Tutte le crisi dell’industria italiana
In tutta la giornata di giovedì 20 giugno 2020, dallo stabilimento di San Gemini partono cinque autotreni, carichi di bottiglie di acqua minerale appena imbottigliata destinate a ristoranti e supermercati. Un anno fa, dagli stessi cancelli uscivano tra i quaranta e i cinquanta tir al giorno. “Siamo ai minimi storici, con questi numeri il nostro destino è segnato”, dice Riccardo Liti, operaio e rappresentante sindacale della Cgil.
Gli italiani sono tra i maggiori consumatori di acque minerali al mondo, durante il confinamento le vendite sono aumentate del 20 per cento, ma a San Gemini e nella vicina Amerino non ne hanno beneficiato. Il gruppo Acque minerali spa, concessionario nella sola Umbria delle fonti Amerino, Aura, Fabia, Grazia e Sangemini, il 28 febbraio ha chiuso improvvisamente i due stabilimenti, spedendo gli 86 dipendenti in cassa integrazione. Motivo: mancavano i tappi per chiudere le bottiglie, tutte di plastica perché la linea del vetro che per decenni aveva caratterizzato il marchio Sangemini era già stata fermata un anno fa dalle difficoltà e dall’assenza di manutenzione. L’azienda non aveva soldi per pagare i fornitori.
Pochi giorni prima, la stessa azienda, di fronte alle voci di una grave mancanza di liquidità, aveva diramato una nota rassicurante in cui sosteneva che “non è prevista nessuna chiusura degli stabilimenti” e che era “allo studio una riorganizzazione e una razionalizzazione del gruppo, che permetta di rendere sostenibili le attività sui territori, anche alla luce della fase problematica del settore delle acque minerali in Italia”.
Difficile recuperare
Il 2 marzo, a impianti fermi, il terzo gruppo italiano nel settore delle acque minerali, ha presentato al tribunale di Milano una richiesta di concordato preventivo “in bianco”, una procedura prevista dalla legge per dare tempo alle aziende insolventi di presentare un piano ai creditori mantenendo aperta l’attività. Il 12 marzo, azienda e sindacati si sono riuniti in videoconferenza con il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli per discutere della situazione. L’amministratore delegato Massimo Pessina ha annunciato la riapertura al 60 per cento dello stabilimento di San Gemini e promesso un piano industriale entro il 18 giugno. Gli operai sono tornati al lavoro il 16 marzo, ma la produzione a scartamento ridotto, su una sola linea, ha fatto quasi sparire le acque umbre dagli scaffali dei supermercati. “Tra covid e concordato abbiamo perso importanti quote di mercato, ora recuperare è quasi impossibile”, spiega Marcello Mellini, rappresentante dei lavoratori per la Cisl.
Nel mirino dei lavoratori ci sono le strategie industriali e commerciali dei proprietari
“La situazione è allo sbando, senza un piano commerciale non abbiamo alcuna possibilità di recuperare”, conferma il terzo delegato sindacale Michele Leone, della Uil. Nessuno sa a quanti ammonti di preciso il buco delle Acque minerali spa, un colosso da 140 milioni di euro di fatturato all’anno proprietario, oltre che delle acque umbre, di una ventina di altri marchi come Gaudianello e Norda, ma sottovoce i sindacati parlano di un deficit attorno ai 180 milioni di euro.
Nel mirino dei lavoratori ci sono le strategie industriali e commerciali dei proprietari del gruppo, i Pessina, il cui business principale è l’edilizia ma più noti per aver acquistato nel 2015 l’80 per cento delle quote del quotidiano l’Unità, poi chiuso. I costruttori-editori sono accusati di non aver investito nella manutenzione e nell’ammodernamento degli impianti e neppure dei pozzi, di aver abbandonato la linea del vetro e di aver sbagliato le strategie di mercato. “L’errore più grossolano è stato aver cambiato la natura commerciale del marchio Sangemini, da acqua della salute, leggera e adatta per i più piccoli, ad acqua dello sport”, accusa Liti.
L’11 maggio, rispondendo a un’interrogazione del Pd, l’assessore regionale allo sviluppo Michele Fioroni, vicino a Fratelli d’Italia, ha provato a difenderli, sostenendo che è vero che in generale “il mercato delle acque ha avuto un incremento durante il lockdown, ma il 30 per cento del fatturato dello stabilimento di San Gemini arriva da hotel, ristoranti e catering, che hanno subìto un decremento del 90 per cento”.
In realtà, spiega Liti con una battuta, “il nostro covid-19 dura da anni”. La crisi era cominciata già con i precedenti proprietari, gli armatori napoletani Rizzo e Bottiglieri. Nel 2014 la Sangemini spa fu acquistata dai Pessina e le cose all’inizio non sembravano andare male. Il segretario della Flai-Cgil umbra Paolo Sciaboletta mima il gesto dell’amministratore delegato Massimo Pessina ai lavoratori subito dopo l’acquisto, “come a dire state sereni”. L’azienda impiegava 130 persone, fatturava 16 milioni di euro e imbottigliava quasi 200 milioni di litri di acqua all’anno. Le cose sono peggiorate velocemente quando, nel marzo del 2018, i Pessina hanno fuso la Sangemini con la Norda spa e la Monticchio-Gaudianello spa, creando il gruppo Acque minerali italiane. Già il primo bilancio fu in passivo e “a novembre ci chiamarono per chiederci delle uscite volontarie incentivate”, ricorda ancora Sciaboletta. Andarono via in cinque e in cambio l’azienda firmò un accordo che prevedeva un piano di investimenti per ammodernare gli impianti e rilanciare i marchi. Il piano, tuttora in vigore, è rimasto sulla carta, le strategie commerciali non hanno funzionato e l’unico strumento utilizzato dal gruppo per far fronte a un “indebitamento molto più alto del fatturato”, come ha ammesso lo stesso assessore Fioroni, è stato la cassa integrazione.
Salvare il salvabile
Tre mesi dopo la richiesta di concordato, del piano industriale non c’è traccia. Per questo venerdì 19 giugno gli operai hanno scioperato per due ore, mentre nel borgo antico di San Gemini, in una chiesa sconsacrata, una delegazione incontrava i parlamentari umbri di tutti gli schieramenti politici.
La prima a prendere la parola è la leghista Barbara Saltamartini e negli interventi, più che al governo, ci si rivolge alla presidente della regione Donatella Tesei, anche lei della Lega. Fino a qualche anno fa una cosa del genere sarebbe stata impensabile, in una roccaforte “rossa” come quella ternana. Oggi, invece, più di uno tra i presenti annuisce alle parole della deputata salviniana che chiede allo stato di esercitare il golden power, esteso al settore agroalimentare dal decreto Liquidità, per salvare l’azienda e impedire che finisca in mani sbagliate.
Davanti alla chiesa c’è un gruppetto di operai. Uno di loro si chiama Massimo Falocco, è stato assunto nel 2001, ha 56 anni, tre figli e moglie a carico. Tra cassa integrazione e bonus tagliati, porta a casa 1.100 euro al mese, 400 in meno rispetto al passato. Se dovessero venire a mancare, si dice disposto a qualsiasi cosa. “Abbiamo fatto tanti sacrifici per mantenere aperto lo stabilimento, se le cose vanno male non è colpa nostra, non possono chiederci più nulla”, afferma. Al suo fianco c’è Sandro Celesti, che di anni ne ha 58, è entrato in Sangemini nel 1986 e ora si dice “esasperato” perché “va sempre peggio”. Lucio Cascioli è invece un ex dipendente. Ha lavorato nell’impianto per quarantun anni, è in pensione dal 2006 ma i lavoratori lo considerano ancora uno di loro. Esordisce con una battuta: “Come si dice da queste parti, abbiamo le budella a mollo”, un eufemismo per dire “siamo nei guai”. Il problema, spiega, è che “la chiusura dello stabilimento sarebbe un vero dramma sociale”. L’età media degli operai è superiore ai cinquant’anni e per loro ritrovare un lavoro sarebbe molto difficile.
La crisi dell’“Umbria del sud”
Dei 149 tavoli aperti al ministero dello sviluppo economico (Mise), ben tre riguardano grandi imprese di quella che da queste parti chiamano “Umbria del sud”. Oltre alle acque minerali, rischia grosso la Treofan, un’azienda che produce pellicole alimentari e a Terni impiega centocinquanta persone. I proprietari, il gruppo indiano Jindal, hanno chiuso lo stabilimento di Battipaglia, nel salernitano, mandando a casa ottanta lavoratori e spostando i macchinari verso altri stabilimenti all’estero. A Terni nel giro di un anno si è passati da una produzione di mille tonnellate ad appena 240, nonostante le richieste siano aumentate perché molte aziende che producono biscotti e merendine hanno dovuto sostituire le confezioni preparate per le Olimpiadi e gli Europei di calcio, sospesi a causa del covid-19. L’11 giugno i lavoratori hanno scioperato e il 17 l’azienda si è presentata al tavolo convocato al Mise con un piano industriale diverso da quello inviato ai sindacati.
L’amministratore delegato Manfred Kaufmann ha mostrato delle slide nelle quali si evidenziava la crisi del settore e una contrazione dei volumi prodotti, annunciando un taglio di dodici posti di lavoro. “Hanno preso i finanziamenti regionali e poi l’hanno svuotata, lasciandola senza nessuna alternativa produttiva”, hanno scritto in una lettera inviata al ministero i sindacati confederali, che non credono alla multinazionale e paventano una chiusura della fabbrica perché, spiegano, a Terni hanno lasciato solo le produzioni sulle quali non intendono investire.
Ci sono poi le storiche acciaierie, che la Thyssen Krupp vuole lasciare e per le quali si cercano nuovi acquirenti. Il 28 maggio l’amministratore delegato Massimiliano Burelli ha spiegato in videoconferenza al ministro Patuanelli che per quest’anno “stimiamo un calo del 35 per cento di acciaio fuso rispetto al milione di tonnellate che ci eravamo posti come obiettivo”, “una riduzione delle spedizioni dell’80 per cento” per il tubificio e “tra il 30 e il 40 per cento” per il “freddo”, destinato alle filiere dell’auto e degli elettrodomestici. Alla Acciai Speciali Terni, nonostante il progressivo ridimensionamento, lavorano ancora 2.350 persone e una crisi sarebbe un vero e proprio terremoto per una città che da più di un secolo ruota intorno alla fabbrica. “Nei prossimi mesi sarà in ballo il futuro dell’intera regione”, chiosa il segretario regionale della Cisl Riccardo Marcelli.
La recessione post-pandemia concede alle aziende un alibi perfetto per giustificare tagli, chiusure e delocalizzazioni già previste
In un anno, i tavoli di crisi aperti al ministero dello sviluppo economico non sono diminuiti. Anche alcuni casi che sembravano in via di risoluzione, come quello della Bekaert di Figline Valdarno o della ex Embraco torinese, rimangono piaghe aperte, appena tamponate dagli ammortizzatori sociali. Dalla Whirlpool di Napoli, che chiuderà a fine ottobre, alla Porto Industriale Cagliari spa, dalla Blutec di Termini Imerese alla Bosch di Bari, quasi 300mila lavoratori rischiano il posto entro l’autunno. Ottantamila di questi sono nel settore metalmeccanico e per questo la Fiom-Cgil chiede il blocco dei licenziamenti. I verbali degli incontri al Mise, durante il confinamento, raccontano di una strategia dello stallo che diluisce e rallenta il decorso dell’inesorabile declino industriale italiano, senza però che questo serva a fermarlo o a invertire la rotta. La recessione post-pandemia concede alle aziende un alibi perfetto per giustificare tagli, chiusure e delocalizzazioni già previste, e per non rispettare accordi siglati e piani industriali approvati.
A dare il segno del terremoto in arrivo, alla fine di maggio, è stata la Jabil, un’azienda che produce componenti elettronici, che ha licenziato in tronco 190 dipendenti dello stabilimento di Marcianise, nel casertano, senza concedere la cassa integrazione per il coronavirus prevista dalla legge e senza rispettare il divieto di licenziamenti fino alla fine dell’estate deciso dal governo. Nella lista delle persone da mandare via la multinazionale non aveva riguardo per nessuno: c’erano marito e moglie entrambi dipendenti, il marito di una donna già incentivata all’esodo negli anni passati e pure il genero di un imprenditore ucciso dalla camorra. Di fronte alle proteste per l’insensibilità dei manager d’oltreoceano, il 3 giugno l’azienda ha fatto una parziale marcia indietro, concedendo gli ammortizzatori sociali senza però indietreggiare sul taglio del personale. Il 21 giugno, mentre mi trovo nella chiesa sconsacrata di San Gemini con i lavoratori delle acque minerali, in una nota unitaria i sindacati confederali si dicono “fortemente preoccupati per gli ulteriori cali di commesse” alla Jabil, anticamera della dismissione o di nuovi tagli.
Il 5 giugno, la Arcelor Mittal ha presentato l’ennesimo piano industriale per l’Ilva di Taranto. In un documento di cinquecento pagine, la multinazionale prevede un calo della produzione a sei milioni di tonnellate l’anno, usando tre altiforni su cinque, e 3.200 esuberi, ai quali vanno aggiunti i 1.800 lavoratori già in cassa integrazione che l’azienda aveva promesso di reintegrare. “In tutta questa storia esiste una sola evidenza: nessuno ha una soluzione”, dice l’ambientalista tarantino Alessandro Marescotti, convinto che il destino della fabbrica sia irrimediabilmente segnato.
Il covid-19 ha fatto emergere pure la profonda sofferenza del settore calzaturiero. Negli ultimi mesi hanno presentato richiesta di concordato “in bianco” la Conbipel, un’azienda astigiana controllata dal fondo statunitense Oaktree e con negozio principale in corso Buenos Aires a Milano, la Pittarosso di Legnano, controllata dal fondo Lion Capital, e la torinese Scarpe&Scarpe. In tutti e tre i casi, il prefallimento è stato motivato con la chiusura dei negozi a causa del covid e l’azzeramento delle vendite, anche se in realtà tutte avevano una pesante situazione debitoria alle spalle. A rischiare il posto sono in totale circa seimila dipendenti.
Dopo il confinamento sono rimasti chiusi i cancelli della Ideal Standard di Trichiana, nel bellunese. Lo stabilimento, che produce ceramiche e sanitari, ha riaperto solo dopo un confronto al Mise, il 15 giugno. Il ministro per i rapporti con il parlamento Federico D’Incà, del Movimento 5 stelle, che abita lì vicino, ha promesso tutto il suo impegno “per garantire una prospettiva solida ai lavoratori”. La fabbrica per ora è salva ma le prospettive per i seicento operai rimangono incerte.
Al contrario, la Safilo di Martignacco, in Friuli, è rimasta aperta durante il blocco per poi chiudere definitivamente il 29 maggio. Nei primi tre mesi dell’anno, le vendite di occhiali sono calate del 21,4 per cento e a pesare è stata, in particolare, la cancellazione di una commessa di duecento milioni di euro da parte di Dior per la produzione di occhiali di lusso. La multinazionale di origini italiane, dal 2009 di proprietà del fondo olandese Hal, ha così deciso di tagliare duecentocinquanta posti a Martignacco, quattrocento nella fabbrica di Longarone, nel bellunese, e altri cinquanta a Padova, e di spostarsi in Cina. Il 25 maggio ha annunciato un accordo con Ports Asia, una holding cinese dalla quale ha ottenuto “una licenza decennale per il design, la produzione e la distribuzione di occhiali da sole e montature da vista”. Il 29 maggio, ultimo giorno di lavoro a Martignacco, gli operai hanno lasciato la fabbrica tappezzandola di messaggi. “Abbiamo lavorato fino all’ultimo pezzo con le lacrime agli occhi nonostante sapessimo che oggi avremmo scritto la parola fine”, si leggeva su un post-it incollato a una vetrata.
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