. “Ho bisogno di energie”, si scusa.
Dopo aver ricevuto la lettera, ha consultato un avvocato per capire se nella sua situazione era possibile appellarsi contro la decisione, ma apparentemente non c’è alcuna soluzione. “Farò di tutto per restare a Londra, anche se mi hanno negato ogni aiuto e adesso vogliono anche buttarmi fuori dall’ostello di emergenza dove ho un posto letto. Sarà molto dura, non sono più abituata a vivere in strada. Prima dormivo accucciata in uno di quei gabbiotti dove ci sono i cassonetti della spazzatura: mi sembrava un posto riparato, almeno c’era una porta e mi dava l’idea di casa”.
Per legge, il governo britannico può decidere di rimpatriare un cittadino europeo se ha commesso un crimine o se ha perso la residenza – per esempio perché gli era stata concessa per motivi di studio e lavoro, e non studia o lavora più, oppure perché ne sta facendo un “uso improprio”.
Dal maggio 2016, bastava essere senza dimora. E questo perché il ministero dell’interno – guidato da Theresa May, prima che diventasse premier – aveva emanato un provvedimento secondo cui gli europei che dormivano per strada stavano “abusando” della loro libertà di movimento e non avevano il diritto di rimanere nel Regno Unito, anche se avevano un lavoro, pagavano le tasse e avevano una residenza.
“Questo provvedimento ha colpito deliberatamente una delle categorie più vulnerabili della società”, afferma David Jones, attivista del gruppo North East London migrant action. “Sono cominciati così arresti arbitrari, requisizioni di documenti, incarcerazioni nei centri di detenzione per migranti e rimpatri, senza che fosse stato commesso alcun crimine e senza che si svolgesse un regolare processo”.
Per un anno e mezzo, il volto del Regno Unito è stato questo. Nonostante le pressioni della Commissione europea sul governo guidato da Theresa May, niente è cambiato finché due polacchi e un lettone colpiti dal provvedimento si sono appellati alla corte suprema britannica. Il 14 dicembre 2017, dopo mesi di battaglie legali, la corte lo ha dichiarato illegittimo. Tuttavia, le ripercussioni sulla vita dei senza dimora sono state pesantissime e hanno effetti ancora oggi.
La reputazione di Londra
Per capire quanto siano gravi, bisogna tenere presente il contesto. Nel Regno Unito ci sono più di 300mila persone che dormono per strada, in ostelli di emergenza, o in strutture messe a disposizione da comuni e servizi sociali, si legge nel rapporto che l’associazione Shelter ha stilato nel 2017 – 13mila in più rispetto al 2016.
A Londra, secondo il governo, le persone che dormono per strada sono più di ottomila. Il 40 per cento arriva da paesi dell’Unione europea, in particolare dalla Romania (15 per cento) e dalla Polonia (8 per cento), mentre gli italiani sono solo il 2 per cento.
“Negli ultimi anni stiamo assistendo alla nascita di un nuovo gruppo sociale: i lavoratori senza dimora”, spiega Jones. “Gli affitti sempre più alti, i tagli alla spesa pubblica e i contratti atipici hanno peggiorato le condizioni delle fasce più deboli, aumentando non solo il numero dei lavoratori poveri, ma creando una vera e propria classe di lavoratori che dormono in strada perché non hanno altra scelta”.
Secondo un portavoce del ministero dell’interno, “non è accettabile che qualcuno arrivi nel Regno Unito con l’intenzione di dormire per strada”. I senza dimora, secondo il governo, starebbero “danneggiando la reputazione di Londra come destinazione turistica, avendo un impatto negativo sui servizi ai residenti e agli altri visitatori”.
Arresti senza processo
Per evitare di “danneggiare la reputazione di Londra”, gli agenti del reparto speciale per l’immigrazione e il controllo dei confini hanno cominciato a fermare sempre più persone. A Cesare (nome di fantasia) è capitato di trovarsi in una situazione del genere nell’estate 2016: “Quando mi hanno fermato, gli agenti mi hanno chiesto un documento, una prova del mio indirizzo inglese e il contratto di lavoro. Io ho fatto vedere la carta d’identità e, per dimostrare che avevo un impiego, gli ho dato il tesserino di venditore del giornale The Big Issue. Ma loro mi hanno detto che quello non è un lavoro vero e mi hanno sequestrato i documenti”. Quando gli chiedo perché, scuote la testa e ridacchia: “Non lo so, forse perché avevo una barba lunga così!”.
Cesare è polacco, ha 53 anni e si è trasferito a Londra nel 2014. Dopo averlo fermato, gli agenti hanno trattenuto la sua carta d’identità e al suo posto gli hanno dato un foglio, dicendo che valeva come documento sostitutivo. “La prima volta che l’ho mostrato a un colloquio di lavoro mi hanno detto che non potevano assumermi e mi hanno mandato via in fretta e furia. Io non parlo bene l’inglese e non capivo cosa c’era scritto, ma poi un avvocato mi ha spiegato che quel foglio anticipava un possibile rimpatrio”.
Rimasto senza documenti, Cesare è stato un anno senza poter lavorare, dormendo per strada. Ora l’ambasciata polacca gli ha rilasciato un nuovo passaporto, che gli ha permesso di ricominciare a lavorare come muratore. “Quando cammino per strada, ho ancora paura che la polizia mi fermi, mi prenda il passaporto e mi chiuda in un centro di detenzione per migranti. È successo a tante persone che conosco”.
Non sai mai quello che ti può succedere: qualcuno chiama la polizia e in un secondo sei arrestato
Cesare è solo uno dei molti europei colpiti dal provvedimento del ministero dell’interno, che però non si è mai preoccupato di diffondere statistiche ufficiali sulle persone coinvolte. Secondo quelle fornite dallo Strategic legal fund, un progetto nato per aiutare i migranti più giovani, almeno 55 persone fermate a Londra avrebbero optato per il cosiddetto “rimpatrio volontario”, mentre altre 133 sarebbero state espulse.
Per le associazioni queste cifre sono sottostimate, e dicono che si tratta solo della punta dell’iceberg. “Non sappiamo quante delle persone che seguivamo in qualche modo siano state colpite”, si legge in un comunicato dell’associazione Crisis. “Alcuni sono semplicemente scomparsi senza preavviso e senza lasciare tracce, non sappiamo cosa gli sia successo”.
Il 15 dicembre 2017, seguendo le procedure previste dal Freedom of information act, Internazionale ha chiesto al ministero dell’interno i dati sui senza dimora italiani colpiti dal provvedimento, ma dopo tre mesi non ha ottenuto alcuna risposta – nonostante siano passati i venti giorni lavorativi annunciati dal ministero per l’invio della risposta.
Chi collabora con la polizia
Di sicuro c’è solo che all’entrata della metropolitana, sotto i cavalcavia o all’ingresso dei supermercati, i controlli sono stati così frequenti che molte persone hanno deciso di cercare un posto più nascosto dove dormire. “Ancora oggi, ogni sera dormo in un posto diverso”, racconta Cesare. “Quando vivi in strada non sai mai quello che ti può succedere: magari qualcuno ti vede, chiama la polizia e in un secondo vieni arrestato”.
Secondo un’inchiesta di Corporate Watch, i controlli erano fatti anche dagli operatori di tre grandi associazioni che paradossalmente hanno come missione proprio quella di aiutare chi non ha una casa: St Mungo’s, Thames Reach e Change Grow Live. Queste organizzazioni hanno passato al ministero le informazioni sulle persone che si rivolgevano a loro, e hanno aiutato la polizia a capire dove vivevano.
Le tre associazioni si sono difese spiegando che hanno agito “nell’interesse delle persone senza dimora”, con l’obiettivo di aiutarli a “ritornare a casa in modo volontario”, e che hanno passato informazioni alla polizia solo quando la persona dava il suo consenso. Ma l’inchiesta ha dimostrato che non sempre è stato così.
L’Observer ha poi rivelato che il ministero ha messo le mani sull’archivio della Greater London authority, l’ente amministrativo della capitale che contiene dati sensibili sui senza dimora.
La conseguenza è che chi dorme in strada vive in un costante clima di sospetto: le persone hanno paura ad accedere ai servizi sociali, alle mense, ai centri diurni e addirittura agli ospedali perché temono di essere schedate e denunciate.
“Non possiamo più fidarci di nessuno”, racconta Cesare. “Quando ti rivolgi a un’organizzazione, la prima cosa che ti chiedono è: ‘Sei sicuro che non vuoi tornare nel tuo paese?’. Lo chiamano ‘rimpatrio volontario’, è questo l’unico aiuto che ti offrono. E poi ti fanno un sacco di domande, vogliono sapere tutto”.
Nei centri di detenzione
Alcuni senza dimora europei, dopo essere stati fermati, sono stati portati a Harmondsworth, uno dei centri di detenzione per migranti in attesa di rimpatrio esistenti nel paese, dove le persone sono trattenute a tempo indeterminato, visto che la legge non stabilisce alcun limite. Harmondsworth si trova vicino all’aeroporto di Heathrow, a ovest di Londra, ed è il più grande di questi centri.
“Non le chiamano prigioni, ma di fatto lo sono”, dice Shadin Dowson-Zeidan, attivista dell’organizzazione Soas detainee support. “Dentro è richiesta la stessa disciplina e c’è la stessa segregazione: le persone sono chiuse nelle celle e hanno alcune ore di libertà negli spazi comuni. Proprio come in prigione, se vogliono, possono lavorare: pulire, cucinare, occuparsi del giardino o della lavanderia. La paga è di una sterlina all’ora”.
L’obiettivo era creare un clima così ostile contro migranti e senza dimora da spingerli a lasciare il paese
Ogni anno, circa 30mila persone passano attraverso questi centri. Sono richiedenti asilo in attesa di risposta, o persone a cui non è stato concesso lo status di rifugiato, oppure europei accusati di aver “abusato” della loro libertà di circolazione. I numeri sono in leggero calo, tranne che per quest’ultima categoria: dal giugno 2016 al giugno 2017 sono passati da 4.400 a 5.300.
“Qui dentro sono trattato come un cane. Dormo in una cella con un’altra persona, mi manca l’aria, i vetri non si possono aprire e ognuno respira l’alito dell’altro”. Era il dicembre 2017 e a parlare era Gabriele (il nome è di fantasia), un ragazzo romeno trattenuto a Brook house, il centro di detenzione vicino al grande aeroporto di Gatwick, a sud di Londra.
“Molte persone entrano in depressione: dopo tanto tempo chiuse dentro, senza sapere quando tutto questo finirà, non reagiscono più. Non c’è un’infermeria e, se qualcuno sta male, i medici lo visitano nella cella o negli spazi comuni, anche se la situazione è grave. Ho visto persone perdere conoscenza, sanguinare, vomitare, e nonostante questo sono state curate davanti ai nostri occhi”.
Le inchieste di Bbc Panorama e Channel 4 News Investigation hanno rivelato cosa succede in due centri di detenzione: si va dallo spaccio di droga alle violenze delle guardie sui detenuti. “Il problema più grande però è l’accesso alle cure, sia per chi arriva con delle malattie, sia per chi si ammala qui”, spiega l’attivista Dowson-Zeidan. “In particolare, molti hanno disturbi psicologici legati ai traumi subiti durante il viaggio verso l’Europa: depressione, ansia, stress causato dall’incertezza sul futuro, fino ad arrivare all’autolesionismo e a tentativi di suicidio”.
Secondo Dowson-Zeidan, all’interno dei centri le persone non ricevono il supporto adeguato, e anzi vengono lasciate in una situazione di continua incertezza: “Non sanno se e quando saranno rilasciati, e appena cominciano a fare amicizia con i compagni vengono spostati di cella, o trasferiti in altri centri, senza alcun preavviso. Inoltre, non gli viene garantita l’assistenza legale gratuita, così molti di loro si trovano incarcerati senza neanche capire il perché”.
In questo contesto, mantenere la lucidità è difficile. “Sto pregando per avere la forza di non crollare”, raccontava Gabriele. “Sono solo un ragazzo, devo continuare la mia vita. Non capisco perché mi tengano ancora qui”. Due mesi dopo questo racconto, nel gennaio 2018, Gabriele è stato liberato e rimpatriato in Romania. L’ultima volta che l’ho sentito, mi ha chiamato dalla sua città, Bacău, nel nordest del paese: “Non ne potevo più di essere chiuso a Brook house. Sulla scaletta dell’aereo avevo paura che cambiassero idea e mi riportassero dentro”.
Un approccio fallimentare
Oggi una storia del genere non potrebbe più accadere. Dal 14 dicembre 2017, i rimpatri di cittadini europei senza dimora non sono più possibili: la corte suprema del Regno Unito ha infatti dichiarato illegittimo il provvedimento del ministero dell’interno che li permetteva. “Nessuno potrà essere arrestato solo per il fatto di dormire per strada, e chi è rinchiuso in un centro di detenzione dovrà essere rilasciato e potrà chiedere un risarcimento”, spiega Paul Heron, l’avvocato dei tre uomini che hanno fatto ricorso contro il provvedimento. “È uno schiaffo in faccia al governo, che sta deliberatamente creando un clima sempre più ostile contro i migranti, in particolare contro i lavoratori europei”.
Anche Diane Abbott – ministro dell’interno del governo ombra del Partito laburista – aveva criticato l’esecutivo: “È un provvedimento moralmente discutibile e il ministro non può continuare su questa strada. Non credo che l’espulsione illecita di cittadini europei vulnerabili possa avere un impatto positivo sui negoziati per la Brexit”.
Il governo ha registrato la bocciatura e le operazioni contro i senza dimora sembrano essersi fermate. Ma secondo David Jones, attivista del North East London migrant action, bisogna restare vigili: “Le persone possono ancora essere espulse per molti motivi, per esempio perché non lavorano. Ma adesso la polizia deve fare attenzione e analizzare caso per caso, invece di applicare una regola generale”.
Di recente, il Guardian ha rivelato che l’associazione St. Mungo’s continua a collaborare con le autorità per individuare chi tra i senza dimora si trova illegalmente nel Regno Unito.
La legge, dunque, è sparita, ma il contesto in cui è nata non è cambiato molto. Il paese che ha votato la Brexit è ancora fatto di persone che hanno perso o rischiano di perdere il lavoro a causa della concorrenza di aziende e lavoratori stranieri, e per questo sono diffidenti quando non apertamente razzisti. È facendo leva su questi sentimenti che il governo di Theresa May ha potuto immaginare e approvare un provvedimento come quello che, prima di essere bocciato dalla corte suprema, ha reso la vita impossibile a migliaia di persone. L’obiettivo era quello di creare il cosiddetto hostile environment, un clima così ostile contro migranti e senza dimora da spingerli a lasciare il paese.
“Questo approccio non solo è discriminatorio, ma è anche poco efficace”, dice David Jones. “Invece di ridurre il numero di migranti e persone che vivono per strada, sta causando seri problemi: le donne straniere incinte hanno paura di farsi visitare in ospedale e i senza dimora non si fidano più delle associazioni che dovrebbero aiutarli. Le risorse che sono state utilizzate per allontanare e detenere le persone dovrebbero essere investite per potenziare i servizi sociali e le politiche di welfare”.
Le foto di questo articolo fanno parte del progetto Traces of warm del fotografo Grey Hutton. Negli ultimi tre mesi Hutton ha usato una termocamera – una telecamera a infrarossi che rileva il calore corporeo, spesso usata per fini scientifici o militari – per fotografare i senza dimora che dormono per le strade di Londra e Berlino.
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