Con la riforma che la ministra dell’università e della ricerca Anna Maria Bernini vorrebbe far approvare e i tagli decisi dal governo Meloni, gli atenei italiani rischiano di lasciare a casa circa due terzi dei più di trentamila lavoratori precari, tra professori a contratto, assegnisti, borsisti e ricercatori. Intanto, negli ultimi sei mesi si stima che siano terminati 1.500 rapporti di lavoro a tempo determinato.
L’aumento dei lavoratori precari nel mondo dell’accademia non è una novità: erano il 18 per cento nel 2010, hanno raggiunto il 42 per cento nel 2024. Del resto l’Italia è uno dei paesi che investe meno in questo campo, riservando all’università solo l’1,5 per cento della spesa pubblica contro il 2,1 della Francia, il 2,2 della Spagna, il 2,6 della Germania e il 4,8 della Danimarca.
Le ultime leggi di bilancio del governo hanno ridotto il fondo di finanziamento ordinario delle università di cinquecento milioni di euro nel 2024 e di settecento milioni nel triennio 2025-2027. La riforma Bernini moltiplicherebbe le figure precarie, andando in controtendenza rispetto agli obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), voluto dal governo Draghi nel 2022.
L’esecutivo guidato dall’ex presidente della Banca centrale europea aveva abolito gli assegni di ricerca, sostituendoli con il contratto di ricerca, che ai ricercatori riconosceva diritti fino ad allora non garantiti: malattia, ferie, tredicesima, piena indennità di disoccupazione, più contributi previdenziali. Ma per questo tipo di contratti servono soldi, che attualmente le università non hanno: con i 37,5 milioni di euro stanziati dal Pnrr, infatti, potranno essere stipulati solo quattrocento contratti in tutta Italia, circa cinque per ogni ateneo. Un numero largamente insufficiente per coprire la domanda.
L’Associazione dei dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi) ha presentato un esposto alla Commissione europea, denunciando che l’Italia non sta rispettando gli obblighi del Pnrr sull’università, e anzi rischia di ostacolare il percorso per stabilizzare i suoi lavoratori chiesto dall’Europa. Un secondo esposto è arrivato dal sindacato Flc-Cgil. E così lo scorso febbraio la riforma Bernini è stata sospesa.
Mentre 120 società scientifiche hanno lanciato l’allarme sui rischi di ridimensionamento dell’università e della ricerca, nel paese sono nate diverse assemblee – da Padova a Palermo – che hanno messo insieme studenti, dottorandi, ricercatori e professori. Il 18 marzo la Scuola normale superiore ha organizzato a Firenze il convegno “Il futuro dell’università in Italia”, mentre il 20 marzo è prevista una grande giornata di mobilitazione nazionale per costruire insieme uno sciopero generale dell’università.
Ascoltare le storie di chi in questi mesi sta vivendo sulla propria pelle gli effetti dei tagli e di anni di precarietà aiuta a capire meglio la posta in gioco.
Matteo Becchetti, 34 anni, assegnista di ricerca
Faccio il ricercatore da quasi dieci anni. Prima ero a Roma, dove ho fatto il dottorato, poi per due anni ho lavorato in Belgio e per tre a Torino. Dal 2023 sono assegnista al dipartimento di fisica dell’università di Bologna. La carriera accademica obbliga a spostarsi da una città all’altra, da un paese all’altro, rischiando di dar vita a un pellegrinaggio senza fine, in cui non si sceglie davvero dove andare. Se riesci a trovare una posizione stabile la accetti a prescindere di quale sia l’università, e devi modulare tutta la tua vita in funzione di questo. Io ora abito a Roma con mia moglie e per due settimane al mese vado a Bologna per lavorare in presenza.
Dormo in albergo: visti i prezzi degli affitti mi conviene, gli hotel costano meno delle case. Ho la valigia sempre pronta. Lo farei più volentieri se poi ci fosse una prospettiva di stabilizzazione, che però non esiste: il mio contratto scade nel 2026, e poi non so cosa succederà. Vorrei rimanere in Italia e continuare a fare questo lavoro, ma so che se non troverò niente dovrò cambiare. Sembra quasi che lo scopo dei pochi finanziamenti alla ricerca sia proprio questo: c’è molta richiesta nel privato, e così il risultato è che le persone come me che si sono formate con soldi pubblici, poi si trovino a mettere a disposizione le loro competenze ad aziende, banche e assicurazioni.
Cecilia Naboni, 31 anni, dottoranda
Sono una terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva. Dopo due tesi sperimentali e alcuni contratti di collaborazione (co.co.co) all’università di Pavia, ho vinto un assegno di ricerca di un anno. A quel punto sono rimasta incinta. Ho lavorato fino all’ottavo mese, nel frattempo ho fatto la domanda per il dottorato. Mia figlia era nata da dieci giorni quando ho fatto il colloquio di ammissione. Ora sono al secondo anno. Visto che devo svolgere un periodo all’estero di almeno sei mesi, ho deciso di partire con tutta la famiglia, ma la città in cui si trova il centro di ricerca, Ginevra, è molto costosa, e così abbiamo scelto di vivere in Francia e attraversare la frontiera tutti i giorni.
Portare avanti l’attività di ricerca e costruire una famiglia è una sfida sotto tanti punti di vista, non ultimo quello economico. Il mondo accademico, in termini contrattuali, non offre soluzioni che permettano di conciliare lavoro, aspettative e mantenimento dei figli. Asili nido interni alle università e alloggi per famiglie sembrano ancora lontani. Continuare a fare ricerca alle condizioni attuali richiede estrema flessibilità, una base economica pregressa e una buona dose di creatività.
Rolando, 38 anni, professore a contratto
Ho fatto un dottorato in filosofia in Germania, poi ho vinto una borsa per fare ricerca a Napoli con una fondazione e successivamente ho lavorato a Vienna, in Austria, e a Lisbona, in Portogallo. Nel frattempo ero anche professore a contratto e tutor didattico all’università di Bologna. Ho lavorato tra l’estero e l’Italia non per scelta, ma per necessità: qui sembra che ti facciano un favore a permetterti di lavorare gratis. È umiliante. Oggi tengo un corso a Rimini, in una sede distaccata dell’Università di Bologna, e un seminario, che però forse sarà chiuso. Per ogni corso la retribuzione è di circa 1.600 euro, che comprendono gli esami, le lezioni, le esercitazioni e la revisione delle tesi.
I costi per gli spostamenti ovviamente non sono coperti. Non ho alcuna prospettiva che sia aperta una posizione stabile per me, perciò faccio traduzioni e altri lavori. Tutto questo rende molto difficile pianificare il futuro. Se anche lasciassi il mondo della ricerca, cosa potrei fare? Per insegnare dovrei prendere un’altra laurea in lettere, seguire un corso abilitante e poi tentare il concorso. Sempre che le regole nel frattempo non cambino. Il rischio è che passerei da insegnare all’università e scrivere articoli in tre lingue a fare il fattorino o il cameriere.
Davide Clementi, 28 anni, dottorando
Dopo tre anni sto per finire il dottorato a Macerata in un momento particolarmente complesso per l’università italiana, in cui non si capisce che fine faranno quelli come me. Da gennaio non ricevo più la borsa di studio. Ho partecipato al bando per un assegno di ricerca, se non lo vinco non so cosa farò: non ho alle spalle una famiglia che mi può mantenere e non posso permettermi come altri di lavorare gratis per anni. La verità è che all’interno dell’università resiste chi ha le possibilità economiche per farlo.
La retorica del merito si scontra con questa verità. Dagli anni novanta le riforme hanno trasformato l’ambiente universitario in un insieme di ansia e ipercompetitività. Ci sono dottorandi che temono di comunicare al supervisore che sono malati, altri che guardano i colleghi come se fossero avversari, certi che subiscono mobbing. Per fare carriera, i ritmi di lavoro devono essere orientati all’iperproduzione, che non prevede pause, vita sociale e perfino sonno. I dottorandi devono sforzarsi fino all’ultimo per ottenere un posto all’università, e comunque non è neanche detto che alla fine succeda. È un problema di cultura del lavoro.
Camilla, 32 anni, assegnista di ricerca
Sono un’antropologa, ma mi sono ritrovata ad accettare un assegno di ricerca in scienze cliniche e biologiche, altrimenti sarei rimasta senza lavoro. Oggi il sistema universitario funziona così: la ricerca va dove ci sono i soldi, sei obbligata a seguire i progetti che hanno i finanziamenti, non puoi portare avanti i tuoi studi in modo autonomo e indipendente. E così ogni volta noi ricercatori dobbiamo spostarci, cambiare lavoro, città, vita. Il 31 dicembre 2025 scadrà il mio contratto e non ho la più pallida idea di cosa succederà. E perfino il mio piano B, l’insegnamento a scuola, non mi dà garanzie: anche se vincessi il concorso non avrei la certezza di riuscire a lavorare.
Per questo da mesi ci ritroviamo tra assegniste, dottorande, ricercatrici, studenti all’interno dell’assemblea precaria nata in modo spontaneo a Bologna, sul modello dei gruppi che stavano nascendo in tante altre città d’Italia. È un modo per confrontarsi sulla riforma e sui tagli, per chiedere contratti stabili, maggiori finanziamenti, ma anche per mettere in discussione il funzionamento del sistema universitario. Da vent’anni siamo assistendo alla privatizzazione della ricerca, che è sempre meno libera e più indirizzata a quello che chiede il mercato. Se potessi decidere, mi piacerebbe rimanere dentro l’università, ma in un’università diversa da quella di oggi.
Roberto, 36 anni, ex assegnista di ricerca
Mi occupo di ricerca biomedica in ambito oncologico. Ho fatto un dottorato in medicina molecolare all’università di Torino, poi sette anni con assegni di ricerca alternati a borse di studio. A ottobre del 2024 scadeva il mio ultimo assegno di ricerca e ho capito che i tempi erano maturi per lasciare l’università: il rischio era di arrivare a 45 anni senza avere ancora una posizione strutturata, e a quel punto sarei stato troppo vecchio per trovare un altro lavoro.
La carriera accademica è basata su un sistema di sfruttamento molto radicato: ai ricercatori è chiesto di accettare una serie di ingiustizie per amore della ricerca. Gli viene fatto credere che quello non è un lavoro, è passione, e bisogna sacrificare se stessi. E poi a un certo punto l’università ti sputa via.
Adesso sono passato al privato: ho un contratto, un orario fisso, i contributi, la malattia, le ferie, la disoccupazione. Finalmente ho garanzie che mi permettono di ottenere un mutuo e comprare casa. Per me questo ha significato dare dignità al mio lavoro.
Rolando, Camilla e Roberto hanno richiesto di non rendere pubblico il proprio cognome per motivi di privacy e per evitare eventuali ripercussioni.
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