Ci si sarebbe aspettati qualcosa in più dopo quaranta giorni e altrettante notti trascorse ai cancelli dell’autonominata “riserva indiana” di Prisciano, ultimo argine alla fuga in Germania dell’Acciai speciali Terni (Ast). Un abbraccio di sollievo, qualche gesto di distensione a scaricare la troppa rabbia accumulata, almeno. Invece no.

Lo stabilimento dell’Ast (Acciai speciali Terni), il 5 novembre 2014. (Luca Sola)

Quando la vecchia tv con il tubo catodico, novecentesca come molte altre cose da queste parti, annuncia a volume alto che “lo sciopero si è concluso”, gli operai – che da un mese e mezzo bloccano l’uscita dei camion e sorvegliano che lo stop alla produzione proceda come loro hanno deciso – rimangono fermi al loro posto, attorno alla tavola imbandita per strada, mentre le nuvole si gonfiano di pioggia e lo scirocco addolcisce l’aria, gli occhi fissi su un’amatriciana rivisitata raschiando l’osso di un prosciutto, l’espressione fintamente distratta e le orecchie drizzate. In silenzio, senza un gesto che possa lasciar trasparire gioia o delusione, moderata soddisfazione o esplicito dissenso. Come davanti alla cronaca di un finale annunciato.

Chiedergli cosa pensino, a caldo, dell’intesa tra governo, azienda e sindacati che consente di non chiudere due forni e salvare centotrent’anni di storia è un mero esercizio retorico. Ai microfoni, delegati sindacali e semplici operai ripeteranno a più riprese che “non è ancora finita” e che bisogna essere “come san Tommaso”, vogliono leggere tra le righe dell’accordo, discuterne in assemblea e solo dopo esprimere un giudizio. Ma la verità, a ben cercarla, è già scritta nei volti che non fanno una piega, si legge negli sguardi rassegnati e va intesa nelle parole non dette.

Gli operai delle acciaierie di Terni – reduci da uno sciopero solo di poco più lungo e più duro di quello del 1980 alla Fiat, e appena mitigato nell’ultima settimana da un progressivo rientro in fabbrica – sanno bene che, a prescindere dai giochi di parole, 290 di loro saranno licenziati e temono che per gli impianti il futuro sia segnato. E che prima o poi toccherà anche a loro. Per questo tacciono tutti, tenendo fede a quella serietà operaia tipicamente ternana che somiglia tanto a un solido, lucido pragmatismo. Il silenzio, però, è poco televisivo. Al telegiornale c’è chi parla per loro e l’effetto, visto da qui, è quello di un mondo rovesciato.

Sul grigio del muro di cinta, proprio davanti al gazebo, qualcuno ha disegnato con uno spray nero una gigantesca falce e martello. A pochi metri, Massimiliano Marini ravviva un fuoco perennemente acceso. Per fortuna il grande freddo, in questo lungo autunno anomalo, non è ancora arrivato nella conca ternana. Ma di là dalla strada passa il fiume Nera, stranamente povero d’acqua nonostante novembre sia stato un mese di pioggia continua e di notte l’umidità penetri nelle ossa.

È uno dei tanti momenti morti dello sciopero e lui, un omone grande e grosso con la barba incolta che da tre giorni non torna a casa a dormire, indulge nei ricordi davanti a quel caminetto operaio delimitato da un bidone. Suo padre Umberto è stato per quarant’anni sindacalista della Cgil, lì nelle acciaierie, e “ogni primo maggio portava tutta la famiglia a festeggiare in fabbrica”. Erano tempi di grande conflitto, a Terni si manifestava non solo per i propri diritti e Umberto Marini “era un osso duro per l’azienda”.

“Ma sai cosa disse un giorno il capo del personale a mia madre? Signora, suo marito è l’unico qui dentro che può battere i pugni sul tavolo”. Massimiliano sente molto il legame con il passato. “Dopo il militare volevo andar via, ma sono rimasto per le insistenze di mia madre”, racconta.

È entrato in fabbrica l’11 maggio del 1998, “il giorno prima del mio compleanno”, e ora avrebbe anche avuto la possibilità di andarsene. Ma non l’ha fatto “perché questa è la mia terra, non me la sentivo di rovinare, per quattro soldi, una storia che dura da 130 anni, nella quale ci sono padri, nonni, cugini”.

Ottantamila euro lordi, questo ha promesso l’azienda a chi volontariamente deciderà di lasciare il lavoro. Poi ci saranno tre anni di mobilità pagati dallo stato: un sussidio di poco meno di mille euro al mese. Massimiliano non ha accettato, altri invece si sono fatti i conti in tasca e hanno detto sì, “gente che non si è mai vista ai presidi”, magari qualcuno di quei “crumiri” stigmatizzati con uno stencil lungo le mura perimetrali della fabbrica, all’altezza degli ingressi delle fucine.

Crumiro è il termine con cui si indica – con accezione tendenzialmente negativa – un lavoratore che non aderisce a uno sciopero e non sospende la sua prestazione di lavoro, indipendentemente da quanto determinato in sede sindacale, col possibile effetto di diminuire l’impatto e l’efficacia dello sciopero stesso e, di conseguenza, la capacità contrattuale del sindacato rispetto alle rivendicazioni oggetto di controversia col datore di lavoro.

Qualcuno ha preso la definizione da Wikipedia e ha pensato bene di sbatterla in faccia ai passanti, lungo i muri di cinta che parlano come e quanto i silenzi operai, a Terni. Aggiungendo una postilla: “Chi ci si riconosce, crepasse”.

Operai aspettano i risultati dei negoziati tra l’azienda e i sindacati sul futuro delle acciaierie, il 6 novembre 2014.
(Luca Sola)

Chiedo a un gruppo di lavoratori: quanto ci avete rimesso, con questo sciopero? Uno di loro sorride e dice: “Uno stipendio, almeno”. Gli altri annuiscono. Sono giovani, l’età media in fabbrica si è abbassata a colpi di prepensionamenti, avviati a causa dell’esposizione all’amianto, “anche impiegati che con l’amianto non avevano mai avuto a che fare”, ironizza qualcuno.

Enzo Bottega ha aperto la strada ai ricorsi giudiziari, “quando ancora i sindacati ci dicevano di lasciar perdere”. Vado a incontrarlo nel suo appartamento, in un quartiere di palazzoni anni settanta.

“Lavoravo alle condotte forzate, era pieno di eternit. Molti di noi sono morti di mesotelioma, io per fortuna sto bene, ma tutti viviamo con una spada di Damocle sulla testa”, esordisce. È una storia di cui si parla poco, quest’ultima, forse perché getterebbe una cattiva luce su quella fabbrica che un po’ tutti sentono come propria. O più probabilmente perché è considerata una vicenda ormai chiusa. I problemi oggi sono ben altri.

Non se ne parlava neppure all’epoca, però. Enzo scoprì per caso, durante una vacanza, che il vicino d’ombrellone, un operaio torinese di origini siciliane, era stato mandato in pensione perché era rimasto troppo a lungo esposto alle polveri che si depositano nei polmoni e te li distruggono.

“Parlando con lui mi resi conto che a Terni lavoravamo in condizioni analoghe, ma non sapevamo nulla della tossicità e dei rischi per la nostra salute. Quando tornai al lavoro andai al sindacato, ma mi dissero di lasciar perdere. Non mi volli arrendere. Mi informai, andai da un avvocato e alla fine feci causa all’azienda, insieme ad altri due colleghi. I giudici ci hanno dato ragione in ogni grado di giudizio”, spiega. Furono loro ad aprire la strada a “un fuggi fuggi generale” verso la pensione. La fabbrica si è scoperta così improvvisamente più giovane.

Oggi l’età media dei lavoratori va dai 24 a poco più di quarant’anni: altre generazioni, con problemi diversi, molti di loro padri di famiglia e, risposta comune, con “un mutuo da pagare sulle spalle”. Anche questo spiega i sentimenti che variano dall’insoddisfazione alla delusione, dalla rabbia alla rassegnazione.

Emanuele Bottega è il figlio più giovane di Enzo e, come suo fratello Emiliano, prosegue una storia operaia di famiglia che dura dai tempi del fascismo. È stato in prima fila in questi quaranta giorni di sciopero,ma da qualche giorno, pur avendo deciso non di arrendersi, pensa di lasciare il presidio: confessa di essere “demoralizzato”.

“Dovevamo resistere un minuto in più dell’azienda. Invece siamo scesi a compromessi, come dieci anni fa quando ci siamo fatti scippare il magnetico”. L’acciaio magnetico era l’orgoglio dell’acciaieria, fino a quando, nel gennaio del 2004, la multinazionale tedesca ThyssenKrupp, che aveva rilevato le storiche acciaierie ternane, annunciò la chiusura del reparto.

La perdita fu un vero e proprio trauma, mai superato, per una città orgogliosa di quelle che considera sue invenzioni: il polipropilene che fece meritare a Giulio Natta il premio Nobel per la chimica nel 1963, la plastica biodegradabile mater-bi che sta facendo la fortuna di diverse aziende della cosiddetta green economy e appunto l’acciaio magnetico.

“Gli operai e la città risposero con una lotta durata più di un anno, conclusa infine con un compromesso e sempre sul punto di ricominciare”, ricorda in Desiderio di altri mondi(Donzelli 2012) lo storico Alessandro Portelli, nato a Roma ma legato fin dall’infanzia a Terni. Già all’epoca, commentando una manifestazione recintata “come in un corral del west” in un angolo di piazza Colonna, a Roma, Portelli scriveva: “È come se la chiusura dello stabilimento dovesse essere trattata solo come un fatto privato di chi è direttamente colpito e non un evento politico ed economico di prima grandezza, un altro segno del declino industriale, un’altra ragione di preoccupazione per chi il lavoro ce l’ha ancora”.

Gli operai bloccano l’autostrada E45 a Terni, il 31 ottobre 2014. (Luca Sola)

È un lento declino, quello delle acciaierie di Terni, che le proteste operaie hanno contribuito solo ad arginare e mai ad arrestare del tutto, se è vero che già il 6 ottobre del 1984, quando ai cancelli si presentò l’allora presidente della repubblica Sandro Pertini, venuto a rendere omaggio a una capitale del socialismo italiano, se ne parlava come di un “gigante malato”. Da allora, nessuna politica industriale è intervenuta a decidere quale dovesse essere la sorte di una fabbrica che ancora oggi contribuisce per il 15 per cento al pil dell’Umbria e dà lavoro a 2.800 persone. Si capisce perciò come la disillusione venga da lontano e per quale ragione, dieci anni dopo l’ultima sforbiciata e con il 25 per cento della produzione industriale volatilizzata, tutti siano coscienti di essere seduti su un vulcano che di tanto in tanto riesplode, inesorabile.

La parabola della rivoluzione industriale a Terni si può esemplificare attraverso le vicende della famiglia Bottega. Felice, il papà di Enzo, si era trasferito, nel fascistissimo 1935, dal Veneto d’origine in quella Terni che Benito Mussolini aveva definito “la piccola Manchester”, passando come migliaia di suoi concittadini attraverso la bonifica dell’Agro Pontino. Appena due anni prima un film tedesco, Acciaio di Walter Ruttmann, scritto da Luigi Pirandello, aveva mostrato con una sinfonia musicale e visiva la vita degli operai di quelle acciaierie che l’ammiraglio Benedetto Brin nel 1883 aveva voluto a Terni. Obiettivo: costruire corazze per le navi da guerra in un luogo poco esposto agli attacchi e ricco d’acqua, dopo che il neonato stato sabaudo aveva lasciato morire il polo siderurgico calabrese di Mongiana, ereditato dai Borboni. Proiettando così la città nella modernità e i suoi abitanti dalla campagna verso la fabbrica.

Una fiaccolata, il 6 novembre 2014. (Luca Sola)

Enzo conserva ricordi di suo padre, come la medaglia per i 35 anni di servizio o la tessera del Partito comunista italiano. Antifascista con pochi timori riverenziali, fu fermato più volte per aver resistito ai picchiatori che prendevano usualmente di mira lo stabilimento di Papigno dov’era impiegato, nei padiglioni che più di mezzo secolo dopo vinceranno l’Oscar per aver ospitato le riprese di La vita è bella di Roberto Benigni e che oggi rischiano di essere trascinati a fondo dalla crisi degli studios di Cinecittà, a cui appartengono. In quella che ironicamente è definita “PapignHollywood” oggi c’è un solo dipendente ed è in cassa integrazione.
Nel 1967 Enzo Bottega sostituì suo padre alle condotte forzate. All’epoca il posto di lavoro si poteva trasmettere in via ereditaria e questo consentì alla città di mantenere una certa stabilità economica e sociale. Da Terni non si emigrava, al contrario la città si popolava di immigrati, e ancora oggi questo retaggio fa sì che un genitore faccia fatica ad accettare che un figlio possa andare a cercare fortuna altrove.

Dal padre ereditò la passione politica e una certa attitudine a rifiutare i compromessi. Mai assente a manifestazioni, scioperi, picchetti, ancora oggi è sempre in prima fila alle assemblee, sia pur da pensionato. Parla della fabbrica con grande orgoglio, racconta come qui sia stata assemblata la prima centrale nucleare italiana, la Garigliano di Sessa Aurunca, e come fosse “made in Terni” perfino la culotta di un supercannone destinato, clandestinamente, a Saddam Hussein. Una vicenda che nel 1986 destò scandalo ma che oggi è ricordata senza stigmi, più per campanilismo che per convinzione. Soprattutto, ci tiene a sottolineare che “lo stato italiano è in debito con noi ternani” per via di quelle 1.016 vittime civili dei bombardamenti alleati che la città subì, dall’11 agosto 1943 al 13 giugno del 1944, perché lì si fabbricavano armi, cannoni e corazze navali per il regime. “Dentro le acciaierie ci sono ancora i rifugi antiaerei”, spiega, raccontando come “un giorno, spostando una lamiera, mi sono accorto che c’erano delle scale che portavano sottoterra. Sono sceso, c’erano stanze separate per uomini e donne e ho visto perfino una bicicletta, ancora parcheggiata lì”.

Il figlio Emiliano mi mostra alcune immagini d’epoca: in una si vede il leggendario maglio che, secondo vox populi, a ogni colpo faceva tremare l’intera città. Trovo la prova in una cronaca locale del 20 ottobre 1886, prodiga di aggettivi: “Il gran maglio di mille tonnellate dell’acciaieria comincerà a funzionare tra pochi giorni. Sarà un vero avvenimento. Esso produrrà un rumore spaventevole che farà tremare il grandioso stabilimento e di cui si udrà l’eco poderosa in tutta la città”. La foto è una vera reliquia, perché del maglio da 108 tonnellate, in realtà, non c’è più traccia dal luglio del 1910, quando smise di battere e fu sostituito da una pressa da cinquemila tonnellate e, dal 1936, da un’altra da dodicimila, dismessa nel 1993. Oggi, tirata a lucido e sistemata davanti alla stazione ferroviaria, è diventata uno dei maggiori monumenti cittadini, insieme alla “Lancia di luce”, tutta in acciaio e anch’essa omaggio alla fabbrica, di Arnaldo Pomodoro. La cupola dell’officina che conteneva la pressa, demolita nel 1957, si dice fosse così grande da poter ospitare il Pantheon.

Gli uffici amministrativi dell’Ast, a Terni, il 6 novembre 2014. (Luca Sola)

In quaranta giorni di sciopero dei lavoratori dell’Ast si è visto di tutto: le portinerie occupate, un corteo preso a manganellate a Roma e un sit-in sull’autostrada del Sole che ha tagliato in due l’Italia per una giornata intera, i tavoli di trattativa al ministero dello sviluppo economico. Ma se c’è una data simbolica da tenere a mente, questa è il 16 ottobre 2014. Quel giorno l’intera città si è stretta attorno ai lavoratori dell’Ast. Trentamila persone, poco più di un cittadino su tre, sono scese in piazza per solidarizzare con gli operai che vedevano a rischio il loro futuro. Non è la prima volta che Terni si mobilita per quello che è considerato un pezzo fondativo della città, ma questa volta, concordano tutti, è stato diverso. C’era la consapevolezza che, se la fabbrica avesse chiuso, tutta la città sarebbe stata destinata a un tristissimo destino da depressione postindustriale.

L’Ast è l’ultimo bastione di una storia che rischia di essere definitivamente travolta dalla globalizzazione dei mercati e dal lento, inesorabile processo di deindustrializzazione del nostro paese. Curioso destino, per una città troppo spesso descritta come post-operaia e che si è trovata invece compatta a difendere un modello di lavoro e di sviluppo pienamente novecentesco, ben consapevole che ogni tentativo di uscire dalla monocultura industriale, nonostante le buone intenzioni, non ha finora proposto una vera alternativa economica.

Non il turismo, nonostante la cascata delle Marmore (“Ma Roma, Roma, chi la fa più bella che pare a giornu tutta illuminata? Se Marmore ’gni desse la ’ngozzata, Tevere che sarìa? ’Na pisciatella!”, mandava a dire in versi il poeta dialettale Furio Miselli al collega-rivale Gioacchino Belli).

Non il cinema, nonostante il sogno di “PapignHollywood”.

Non l’apertura di un avveniristico centro europeo di ricerche sulle nanotecnologie.

Quando l’Ast ha minacciato di chiudere i battenti e il polo chimico è andato in crisi, bruciando trecento posti di lavoro in appena tre anni, in tanti hanno indossato il caschetto metalmeccanico: gli studenti hanno marinato la scuola, le serrande dei negozi sono rimaste chiuse come non si era mai visto, dalle finestre delle abitazioni sono comparsi cartelli di solidarietà.

Durante lo sciopero, l’11 ottobre 2014. (Luca Sola)

A esemplificare quanto forte sia l’identificazione dei cittadini con la fabbrica, a casa Bottega raccontano un aneddoto. Nei giorni più duri dello sciopero, un giorno ha bussato alla porta un uomo di mezza età. Sosteneva di essere un operaio licenziato e che aveva bisogno di aiuto. Nonostante tutti nel palazzo sapessero che nessuno era stato ancora mandato via dal lavoro, è scattata la corsa alla solidarietà: un’anziana donna ha aperto la dispensa e caricato il bisognoso di generi di prima necessità, altri hanno dato qualche spicciolo.

Finché non è rientrato Emanuele Bottega, che non ha riconosciuto l’uomo come un suo collega. Quest’ultimo ha provato a negare l’evidenza per un po’, ma alla fine ha dovuto capitolare e ha ammesso che con la fabbrica non aveva nulla a che vedere. Aveva solo approfittato del caso per muovere a compassione gli inquilini e spillare loro un pacco di pasta e qualche euro. A Terni è così: basta nominare l’acciaieria per vedersi spalancare le porte di casa.

Per quaranta giorni e quaranta notti alla “riserva indiana” di Prisciano e agli altri due cancelli occupati si è giocato a carte e a calcio, guardando la tv in attesa di notizie, si è discusso di politica e ci si è divisi sulla cucina: mai mescolare tipi di pasta diversi, i ceci sono il massimo con pepe e rosmarino, però l’avete mai assaggiati insieme alle melanzane?

“Siamo diventati una grande famiglia”, dicono tutti e dice Massimiliano Marini. Molti non si conoscevano tra loro, perché la fabbrica è grande. I turni di lavoro e il ripiegamento nel privato degli ultimi anni hanno fatto il resto.

Ora è come se la lotta per un interesse comune avesse fatto riscoprire qualcosa che era stato accantonato ma che appartiene a una specie di genius loci dei ternani. Stare insieme, condividere.

Un operaio racconta che due notti prima non riusciva a prender sonno, non ce la faceva proprio a stare in casa e allora alle due di mattina se n’è venuto al presidio. È la storia che si fa sentire, quella dei loro padri e dei nonni, di Felice Bottega arrestato dal fascismo e di Umberto Marini che santificava il primo maggio, di Luigi Trastulli ucciso davanti alla fabbrica dalla polizia di Scelba, il 17 marzo 1949, perché manifestava contro l’adesione dell’Italia alla Nato.

Un’immagine, quella di Trastulli ucciso, “addossato al muro”, che per Alessandro Portelli “è radicata in un’iconografia del martirio, di crocifissione, che ha probabilmente origini religiose”. Tutto pare tenersi, in questa città che è operaia e di campagna, novecentesca e postmoderna, laicamente religiosa.

Chi invece si è visto molto poco, ai cancelli dell’Ast, sono i politici: qualcuno del Movimento 5 stelle, un’eurodeputata della Lista Tsipras e pochissimo altro, almeno qui davanti alla fabbrica, anche se il sindaco Leopoldo Di Girolamo un anno fa si prese una manganellata in testa durante una manifestazione. Poco male. A Terni, fin dal dopoguerra amministrata ininterrottamente da giunte di sinistra, con una sola parentesi negli anni novanta quando Gianfranco Ciaurro, ex liberale tra i primi fondatori di Forza Italia, infranse la tradizione “rossa”, un bernoccolo rimediato in uno scontro di piazza è una medaglia conquistata sul campo.

“Le multinazionali qui a Terni si sono comportate sempre tutte allo stesso modo: sono arrivate, hanno comprato, depredato e poi se ne sono andate”, dice Enzo Bottega. Ma la novità, aggiunge, è che “questa volta il lavoro sporco l’hanno fatto fare a un’italiana”. Si tratta di Lucia Morselli, la manager dalla fama di “dura” di cui tutti parlano da quando è cominciata questa storia.

Di lei si sa poco o nulla, se non che raramente si mostra in pubblico e che non risponde mai ai giornalisti. Il suo curriculum parla di una laurea in matematica alla Normale di Pisa con 110 e lode, un master in fisica matematica a Roma e un altro, decisivo ai fini della sua carriera, in amministrazione aziendale a Torino. Poi gli incarichi manageriali: dalla Olivetti a Finmeccanica, passando per Telepiù, Franco Tatò&Partners, Mikado.

Un operaio durante il quarto giorno di sciopero a Terni, il 24 ottobre 2014. (Luca Sola)

A Terni è arrivata con la nomea di chi aveva fatto recapitare, a freddo e senza mai incontrare sindacati o rappresentanti delle istituzioni, 611 lettere di licenziamento ai lavoratori della Berco di Ferrara. Al presidio di Prisciano è la nemica numero uno: anche stavolta, raccontano, ci ha provato fino all’ultimo, proponendo la cassa integrazione per 400 persone, ufficialmente al fine di compensare i mancati profitti per lo sciopero dei quaranta giorni ma, secondo gli operai, per ritorsione nei confronti di chi ha fatto saltare i piani dell’azienda.

Però, messa alle strette dai sindacati, alla fine ha dovuto cedere. L’Ast di Terni per ora è salva e l’azienda ha promesso un piano quadriennale di rilancio, anche se rimangono diversi problemi sul tappeto.

Come saranno sostituite le 290 persone che andranno via, compresi alcuni capiturno e capireparto? Quale sarà la sorte delle aziende dell’indotto i cui lavoratori denunciano di essere stati “sacrificati sull’altare dell’accordo”? Soprattutto, si chiedono gli operai in assemblea, come sarà possibile rilanciare tagliando il personale, in uno stabilimento dove ormai si producono solo tre tipi di acciaio, l’inossidabile, l’inox e quello al carbonio?

Emiliano ed Emanuele Bottega rimarranno al loro posto. A differenza del padre, sono entrati in fabbrica non per diritto ereditario ma attraverso un corso di formazione, il primo; e suo fratello minore, come tanti della sua generazione, facendo una gavetta di contratti a termine per qualche anno. Ma non è questo che fa sentire loro e i loro colleghi una “riserva indiana” – anche se un mese e mezzo di sciopero e proteste hanno ottenuto il risultato di costringere il governo a intervenire e l’azienda a tornare sui suoi passi.

Entrambi sanno bene che, comunque vada, ai loro figli toccherà una sorte diversa e che con buona probabilità saranno costretti a emigrare come il nonno nel 1935 durante il fascismo, chiudendo un cerchio lungo un secolo. Sono consapevoli che saranno costretti a tagliare il cordone ombelicale che li lega da sempre allo stabilimento e, allo stesso tempo, alla città.

È questo, mi par di intuire, il vero shock culturale che sta minando alle fondamenta la Terni operaia che non riesce a intravedere un futuro possibile al di là della fabbrica. Ora è chiaro perché, ai cancelli delle acciaierie di Terni, l’annuncio dell’accordo è stato accolto da un duro, pragmatico silenzio.

Angelo Mastrandrea è stato vicedirettore del quotidiano il manifesto. Nel 2014 ha vinto il premio Sodalitas, giornalismo per il sociale. Il suo ultimo libro è Il paese del sole (Ediesse 2014).

Luca Sola è un fotoreporter italiano nato a Collestatte Piano, una frazione del comune di Terni. Si è occupato soprattutto di Italia, Africa e Medio Oriente. Vive tra Roma e il Cairo.

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