Roma non ha ancora un piano contro gli sgomberi
Hamza si attacca al campanello vicino al portone d’ingresso dello stabile di viale del Policlinico a Roma: un edificio occupato in cui vivono 120 persone, tra cui trenta minori, in una quarantina di ex uffici dell’Inps trasformati in appartamenti. Camerette di trenta metri quadrati con i bagni al piano, in condivisione, distribuite su cinque piani. Hamza ha vent’anni, indossa un cappellino da baseball nero e con tenacia preme il campanello vicino alla portineria per una decina di minuti.
Un suono acuto si diffonde su tutti e cinque i piani dell’edificio, gli inquilini dello stabile escono dalle loro case-stanze con le porte marroni e si riversano sulle scale: è il segnale che è stata convocata una riunione d’urgenza sul piazzale davanti all’edificio per organizzare i turni di manutenzione in vista del censimento degli occupanti dello stabile, previsto tra qualche giorno su iniziativa del secondo municipio.
C’è chi metterà a posto le infiltrazioni al primo piano, chi ripulirà il garage dove negli anni sono stati accumulati i mobili e gli elettrodomestici in disuso. “Noi abbiamo vissuto gli sgomberi di Cinecittà e di piazza Indipendenza come se fossero successi a noi, sappiamo che saremo i prossimi”, afferma Suad, una delle abitanti dello stabile.
Aspettando lo sgombero
Suad è di origine marocchina, ma vive in Italia da 27 anni e ha ottenuto da tempo la cittadinanza. Scoppia a piangere ripensando alle scene drammatiche dello sgombero dei rifugiati eritrei di piazza Indipendenza e racconta che fa fatica a parlare del futuro con i suoi quattro figli. Pensa spesso a quello che li aspetta, al rischio di finire per strada. Secondo quanto stabilito dal tribunale amministrativo del Lazio (Tar) il palazzo potrebbe essere sgomberato entro il 21 novembre. Suad, che ha un chador grigio avvolto intorno alla testa, vive nell’occupazione dal 2009 e da diciassette anni ha fatto domanda per l’assegnazione di una casa popolare.
È di origine marocchina anche Bitri, 58 anni, arrivato in Italia nel 1981. Ha vissuto a Ostia, poi al Quadraro, condivideva la casa con alcuni amici. Quando la sua famiglia è arrivata in Italia, si è trasferito in un appartamento in affitto a Velletri. “Il mio ultimo figlio, Salahaddin, è velletrano”, racconta.
Quando ha perso il lavoro da ambulante, Bitri si è rivolto agli sportelli del Coordinamento di lotta per la casa e nel 2009 ha occupato insieme ad altre famiglie di italiani e immigrati lo stabile abbandonato di viale del Policlinico, vicino all’università La Sapienza e all’ospedale universitario. Salahaddin parla l’italiano con un forte accento romano e frequenta la seconda media in una scuola del quartiere; è un tifoso di calcio e da grande vorrebbe fare il calciatore. “Sto chiedendo la cittadinanza per farla avere anche ai miei figli, spero che abbiano una vita migliore della mia”, afferma Bitri, mentre si sistema gli occhiali sul naso e poi si aggiusta i capelli con la mano.
Non passa giorno che non pensiamo a quando entrerà la polizia
Tiblets, una donna di origine eritrea che è diventata italiana da qualche anno, fa strada nelle case degli occupanti: “Al primo piano dal 2010 vive una famiglia di origine marocchina: sono sei persone. Aisha, la moglie, è stata operata ai reni e non può più lavorare. Il marito, Nafia, è disoccupato. I figli mantengono tutta la famiglia e lavorano come ambulanti”, spiega Tiblets, mentre apre la tenda arancione della stanza dove è accesa la televisione su un canale turco.
Sara, la figlia più piccola, sta già dormendo in una brandina in fondo alla stanza, Nafia versa il tè nei bicchierini di vetro appoggiati sul tavolo. “Prima di venire qui vivevamo in una casa famiglia”, racconta Aisha. “Ora siamo preoccupati, non passa giorno che non pensiamo a quando entrerà la polizia. Se vediamo qualcuno che si aggira fuori dal palazzo pensiamo subito che possa essere la polizia, pronta a sgomberare”, dice Aisha aggiustandosi il fazzoletto a pois bianchi e neri che le incornicia il volto. “Le famiglie hanno occupato il palazzo nel 2009, tutti gli occupanti hanno la residenza e hanno chiesto una casa popolare”, spiega Cristiano Armati, leader del Coordinamento di lotta per la casa.
Il Tar del Lazio, con una sentenza del 21 luglio 2017, ha accolto il ricorso della Cammeo Azzurro srl, proprietaria dell’edificio, chiedendo lo sgombero entro 12o giorni dalla pubblicazione della sentenza, quindi entro il 21 novembre. Nel 2016, nella delibera dell’ex commissario straordinario Francesco Paolo Tronca, l’edificio era al secondo posto in ordine di priorità nella lista dei sedici edifici da sgomberare il prima possibile.
Insegnanti del quartiere e rappresentanti del municipio, tuttavia, si oppongono allo sgombero, perché vogliono evitare ai bambini che risiedono nell’edificio di rimanere per strada o di essere sradicati dal quartiere, perdendo la frequenza scolastica. “Le maestre sono rimaste sconvolte dallo sgombero di piazza Indipendenza, anche i bambini che non hanno visto i compagni tornare a scuola qualche domanda se la sono fatta”, racconta Armati.
Il 13 ottobre la giunta del secondo municipio ha inviato una lettera al gabinetto della sindaca di Roma Virginia Raggi chiedendo un tavolo di discussione per capire il percorso previsto dal Campidoglio per le famiglie che rischiano di essere sgomberate. Nella lettera la presidente del municipio Francesca Del Bello dice di aver fatto un sopralluogo nell’edificio e di “avere trovato lo stabile in buone condizioni” e denuncia la presenza di situazioni di “grave fragilità” che riguardano “sia gli adulti sia i bambini”.
Per evitare un intervento violento e senza soluzioni alternative come quello di piazza Indipendenza, la giunta del secondo municipio ha chiesto e ottenuto un incontro con la prefetta di Roma Paola Basilone che avverrà il 10 novembre. “Noi vorremmo trovare una soluzione per questi nuclei familiari”, afferma Cecilia D’Elia, assessore alle politiche sociali del secondo municipio. “Tutti dicono a parole che non ci sarà una seconda via Curtatone, ma questo significherebbe mettere in campo un percorso per queste persone, e a oggi non abbiamo visto niente”, dice D’Elia che chiede un intervento sociale da parte del Campidoglio.
Come i campi rom
Dopo piazza Indipendenza, il ministero dell’interno ha diffuso una circolare che chiede ai prefetti di evitare lo sgombero dei palazzi occupati, se non sono state prima trovate delle sistemazioni per le persone e le famiglie che vivono nell’occupazione. Si stima che a Roma siano a rischio di sgombero almeno cento palazzi in cui vivono diecimila persone, tra cui molti immigrati con un permesso di soggiorno di lungo periodo e almeno tremila rifugiati.
Nel quadro della circolare del ministero dell’interno rientra la proposta presentata dalla giunta capitolina, che il 21 ottobre ha indetto un bando per l’accoglienza di un centinaio di persone “in gravissime condizioni di fragilità e singoli in condizioni di grave vulnerabilità”.
Il comune cerca “strutture di accoglienza temporanea, articolata in moduli abitativi, anche prefabbricati, preferibilmente in contesti diffusi nel territorio cittadino o in un unico complesso, per ospitare massimo cento persone” per un costo complessivo annuo di 890.600 euro. Il bando ha suscitato molte polemiche sia per il tipo di soluzione giudicata temporanea ed emergenziale sia per i costi troppo alti e infine per il numero troppo basso di beneficiari. “Quella proposta dal Campidoglio è una soluzione d’emergenza”, afferma l’assessora Cecilia D’Elia, che accusa la giunta di percorrere una strada, quella della costruzione di campi container, che i cinquestelle in campagna elettorale avevano annunciato di voler superare.
“L’unico modo per superare le occupazioni è rilanciare l’edilizia popolare e le politiche per la casa, come indicato anche dalla delibera regionale”. È d’accordo con D’Elia anche l’Unione degli inquilini secondo cui la soluzione del Campidoglio è troppo costosa perché “mandare cento persone nei prefabbricati costerà per un nucleo di tre persone 1.800 euro al mese più iva”.
Per Carlo Stasolla, dell’Associazione 21 luglio, la soluzione progettata dalla giunta comunale è molto simile al sistema dei campi rom, costruiti a Roma dalla fine degli anni novanta, che hanno confinato le famiglie rom in una situazione di marginalità e degrado. “È un dispositivo già visto e sperimentato nel sistema dei campi per soli rom o nelle tendopoli riservate agli immigrati”, afferma Stasolla, secondo cui questa soluzione è inadeguata. “Dato che il cronico problema della casa a Roma riguarda tutti, dopo i rom stavolta tocca anche agli italiani che si trovano in emergenza abitativa”, conclude.
Cristiano Armati del Coordinamento di lotta per la casa mette in discussione inoltre il fatto che questi container siano destinati alle persone che presentano delle fragilità: “Ci sono già delle norme che regolano l’accesso all’edilizia popolare pubblica. Perché determinarne delle altre che non hanno nessun valore? Chi definisce il significato di fragilità? Il comune? In base a quali criteri alcuni hanno diritto alla casa e altri no?”. La stessa domanda se la pongono anche gli occupanti dell’edificio di viale del Policlinico, a cui finora non sono state offerte alternative e che nelle ultime settimane fanno i turni in portineria anche di notte, perché temono che la polizia in assetto antisommossa entri all’improvviso nel palazzo per buttare tutti fuori.