La mattina del 3 aprile 2019, osservando il polmone di un vitello di dieci mesi appena ucciso, Rocco Panetta si è accorto che aveva delle “lesioni sospette”. In 32 anni da veterinario nel piccolo macello comunale di Monte San Giacomo, un paese di appena 1.500 abitanti alle pendici del monte Cervati, nel parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, non gli era mai capitato di vedere un animale così giovane malato di tumore. Da queste parti gli animali spesso vivono allo stato brado e non esistono allevamenti intensivi. Il mattatoio, che si trova oltre la parte più alta del paese, a 800 metri di altitudine, è aperto solo due mattine a settimana e ci vanno solo piccoli allevatori che macellano la carne per sé o per venderla alla macelleria in piazza.
Panetta non ha mai avuto grandi problemi con la salute di mucche, vitelli o maiali. Alla parete del suo ufficio ha affisso l’articolo di una rivista veterinaria il giorno in cui scoprì un caso di tubercolosi. In un’altra occasione, mi racconta, riuscì a scoprire un imbroglio: dovevano arrivare dodici bufale malate di brucellosi per essere abbattute e lui si accorse che gli avevano mandato altrettante bestie vecchie e acciaccate, ma senza alcuna malattia infettiva, così gli toccò andare nell’allevamento a visitarle una per una per scoprire quali fossero quelle realmente malate e riuscì a scovarne otto.
Non si era imbattuto in un caso come quello del vitello di dieci mesi neanche quando agli inizi della carriera era stato a Luino, al confine con la Svizzera; poi a Vipiteno, nella provincia autonoma di Bolzano; e infine a Susa, sul versante francese.
Ha fatto conservare i resti dell’animale – diviso in quattro parti – nella cella frigorifero del macello e ha motivato il sequestro scrivendo a penna sul registro delle ispezioni: “Polmone con ascessi metastatici multipli, senza interessamento linfonodale; ascesso in sede mandibolare destra; milza iperplastica”. Poi ha inviato un campione all’Istituto zooprofilattico di Portici, chiedendo un test tossicologico. Gli accertamenti hanno confermato la sua diagnosi: il vitello era ammalato di tumore al polmone. La quantità di campione inviato, però, non era stato sufficiente per accertare la presenza di sostanze tossiche.
Un altro al suo posto forse si sarebbe accontentato del responso e avrebbe fatto distruggere le carni. Lui no. Ha inviato un secondo campione all’Istituto zooprofilattico sperimentale di Teramo, specializzato nella ricerca di diossine, furani e altri veleni. Anche questa volta ha avuto ragione. Le analisi hanno evidenziato “livelli elevati” di policlorobifenili (Pcb), che hanno avvelenato i bresciani residenti vicini all’unica fabbrica produttrice di Pcb in Italia – la Caffaro – e che sono stati trovati anche nel sangue dei malati della terra dei fuochi, in Campania.
Si tratta di prodotti chimici usati come isolanti termici ed elettrici, come fluidi in oli lubrificanti e nei circuiti idraulici, e come additivi in vernici e solventi. Sono stati impiegati fino a quando, nel 1985, una direttiva europea ne ha vietato la produzione e il commercio perché “possono costituire un rischio per la salute e per l’ambiente”. Il miglior cliente dell’azienda lombarda erano le acciaierie Italsider di Taranto, che acquistavano l’Apirolio – questo il nome commerciale del prodotto, su brevetto della Monsanto – per utilizzarlo nei circuiti di raffreddamento. Alcuni operai hanno raccontato alla trasmissione Rai Presa diretta che ci si lavavano le mani a fine turno perché era “sgrassante” e altri che se lo portavano a casa per utilizzarlo come lucido per le scarpe.
Panetta non capiva come fossero potuti finire nel corpo di un bovino che nei suoi pochi mesi di esistenza aveva brucato solo l’erba del padrone, un contadino di ottant’anni della vicina Teggiano, un paese della valle dove di fabbriche non c’è mai stata ombra. Per questo ha inviato i risultati all’oncologo dell’ospedale Pascale di Napoli, Antonio Marfella, che da anni è impegnato contro l’inquinamento causato dai rifiuti speciali in Campania. Il professore ha risposto che “i livelli significativamente elevati” di Pcb trovati nel vitello “sono compatibili con il profilo Caffaro riscontrato nei casi di sversamenti di policlorobifenili da smaltimento illecito di rifiuti tossici” in Campania e che sono “in grado di entrare nelle matrici biologiche del nostro patrimonio zootecnico e agroalimentare”.
Appena lette le parole dell’esperto, il veterinario ha segnalato il caso al Nucleo operativo ecologico dei carabinieri. La notizia dello strano caso del vitello malato di tumore è così finita sui giornali locali e la procura della repubblica di Lagonegro ha aperto un’inchiesta. Il senatore del Movimento 5 stelle Francesco Castiello, che nel 2018 aveva presentato un’interrogazione al ministro dell’ambiente Sergio Costa e a quella della salute Giulia Grillo per denunciare l’aumento di tumori tra la popolazione e il sospetto che “nell’esecuzione di lavori e opere pubbliche siano stati occultati illecitamente rifiuti pericolosi”, ha interpellato di nuovo il governo italiano.
Traffici nel parco nazionale
Nonostante sia un’area protetta dal punto di vista ambientale e sebbene l’alternarsi di campi coltivati e paesini ben conservati non faccia sospettare nulla, dagli inizi degli anni duemila il Vallo di Diano è finito più di una volta al centro di scandali legati ai traffici di rifiuti che dall’Italia del nord arrivano a quella del sud.
Già alla fine degli anni ottanta, la denuncia di un autotrasportatore che si era ammalato agli occhi a causa dei fumi che uscivano dai fusti che trasportava aveva fatto sospettare che la zona fosse un crocevia di trasporti di scorie tossiche. Ma si dovrà aspettare la prima maxi-inchiesta sulle ecomafie – quella della procura di Santa Maria Capua Vetere che nel 2003 portò alla luce il sistema di smaltimento illegale di scorie industriali in Campania messo in piedi dal clan dei Casalesi – per far emergere le connessioni con l’area più meridionale della Campania.
Tra i principali imputati, poi prescritto come altre 96 persone, figurava Luigi Cardiello, proprietario di una ditta di trasporti e originario di San Pietro al Tanagro, un paesino della valle. Finirà anche in diverse altre inchieste, tra le quali quella della procura di Napoli chiamata “Re Mida” per via di un’intercettazione telefonica nella quale l’imprenditore si vantava di trasformare la monnezza in oro. Anche in questo caso Cardiello è stato prescritto.
Nel 2007 un’altra inchiesta della procura della repubblica di Santa Maria Capua Vetere faceva l’elenco dei rifiuti interrati in terreni nel nordovest della valle: “Fanghi tossici provenienti dal ciclo di lavorazione di quattro impianti di depurazione campani, scarti di tessuti vegetali, fanghi derivanti da trattamenti di lavaggio, sbucciatura, centrifugazione, distillazione di bevande alcoliche, ceneri di carbone, imballaggi di carta e cartone, miscugli di cemento e ceramica, liquami di origine animale, scarti dall’eliminazione di sabbie, reflui di acque urbane, reflui industriali, fanghi da fosse settiche di ospedali, abitazioni civili e persino di navi approdate al porto di Napoli”.
Il tutto veniva trasformato in “falso compost” che alcuni agricoltori usavano per concimare i campi. Secondo l’accusa, in appena 18 mesi, tra il gennaio 2006 e il giugno 2007, sarebbero state smaltite in questo modo 980mila tonnellate di fanghi tossici, per un giro d’affari di cinquanta milioni di euro. Il concime veniva smistato in aree periferiche della Campania e della Puglia. Tra queste il Vallo di Diano dove, nei campioni di terreno analizzati, fu trovato in particolare cromo esavalente, un residuo industriale facilmente diluibile in acqua e considerato tossico per la salute.
Furono individuate e sequestrate quattro aree dove i rifiuti tossici erano stati sversati: diecimila metri quadrati nel comune di San Pietro al Tanagro, 15mila in quello di Sant’Arsenio, quattromila a San Rufo, diecimila a Teggiano, il paese del vitello intossicato dai Pcb. Il processo a 38 imputati per “associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti ambientali inerenti il traffico illecito di rifiuti speciali, danneggiamento aggravato, gestione illecita di rifiuti inquinanti dispersi nell’ambiente, disastro ambientale, falso e truffa aggravata ai danni di enti pubblici”, si è concluso alla fine di marzo del 2018 con la prescrizione per tutti i reati e l’assoluzione per l’unico imprescrittibile, il disastro ambientale.
Il rappresentante del Codacons Vallo di Diano, Roberto De Luca, lo ha seguito fin dall’inizio e oggi si dice “sbalordito” per un maxiprocesso che in più di dieci anni è riuscito a celebrare appena due udienze. De Luca elenca tutti gli stratagemmi usati per farle saltare e arrivare così alla prescrizione: prima il cambio del collegio giudicante da Santa Maria Capua Vetere a Salerno, poi difetti di notifica, scioperi degli avvocati, testimoni che non si presentavano, perfino un allarme bomba. La prima udienza è stata rimandata otto volte. Dopo la sentenza che ha sancito il nulla di fatto, i terreni sono stati dissequestrati e restituiti ai proprietari.
Nel 2014, i ministeri dell’ambiente e dell’interno hanno inviato nel Vallo di Diano un elicottero con a bordo una sonda e una telecamera a infrarossi per evidenziare eventuali anomalie termiche, un magnetometro per individuare i metalli pesanti nel sottosuolo e un rilevatore di raggi gamma per eventuali fonti radioattive. Furono rilevate “forti anomalie termiche e magnetiche” in sei zone di cinque comuni, tra i quali San Pietro al Tanagro, ma quando il Codacons ha chiesto i risultati al ministero dell’ambiente la divulgazione è stata negata perché le perizie effettuate a terra in un secondo momento non hanno confermato l’inquinamento dei terreni.
Un ragazzo sempre stanco
Panetta conosce bene queste vicende. Nel 2002 sua moglie Maria Antonietta Rosa, insegnante di lettere alla scuola media di Sant’Arsenio, è rimasta suo malgrado coinvolta in un’inchiesta sui traffici di rifiuti. È successo quando si è accorta che un suo studente di appena 15 anni si addormentava di continuo in classe.
“Diceva di essere stanco, quando gli chiesi il perché mi rispose che lavorava per il suo padrino di battesimo, diceva che era un lavoro semplice ma doveva stare sveglio fino alle tre del mattino perché da Milano arrivavano dei camion che portavano olio bruciato”, ricorda. Il ragazzo aveva il compito di fare un fischio quando vedeva arrivare il camion, avvisando così chi avrebbe dovuto prendere il carico per sotterrarlo.
Rosa raccontò il caso ai carabinieri, che le chiesero di registrare le parole dell’alunno. Fu anche grazie a lei che fu scoperto un traffico imponente di rifiuti tossici, interrati di notte nelle campagne locali. Per questo il veterinario ha insistito affinché al vitello malato fossero fatti anche dei test tossicologici.
Il più grande sequestro in provincia di Salerno
“Sono anni che gli abitanti del Vallo di Diano sanno ciò che è versato nella nostra terra, ma nessuno denuncia”, ha scritto Rosa in una lettera inviata ai giornali locali il 2 novembre 2019, dopo quello che il comandante della compagnia dei carabinieri di Sala Consilina Davide Acquaviva definisce “il più grande sequestro di sostanze tossiche mai effettuato in provincia di Salerno”.
È successo la notte del 22 ottobre 2019, quando i militari hanno fermato nelle campagne tra Sant’Arsenio e Polla un camion che trasportava delle cisterne piene di materiale liquido, con un rubinetto per svuotarle. Il conducente, un giovane di 26 anni di Sala Consilina, non ha saputo dire dove stesse andando a quell’ora con seimila litri di rifiuti liquidi, senza alcuna autorizzazione e senza formulario per l’identificazione delle sostanze. Risalendo alla provenienza del camion, gli inquirenti sono finiti in un cementificio poco distante. Lì hanno trovato altre dieci cisterne da mille litri l’una, uguali a quelle trovate sul camion, e hanno messo i sigilli alla struttura utilizzata come deposito di scorie.
Nei contenitori c’era idrossido di potassio, una sostanza caustica utilizzata nelle batterie, in alcuni solventi e nella produzione di plastiche e resine. Gli inquirenti ritengono che sia stato usato come detergente in alcune fabbriche della Campania e della Lombardia, che invece di smaltirlo come rifiuto speciale si sarebbero rivolte ai trafficanti di rifiuti. Nelle cisterne, mescolato all’idrossido di potassio, sono state trovate anche tracce di vernici, che potrebbero contenere i Pcb che hanno avvelenato il vitello di Monte San Giacomo.
Il 30 ottobre 2019 i carabinieri sono andati a bussare alla porta di un ex agente di polizia penitenziaria, nelle campagne di Atena Lucana. Non si sono lasciati intimidire dal cartello al cancello d’ingresso che, sotto il simbolo di una pistola, intimava di stare attenti al cane e al padrone, e hanno perquisito la casa di campagna, i depositi e i terreni intorno, sequestrando altri fusti di idrossido di potassio, un trattore, un carrello e undici maiali allevati senza autorizzazione sanitaria. Nei giorni seguenti, alcune ruspe dell’esercito hanno cominciato a scavare nei terreni sequestrati, alla ricerca di veleni che potrebbero essere stati interrati o semplicemente sversati.
Nelle indagini è coinvolta anche la Direzione distrettuale antimafia di Salerno e gli inquirenti ritengono che questi ritrovamenti siano la traccia di un “vasto traffico organizzato di rifiuti”. Se fosse così, il primato negativo della Campania peggiorerebbe ulteriormente, dopo che nel 2019 ha ricevuto per la venticinquesima volta consecutiva la “maglia nera” di Legambiente per le “illegalità ambientali”. Il rapporto sulle ecomafie dell’associazione ecologista ha censito 3.862 reati – il 14,4 per cento del totale a livello nazionale –, 4.279 persone denunciate, 24 arrestate, 1.520 sequestri e 89 clan criminali che si spartiscono la torta dello smaltimento illegale dei rifiuti.
Allarme sociale e silenzio istituzionale
Nel Vallo di Diano le notizie dei sequestri hanno generato una diffusa sensazione di allarme, che va a rafforzare la percezione diffusa di un aumento dei tumori. Sulla questione non ci sono dati ufficiali. Un monitoraggio condotto da una cooperativa di 168 medici di base del Cilento ha riconosciuto che in queste zone l’incidenza dei tumori è in molti casi superiore alla media nazionale, nonostante l’assenza di un’agricoltura intensiva e di attività industriali a rischio.
Nel 2014 Luigina Martello – 45 anni, di Padula – aveva scritto una lettera aperta raccontando di aver visto una cartina dell’Italia con il Vallo di Diano cerchiato in rosso nello studio dell’oncologo all’ospedale Santa Chiara di Pisa che aveva in cura sua madre per un carcinoma tiroideo. Aveva chiesto il motivo del cerchio rosso e la risposta era stata “perché lì c’è un focolaio di cancro alla tiroide”. Nella stanza dell’ospedale dove la madre era ricoverata, su sei letti quattro erano occupati da suoi concittadini. “Il professore aveva inviato una delegazione di esperti per studiare il nostro territorio e il motivo di tutti quei casi di tumore”, ha scritto ancora, spiegando che le domande degli esperti si sono scontrate con il silenzio della politica e con un ostracismo diffuso. Poi si è ammalata anche lei, della stessa malattia.
Chiedo a Rocco Panetta se la scoperta del bovino malato abbia spinto le istituzioni a fare qualcosa. Mi risponde di no e che lui è stato lasciato solo come spesso accade a chi osa mettere il dito nella piaga. A suo parere bisognerebbe analizzare i terreni, più che gli animali. Il presidente della comunità montana Raffaele Accetta, sindaco di Monte San Giacomo, e quello del parco nazionale Tommaso Pellegrino, hanno scritto al ministro Costa, che il 27 dicembre 2019 ha incontrato i sindaci dei comuni coinvolti.
Lo stesso Pellegrino – prima al Partito democratico, oggi tra le file di Italia Viva di Matteo Renzi – temendo ripercussioni sul turismo e sull’industria agroalimentare, ha poi gettato acqua sul fuoco, bacchettando “chi, non conoscendo ciò che realmente è accaduto, continua a parlare di sversamenti, di inquinamento della nostra terra, di presenza nei terreni di materiale pericoloso e di falde acquifere inquinate, determinando un ulteriore danno all’immagine del nostro territorio”.
“Piuttosto che cercare di proteggerli, ci si dovrebbe chiedere perché, su cinquanta caseifici, nel Vallo di Diano solo due hanno il marchio Dop”, chiosa Panetta, un uomo che dietro l’aspetto gioviale nasconde un carattere poco incline ai compromessi. Il veterinario è convinto che se si vuole evitare che questa terra sia devastata com’è successo ad altre in Campania invece di censurare “bisogna dire la verità”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it