Un giorno di vento ordinario a Timbuctù. In questa stagione il cielo si vela di una patina ocra e l’harmattan soffia calore e polvere trasformando la città in una fornace. Anche quando non aspetta visite, la porta di casa di Mahamane è sempre aperta. Il corridoio d’ingresso immette nel cortile interno, tipico elemento architettonico saheliano, con la sabbia del deserto per terra. Dopo aver tolto le scarpe si accede alla sua stanza attraversando un tessuto leggero appeso a mo’ di porta. “Ce ne hai messo di tempo, giovane”. In effetti è passato più di un anno. Allora si potevano ancora raggiungere via terra Timbuctù e Gao, città sorella del nord Mali, a bordo di autobus, taxi collettivi, piroghe o battelli del trasporto pubblico sul fiume Niger. Oggi, invece, l’aereo bianco della missione di stabilizzazione del Mali delle Nazioni Unite (Minusma) è l’unico mezzo sicuro per venire a trovare Mahamane.
“Siamo come in prigione, credimi. Tolto Allah, sono gli arabi e i tuareg che decidono sulle nostre vite. Noi sonrai, insieme ai peul e ai bella (etnie maggioritarie della regione), all’inizio eravamo contenti del loro ritorno in città. Ben presto, però, abbiamo capito che sono tornati per imporre di nuovo il loro potere sugli altri”. Il suo volto s’intravede appena nella penombra che avvolge la stanza. È steso su un materasso appoggiato a terra, di colpo appare invecchiato.
Quest’uomo sulla cinquantina, che di mestiere faceva l’autista (di turisti prima dei rapimenti di occidentali e dell’occupazione jihadista del 2012, di cooperanti e giornalisti dopo la guerra), da otto mesi è costretto a letto a seguito di un attacco armato alla sua jeep. Le pallottole che i banditi hanno sparato sulla fiancata per costringerlo a fermarsi gli hanno trapassato entrambe le gambe. “Ragazzini con il volto coperto dai turbanti. Giocano a fare i jihadisti, si appostano a pochi chilometri dalla città, a riparo dai check point della Minusma e dell’esercito maliano, e attaccano qualsiasi veicolo che passa”. Nelle parole di Mahamane c’è la rabbia di chi, quel giorno, ha perso tutto: lavoro e dignità. Un padre di famiglia costretto a urinare in una bottiglia, mentre la moglie Khadijah vende da mangiare ai matrimoni e ai battesimi per tirare avanti. “Un kalashnikov al mercato nero oggi può arrivare a costare 1.200 euro. Basta comprare due fucili e fare imboscate sulle piste fuori città per guadagnare una fortuna”.
Se il deserto del Sahara è come un grande mare, quello che cerchiamo di fare è controllarne almeno i porti
Per riconoscenza verso il “salvatore di Timbuctù”, Mahamane ha chiamato il suo ultimo figlio come il presidente francese. François Hollande, il piccolo, ha da poco compiuto quattro anni, proprio come l’intervento armato ordinato dal suo illustre omonimo contro i jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Oggi, quattro anni dopo la “liberazione”, il dispiegamento di 15mila caschi blu in tutto il paese, la trasformazione della missione francese Serval in un più ampio – anche se contenuto in termini di soldati – dispositivo regionale antiterrorismo chiamato Barkhane, nel nord Mali a parlare sono ancora le armi. “Avrei dovuto chiamare mio figlio Mohamed”, commenta Mahamane.
Autobombe, assassini mirati, minacce e ritorsioni non fanno più notizia, nemmeno in Mali. Il 5 marzo, solo per citare l’ultimo incidente grave, il Congresso per la giustizia dell’Azawad (il Cja, che è fra i firmatari degli accordi di pace di Algeri del giugno 2015) ha circondato la città per alcuni giorni, esigendo di rivedere le nomine delle nascenti autorità di transizione. I leader dei gruppi armati, attingendo dal grasso mercato della disoccupazione, in questa regione assoldano giovani e giovanissimi, gli mettono in mano un fucile e li consegnano all’esercito maliano per incassare i soldi dell’“accantonamento e disarmo” previsto dagli accordi di pace. “Nel nord del Mali oggi basta che t’inventi una sigla, raggruppi dei giovani disperati, metti due mine sulla strada o attacchi un convoglio dell’esercito per entrare a pieno titolo nel lucroso processo di pace”.
Un processo di pace che, nonostante la mediazione della Minusma e dell’Unione africana, non sta ancora dando i frutti sperati. “È un lungo percorso. Capiamo l’impazienza della gente, ma ci vuole tempo”. Riccardo Maia, ex professore di diritto costituzionale alla Statale di Milano, diventato nell’ottobre 2015 capo ufficio della Minusma a Timbuctù, riceve tutti nel salottino con i divani blu nel prefabbricato che gli fa da studio. Il quartier generale della Minusma è nell’Hotel Hendrina Khan, gioiello dell’epoca d’oro del turismo riconvertito in base militare, come quasi tutti gli alberghi cittadini.
Scorrendo particolari “foto di famiglia” sul computer, Maia ripercorre gli sforzi diplomatici tentati dal suo arrivo in città. Sullo schermo sfilano turbanti e kalashnikov di alcuni dei più incalliti criminali del paese. “Se il deserto del Sahara è come un grande mare, quello che cerchiamo di fare è controllarne almeno i porti, come Timbuctù, e gradualmente creare isole sicure per i civili”. Restando nella metafora del professore, i pirati di questo mare di sabbia si confondono fra trafficanti arabi, ribelli tuareg e mujahiddin di varie etnie e provenienza raggruppati sotto l’ala di Aqmi, che a inizio marzo ha ufficializzato la paternità sulle principali sigle jihadiste attive nel Sahel. Una pletora di gruppi armati, nuovi schieramenti, scissioni di scissioni. Narcosignori della guerra protetti da eserciti personali con cui, se si vuole la pace, si è costretti a scendere a patti.
I folli di dio
Dispiegata in Mali nel 2014 con il mandato di proteggere le popolazioni locali e contenere il conflitto, la Minusma sta pagando un elevato prezzo di sangue. Con 118 caschi blu rimasti uccisi (soprattutto africani: ciadiani, burkinabé, togolesi, nigerini, nigeriani, e altri ancora) quella in Mali è la più pericolosa missione di pace nella storia delle Nazioni Unite. “La regione di Timbuctù è particolarmente toccata dagli attentati terroristici. Qualche settimana fa tre missili sono caduti non lontano dal ‘Super Camp’ vicino all’aeroporto, dove ci sono circa duemila caschi blu”. Perdendosi fra le sfumature di giallo dell’immensa cartina della regione che occupa quasi tutta la parete del suo ufficio, Riccardo Maia rigira gli occhiali fra le dita. “Nonostante le difficoltà, comunque, molta gente ci chiede di restare e ci riconosce il merito di permettere anche a loro di restare”.
“Se la Minusma se ne andasse i ‘folli di dio’ ci convertirebbero al loro jihadismo in un baleno, questo è certo”. Dal suo letto Mahamane fa eco alle parole di Maia. I due concordano anche su un altro punto: alcuni segnali di ripresa cominciano a intravedersi in città, come per esempio il parziale ritorno delle istituzioni, la ricostruzione dei mausolei sufi distrutti dai jihadisti, il mercato ripopolato di merci e persone, la riapertura delle scuole (nonostante uno sciopero dei professori di liceo che dura da settimane), delle banche e della posta, il Festival del vivere insieme (organizzato a febbraio dalla Minusma che ha mobilitato circa tremila giovani della città), il nuovo campo in erba sintetica dello stadio municipale.
Nonostante il ritorno di alcuni mercanti arabi e tuareg che stanno gradualmente facendo ripartire il commercio e le attività economiche di sussistenza, più di 160mila maliani del nord si trovano ancora nei campi profughi dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, in Burkina Faso, Niger e Mauritania. Se i rifugiati maliani non mostrano nessuna intenzione di tornare a casa, il loro numero, quattro anni dopo la sbandierata “fine della guerra”, continua a crescere.
Anche Mahamane e Khadijah sono partiti in esilio durante l’occupazione jihadista. Con lei incinta e quattro figlie piccole sono scappati a Mopti, nel centro del paese, in piroga. Da quando siamo tornati insieme a Timbuctù, durante la liberazione francese del gennaio 2013, Mahamane non era mai stato tanto pessimista. “Il cuore del problema del nord Mali è che non c’è giustizia. Senza giustizia, per noi povera gente, è come vivere ancora sotto occupazione”. Al canto di un gallo fuori casa non riesce a trattenere il sorriso. A Timbuctù quando un gallo canta alla fine di una frase si dice che perfino dio è d’accordo.
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