La prima volta che sono stato in Lituania era l’estate del 1993 e l’Unione Sovietica era crollata da un anno e mezzo. Agli angoli del cosiddetto ponte verde, sul fiume Neris, vicino al centro di Vilnius, si stagliavano quattro gruppi di statue sovietiche nel classico stile del realismo socialista (i contadini, gli studenti, i lavoratori e i soldati), negli alberghi le lenzuola erano troppo corte per coprire l’intera lunghezza del letto, e la sera le strade della città vecchia erano avvolte in un buio che rendeva la bellezza dei palazzi e delle chiese barocche ancora più enigmatica e affascinante.
All’epoca in Italia c’era una sola rappresentanza diplomatica che rilasciava i visti per tutte e tre le repubbliche baltiche (Lituania, Lettonia ed Estonia), e al confine con la Polonia il contrabbando di sigarette, elettrodomestici e oggetti di elettronica era attività abituale, svolta sotto gli occhi distratti delle guardie di frontiera d’entrambi i paesi e dei rari turisti che entravano in Lituania attraverso la vecchia linea ferroviaria Varsavia-Suwałki-Szestokaj-Kaunas.
Oggi sul ponte le statue sovietiche non ci sono più, sostituite da sgraziate fioriere senza fiori; accanto alla cattedrale è stato ricostruito il palazzo dei granduchi di Lituania, d’un bianco innaturale che ricorda una torta nuziale più che un edificio storico; la città vecchia è curata con maniacale attenzione e pullula di alberghi; e al confine con la Polonia i controlli doganali sono solo un ricordo: dal 2007, infatti, la Lituania fa parte dell’area Schengen.
Storia offuscata
In questo quarto di secolo, insomma, il paese che per primo, nel marzo del 1990, ha dichiarato l’indipendenza dall’Unione Sovietica ha compiuto con successo l’intero percorso della transizione alla democrazia e all’economia di mercato, è entrato nella Nato e nell’Unione europea, si è liberato dall’abbraccio orientale della Russia, e ha riconquistato il suo posto nel cuore del continente.
Tuttavia, come spesso succede con gli stati dell’Europa centrorientale, la ricchezza della sua vicenda culturale, storica e politica rimane offuscata dai 40 anni di appartenenza al blocco sovietico.
Specialmente dopo il 1956, Venclova costruisce gradualmente la sua resistenza al regime sovietico e si avvicina al mondo della dissidenza
Per cercare di entrare nella complessità della Lituania uno strumento prezioso è sicuramente Magnetic north. Conversations with Tomas Venclova, curato dalla traduttrice e critica letteraria Ellen Hinsey e pubblicato recentemente dall’università di Rochester, negli Stati Uniti: un dialogo lungo quasi quattrocento pagine con il più importante poeta del paese baltico, dissidente, intellettuale, esule, e in qualche modo coscienza critica di quasi un secolo di storia lituana.
Ancora poco tradotto in Europa, Venclova è nato nel 1937 a Kaunas, allora capitale della Lituania indipendente, e ha attraversato la seconda metà del novecento osservando e vivendo in prima persona la violenza della guerra, la shoah e gli anni dell’occupazione sovietica.
Testimone della storia
Figlio di Antanas Venclova, un letterato di valore non eccelso che fu convinto sostenitore dello stato sovietico, e nipote, da parte di madre, del filologo e classicista Merkelis Račkauskas, una delle grandi figure della cultura lituana del primo novecento, Tomas Venclova ha cominciato a interessarsi di letteratura durante l’adolescenza. Ha scritto, ha tradotto, ha partecipato attivamente alla vita letteraria degli anni cinquanta e sessanta, ed è stato testimone delle grandi tensioni culturali che hanno segnato quei decenni, in realtà più a Mosca e a Pietroburgo che a Vilnius: dalle accuse di Andrei Ždanov, il guardiano dell’ortodossia realista-socialista, contro Anna Achmatova e Michail Zoščenko, al caso Pasternak, fino alla persecuzione e all’esilio del suo amico e grande poeta Joseph Brodsky.
È in quegli anni, specialmente dopo il 1956, che Venclova costruisce gradualmente la sua resistenza al regime sovietico e si avvicina al mondo della dissidenza. Nel 1975 scrive una lettera al comitato centrale del Partito comunista lituano per chiedere il permesso di emigrare, pochi mesi dopo è tra i fondatori del Lituania Helsinki Group, la prima organizzazione per i diritti umani della Lituania sovietica, e nel 1977 riesce finalmente a lasciare il paese per stabilirsi negli Stati Uniti, dove nel giro di un paio d’anni diventerà professore di letteratura russa e polacca all’università di Yale.
Muovendosi tra la grande storia, che fa sempre da sfondo alla narrazione, e le piccole vicende che riguardano invece il mondo della famiglia, delle amicizie e delle esperienze personali, il libro ha il grande merito di possedere la franchezza tipica delle confessioni e allo stesso tempo la chiarezza espositiva dei saggi, grazie al modo pacato con cui Venclova organizza i suoi ricordi e alla capacità dell’intervistatrice di dare al testo un’organizzazione estremamente razionale, senza scadere mai nel didascalismo. Da qui deriva un altro pregio di Magnetic north (titolo tratto da una poesia di Venclova del 1975): la sua estrema leggibilità, che lo rende accessibile e appassionante anche per chi non conosce i versi del poeta lituano o non ha troppa familiarità con la storia del paese e dell’Unione Sovietica.
Lucidità, precisione e tormento
La sua forza è quindi la capacità di restituire in tutte le sue sfumature la realtà della Lituania novecentesca, comprese le fasi in cui Venclova si affida ai racconti e ai ricordi dei familiari per ricostruire un passato che non ha vissuto in prima persona. Come i cenni al ventennio dell’indipendenza, dal 1919 al 1939, con le sue tentazioni autoritarie, incarnate dal presidente Antanas Smetona, alla prima occupazione sovietica del 1940, con le deportazioni di decine di migliaia cittadini del giugno dell’anno seguente, e all’attacco tedesco del 1941.
La memoria personale del poeta si fa più vivida verso la fine della guerra, al tempo del ritorno dei sovietici, mentre i quarant’anni del dominio di Mosca, con lo stalinismo, il disgelo, le amicizie, il lavoro letterario e la dissidenza, sono ricordati e raccontati con uno sguardo lucido e preciso.
Magnetic north è anche uno straordinario raccoglitore di storie: storie che si nascondono le une dentro alle altre (per esempio la destalinizzazione cominciata con il discorso di Cruščëv al ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica nel 1956, che contiene l’inizio della rottura, solamente politica, con il padre, i primi esperimenti letterari all’università di Vilnius e il ritorno dal gulag di uno scrittore molto amato, Kazys Boruta) o si inseguono lungo tutto il corso del racconto (in questo senso la figura del padre è di nuovo emblematica: attraversa il libro, è di cruciale importanza in alcuni passaggi, e rappresenta una specie di specchio in cui il poeta si osserva nel momento delle scelte più complicate e dolorose).
In Venclova il punto di vista nazionale si fonde con uno sguardo cosmopolita e quasi internazionalista
In questo labirinto, da una parte Venclova sembra voler sottolineare l’esistenza di una specificità nazionale lituana, prima ancora culturale che politica, e dall’altra traccia il quadro di un mondo in cui la vita e la letteratura, con le loro polemiche e le loro battaglie, non esistono nei singoli spazi nazionali, ma si intrecciano e si arricchiscono in un universo più ampio, rimbalzando tra Vilnius, Mosca e San Pietroburgo. Leggendo Magnetic north si imparano a conoscere poeti e scrittori lituani e si acquistano informazioni sull’originalità della lingua e della cultura lituane. Ma si impara anche a osservare ciò che succede a Vilnius e a Kaunas nel quadro più ampio, multinazionale e multilinguistico, dell’Unione Sovietica.
In Venclova, insomma, il punto di vista nazionale si fonde perfettamente con uno sguardo cosmopolita e quasi internazionalista.
Le radici della stratificazione
Questa sintesi può tornare utile se si decide di uscire dai confini del novecento per interrogarsi sull’identità più profonda del paese. Perché se già dalle pagine delle memorie di Magnetic north si intuisce quanto sia complicato definire l’identità lituana, basta fare una passeggiata per Vilnius – magari usando come guida le pagine di La mia Europa di Czesław Miłosz dedicate alla città – per capire che la sua attuale omogeneità nasconde un passato di estrema varietà linguistica, etnica e religiosa.
Nei pochi chilometri quadrati della città vecchia s’incontrano chiese cattoliche, per i lituani e per i polacchi, uniati (frequentate soprattutto da ucraini di rito greco-cattolico), ortodosse ed evangeliche. E ci sono, ovviamente, le sinagoghe.
Le radici di questa stratificazione risalgono all’inizio del trecento. Fu allora che il granduca Gediminas – la torre che porta il suo nome è ancora uno dei simboli di Vilnius – cominciò a spedire lettere ai quattro angoli dell’Europa per invitare artigiani, contadini, monaci e preti, a stabilirsi in Lituania con le loro famiglie: “Io non vieto ai cristiani di venerare Dio secondo i modi della loro fede, né lo vieto ai russi, né lo vieto ai polacchi. Anche noi venereremo Dio secondo i nostri costumi”, proclamava il granduca.
Così nell’ultimo lembo pagano d’Europa, che aveva combattuto contro i tentativi di conversione dei cavalieri teutonici e che avrebbe abbracciato il cristianesimo solo nel 1385, furono gettati i semi di un grande stato plurinazionale: la confederazione polacco-lituana, ossia l’unione del regno di Polonia con il granducato di Lituania, una delle grandi potenze europee tra il seicento e il settecento.
La saggezza di Vilnius
Come scrive lo storico Stasys Samalavičius nel suo An oultine of Lithuanian history (1995), “nel trecento il granducato di Lituania era già uno stato multietnico, nel quale i lituani governavano su vasti territori abitati anche da russi, bielorussi e altre popolazioni”.
Dal quattrocento, in Lituania si formarono importanti comunità di mercanti e coloni tedeschi, di scozzesi e di italiani: architetti, maestranze e operai arrivati per costruire i capolavori barocchi della città, mai toccata dalla riforma e bastione del cattolicesimo tridentino, e che avevano deciso di stabilirsi in Lituania. Poi ovviamente c’erano i polacchi, i ruteni, ma anche i tatari, fatti arrivare nel quattrocento dalla Crimea dal granduca Vytautas, e i caraiti, sempre provenienti dalla Crimea, e aderenti a una particolare corrente dell’ebraismo. Ma soprattutto c’erano gli ebrei. Alla fine del settecento arrivarono a rappresentare il 45 per cento della popolazione di Vilnius. “Se cerchi fortuna”, diceva un proverbio ebraico dell’ottocento, “va’ a Łódź, ma se cerchi la saggezza va’ a Vilnius”.
“In campagna vivevano soprattutto i lituani, che erano principalmente contadini. Ma nella capitale, a Kaunas e nei paesi più piccoli le due comunità – lituani ed ebrei – commerciavano e convivevano pacificamente, anche se per la verità conducevano esistenze separate e praticamente non comunicavano tra loro”, racconta Almantas Samalavičius, filologo, professore di architettura, redattore della rivista culturale Kultūros Barai e figlio dello storico Stasys. “Per esempio, nei racconti di Abraham Karpinowicz, uno scrittore locale che usava la lingua yiddish, i protagonisti sono solo ebrei: non ci sono polacchi o lituani. Prima dello smembramento del paese, cominciato con la spartizione del 1795, gli ebrei di Vilnius avevano il loro kahal, il consiglio per l’autogoverno, che gestiva gli affari religiosi e legali della comunità in modo indipendente”.
Un nervo scoperto
Questo straordinario patrimonio è stato annientato dalla seconda guerra mondiale. Il 95 per cento della popolazione ebraica della Lituania è stato sterminato. Ma non nei campi di concentramento. Gli ebrei lituani sono stati uccisi con un colpo di pistola o picchiati a morte, dai tedeschi e dai collaborazionisti. Tra il 40 e il 60 per cento della comunità abitava in piccoli centri. Ogni cittadina lituana è stata luogo di genocidio. A Vilnius c’è ancora una Žydų gatve (strada ebraica), ci sono piccoli musei sulla shoah, c’è un centro per la tolleranza, delle sinagoghe sono rimaste i piedi e nel cortile di un un comprensorio sovietico nel vecchio ghetto c’è un busto del Gaon di Vilna, il rabbino vissuto nel settecento che fu uno dei grandi saggi dell’ebraismo europeo. Ma più di ogni altra cosa oggi in città si percepisce il senso di vuoto che la scomparsa di quel mondo ha lasciato, un’assenza che ha cambiato per sempre il volto e il carattere di Vilnius.
Capire cosa rimane della shoah nella coscienza collettiva della Lituania odierna non è facile. Un libro in particolare, Mūsiškiai (I nostri) della giornalista Ruta Vanagaite, ha contribuito ad aprire il dibattito sullo sterminio degli ebrei, facendo luce sull’antisemitismo precedente all’occupazione tedesca e sulla partecipazione della popolazione locale ai massacri compiuti tra il 1941 e il 1944 (è interessante la parabola della giornalista. Dopo il successo, non senza polemiche, di Mūsiškiai, Vanagaite ha scritto un libro sui partigiani lituani, che nascosti nei boschi combatterono i sovietici fino agli inizi degli anni cinquanta, accusando uno dei loro capi, Adolfas Romanauskas, di aver collaborato con il Kgb. Sommersa da un’ondata di critiche per aver infangato la memoria di un eroe nazionale, è stata licenziata dalla sua casa editrice e i suoi libri sono stati ritirati dal commercio e mandati al macero).
Il suo lavoro ha comunque toccato un nervo scoperto. “Il senso di colpa è un sentimento complicato da elaborare e da esprimere”, riconosce Vaidas Saldžiūnas, giornalista del sito d’informazione Delfi, attivo in tutti e tre i paesi baltici. “Le responsabilità furono essenzialmente personali, ma riguardarono diverse migliaia di persone, molte di più di quanto si è creduto per decenni. E nessun colpevole è mai stato punito. Tra i lituani c’è ancora una certa ritrosia ad accettare che i loro antenati siano stati colpevoli di simili atrocità. Si cercano scuse, argomenti e alibi che possano essere usati per scagionare o giustificare i collaborazionisti, che si schierarono con i tedeschi anche in funzione antisovietica”.
I cittadini lituani ricordati come Giusti tra le nazioni allo Yad Vashem di Gerusalemme sono 891, più degli ungheresi o degli italiani
Un altro ostacolo al riconoscimento dell’unicità della shoah è la tendenza anche istituzionale, a equiparare le sofferenze patite dai lituani per mano dei sovietici – deportazioni nel gulag, esecuzioni – allo sterminio degli ebrei. Raccontare l’occupazione sovietica come genocidio lituano, come fa il più grande museo storico della città, ospitato nell’ex sede del Kgb, non fa che confondere le cose e alimentare l’equivoco (non a caso Venclova preferisce parlare di stratocide, cioè uccisione di un particolare settore della società).
Fortunatamente questo atteggiamento non è però sfociato in espliciti tentativi di cancellare le responsabilità del paese, come invece è successo in Polonia con l’approvazione di una legge che punisce chiunque osi parlare della partecipazione dei polacchi allo sterminio degli ebrei. Va anche aggiunto che i cittadini lituani ricordati come Giusti tra le nazioni allo Yad Vashem di Gerusalemme sono 891, più degli ungheresi o degli italiani.
Tuttavia, salire i gradini che portano alla chiesa evangelica di Vilnius e rendersi conto che sono ricavati dalle pietre tombali dell’antico cimitero ebraico di Šnipiškės, con le iscrizioni ancora visibili, fa impressione. Come fa impressione scoprire che proprio sopra i resti di quel cimitero negli anni sessanta i sovietici avessero costruito un palazzo dello sport oggi in rovina.
Allergia al nazionalismo
Prima di essere sepolta per quarant’anni sotto la coltre sovietica, e di diventare la capitale di uno stato linguisticamente ed etnicamente omogeneo, Vilnius dunque è stata per secoli una città russa e lituana, polacca ed ebraica, pagana e cristiana, ortodossa e cattolica.
È stata la Gerusalemme del nord e allo stesso tempo un luogo sacro per la storia dei polacchi: qui, infatti, ha studiato e si è formato il loro poeta nazionale Adam Mickiewicz. Centro importante di un grande regno multinazionale fino al 1795, nell’ottocento è appartenuta all’impero zarista e, tra il 1919 e il 1939, ha fatto parte del rinato stato polacco. Definirne l’identità in modo netto era impresa impossibile, meglio ancora inutile, come hanno sempre saputo i suoi abitanti.
Chi è di Vilnius, afferma Venclova in un saggio dedicato alla città, “appartiene simultaneamente a diverse culture. E in qualche modo ricorda la figura del letterato Juozas Kėkštas: poeta lituano, soldato polacco e prigioniero russo”. “Il mio destino”, scrive Miłosz riflettendo sugli anni della sua formazione, trascorsi in città, “fu fortemente influenzato da un’allergia per tutto ciò che odora di ‘nazionale’ e da una sorta di repulsione fisica per chi emana tale odore”.
A Vilnius questa impossibilità di definire la propria appartenenza nazionale ha ampliato gli spazi di libertà del singolo individuo, caricandolo anche del pesante fardello del dubbio e della scelta, e ha finito per creare spaccature che attraversavano le piccole comunità e perfino le famiglie.
Così, all’inizio del novecento, poteva accadere che uno dei firmatari della dichiarazione d’indipendenza lituana del 1919, Stanisław Narutowicz, fosse il fratello del primo presidente della Polonia indipendente, Gabriel Narutowicz. E che tra i quattro figli di una tipica famiglia dell’aristocrazia del granducato, gli Iwanoswki di Vilnius, ci fossero due sostenitori della causa bielorussa, Helena e Wacław, un patriota polacco, Jerzy, e un protagonista dell’indipendenza lituana, Tadeusz.
Una costruzione artificiale
Tornando all’oggi, le scelte personali dei fratelli Iwanowski e Narutowicz e il rifiuto di Miłosz di farsi incasellare in un gruppo nazionale possono essere utili per smontare alcuni miti identitari e disinnescare certi automatismi usati per interpretare le vicende politiche dell’Europa ex comunista alla luce della storia passata. La vicenda lituana dimostra infatti che l’identità nazionale è sempre una costruzione in buona parte artificiale, legata più alla propria sensibilità politica e culturale che all’etnia, alla lingua o alla confessione. E conferma che in realtà questa identità è solo uno dei tanti fattori che determinano lo sviluppo di uno stato, anche se spesso abbiamo la tendenza a considerarla il vero motore della storia, soprattutto dei paesi dell’Europa orientale.
A ben guardare, inoltre, la Lituania di oggi avrebbe tutte le caratteristiche per essere un paese in preda all’isteria nazionalista e populista, come succede ad altri stati centroeuropei. Con un passato glorioso alle spalle, l’esperienza dei terribili traumi degli ultimi duecento anni e i recenti sviluppi politici e sociali (una fortissima emigrazione e le politiche di austerità varate per uscire dalla crisi del 2008/2009) i lituani non avrebbero difficoltà a giocare la carta del vittimismo storico.
Potrebbero – e in occidente per molti osservatori questa sarebbe una logica conseguenza del loro percorso storico – insistere sulla tutela della loro omogeneità etnolinguistica, conquistata dopo decenni di sofferenze, chiudersi al mondo esterno e scegliere di farsi guidare da un demagogo pronto a dare la colpa al primo capro espiatorio delle difficoltà legate alle transizione. Finora, però, non lo hanno fatto.
Nella Lituania di oggi l’eredità del granducato secentesco può aver al massimo alimentato un complesso di grandezza che spinge il paese ad avere un atteggiamento particolarmente ambizioso in politica estera e a sentirsi una specie di fratello maggiore di Estonia e Lettonia. Ma a Vilnius il nazionalismo identitario e aggressivo come quello dell’ungherese Orbán non sembra aver attecchito e, nonostante un clima che poteva essere favorevole, è rimasto un fenomeno minoritario.
Il trenino di legno
Anche la risposta alla cosiddetta crisi dei migranti – tema che i nazionalisti polacchi e ungheresi hanno cavalcato per conquistare consensi e attaccare le istituzioni europee – è stata piuttosto ragionevole e non paranoica, nonostante le difficoltà economiche del paese e un’opinione pubblica comunque non proprio favorevole all’accoglienza degli stranieri: “Nessun paese è immune dal rischio della crescita di sentimenti ultranazionalisti e xenofobi. Ma il fenomeno qui sembra sotto controllo”, spiega Arnoldas Pranckevičius, capo della rappresentanza della Commissione europea a Vilnius. “C’è una differenza tra come hanno reagito alla crisi dei profughi i paesi baltici e, per esempio, quelli del gruppo di Visegrad. Noi abbiamo appoggiato il progetto dei ricollocamenti e abbiamo rispettato le quote che ci erano state assegnate, nonostante l’ostilità di parte della popolazione”.
Anche l’elettorato ha mantenuto la calma. Il partito che alle elezioni del 2016 ha soffiato sul fuoco della xenofobia e del nazionalismo ha preso appena lo 0,6 per cento dei voti, rimanendo fuori del parlamento.
La carta dell’invasione islamica non ha funzionato anche perché da queste parti le paure collettive hanno un aspetto ben più reale: quello della Russia di Putin. “Almeno sotto il profilo dei simboli di recente c’è stato in effetti un ritorno del sentimento di appartenenza nazionale”, commenta Saldžiūnas. “Ma non c’è nulla di xenofobo. È piuttosto l’idea di voler difendere la propria cittadinanza dalle intrusioni esterne. Non a caso questo revival è stato innescato dalla crisi ucraina, dall’annessione della Crimea da parte di Mosca e dalla guerra in Donbass. Qui è ancora forte il ricordo del 1990, quando i lituani non avevano gli strumenti per difendersi dal potere sovietico”.
Che la retorica nazionalista non sia il pane quotidiano dell’attuale governo lituano lo dimostra anche il programma del festival Flux, organizzato a Roma dal 4 al 15 maggio per celebrare i cent’anni dell’indipendenza del paese. Ci saranno installazioni di videoarte, il teatro di Nekrosius, mostre di architettura e fotografia, concerti di jazz sperimentale e musica contemporanea: nulla che faccia pensare all’enfasi kitsch e allo sventolare di bandiere di altre feste nazionali.
Certo, gli sviluppi inattesi della storia recente, primo tra tutti l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, impongono cautela. Ma appare difficile che il prossimo Orbán europeo nasca a Vilnius. Anche perché la città conserva un carattere tollerante e tranquillo e una diffusa diffidenza verso ogni forma di retorica e magniloquenza. E forse anche una certa riluttanza a prendersi troppo sul serio. Come dimostrano il cavallino di legno che in una delle principali piazze della città ha preso il posto della grande statua di Lenin abbattuta nel 1991 e il monumento a Frank Zappa, fatto costruire dal sindaco alla metà degli anni novanta.
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