Vivere sotto sgombero a Roma
“La volete sapere l’ultima? Poco fa al tg Virginia Raggi ha appena detto che risolverà i nostri problemi con la casa”, grida un signore sulla sessantina aprendo la porta della sua stanza nell’ex albergo occupato di via Tiburtina 1064. Alle sue spalle una tenda si apre su venti metri quadrati: una camera con angolo cottura e bagno.
L’albergo Aniene Roma palace, di proprietà della Fratelli Gianni, è stato occupato da cento famiglie nel 2013, con il coordinamento del sindacato Associazione inquilini e abitanti (Asia) dell’Usb, ed è nella lista dei primi dieci edifici da sgomberare a Roma, una città in cui diecimila persone abitano in novanta stabili occupati e rischiano di finire per strada nei prossimi mesi, se la prefettura darà seguito alle indicazioni del ministero dell’interno.
Per il ministro Matteo Salvini infatti “la proprietà privata è sacra”, quindi i palazzi occupati devono essere liberati il prima possibile. Nella circolare diffusa dal Viminale il 1 settembre si parla della “necessità” di “attendere agli sgomberi con la dovuta tempestività, rinviando alla fase successiva ogni valutazione in merito alla tutela delle altre istanze”. Ma la giunta capitolina guidata da Virginia Raggi è più cauta, perché nella capitale potrebbe crearsi una situazione sociale esplosiva.
Dopo la pubblicazione della nuova circolare, la sindaca Raggi ha promesso una linea “soft” sugli sgomberi, per non creare allarmismo intorno alla questione. Ma tra gli occupanti di via Tiburtina nessuno crede alla “terza via” ipotizzata dalla sindaca, anche se molti di quelli che oggi la contestano hanno votato per lei alle amministrative nel giugno del 2016.
In due anni la città non ha offerto risposte alle migliaia di persone che subiscono l’emergenza abitativa della capitale e tutti i tavoli di concertazione tra l’amministrazione e i comitati di lotta per la casa sono naufragati. Le prime occupazioni entrate nel mirino della questura sono state quelle con un’alta partecipazione di immigrati: lo sgombero di piazza Indipendenza, avvenuto nell’agosto del 2017, ha segnato uno spartiacque.
Uno stabile che affaccia sulla piazza, occupato da circa ottocento rifugiati eritrei dal 2013, è stato sgomberato con la forza senza che agli abitanti fosse proposta nessuna soluzione alternativa. Alle donne con i bambini e a chiunque rientrava nella scivolosa definizione di “persona con fragilità” è stato proposto di abitare temporaneamente nei centri d’accoglienza del comune, mentre molti sono finiti a dormire per strada o hanno chiesto ospitalità in altre occupazioni. A molti minori che vivevano nell’edificio è stato impedito di andare a scuola nel quartiere.
Dopo lo sgombero, il ministro dell’interno dell’epoca, Marco Minniti, aveva disposto di prevedere soluzioni alternative, soprattutto per le persone più vulnerabili, prima dell’evacuazione forzata di qualsiasi edificio, e di fare un censimento degli occupanti per individuare le “criticità”. Inoltre il piano Minniti prevedeva una mappatura degli edifici inutilizzati pubblici e privati, in particolare quelli confiscati alle mafie, da poter riconvertire a uso abitativo. Ma il piano dell’ex ministro non è mai partito.
Ora la nuova circolare del Viminale fa presagire una stagione di sgomberi, senza percorsi preparatori o alternativi. Il primo atto è andato in scena il 4 settembre a Sesto San Giovanni, in Lombardia, e poi il 7 settembre le ruspe sono entrate in azione in zona Tor Cervara, a Roma. A via Raffaele Costi, senza preavviso, alle otto di mattina sono arrivati i blindati e le forze dell’ordine in assetto antisommossa per costringere una quarantina di persone, quasi tutti immigrati, a lasciare lo stabile che occupavano da cinque anni. Tra loro una decina di minori.
Figli di San Basilio
Sara ha in braccio la figlia Novalee e aspetta il rientro del marito Alessio sul corridoio del primo piano, quando il vicino si affaccia dalla porta e si mette a scherzare sul fatto che, fino a quel momento, in cinque anni sulla via Tiburtina non si è visto nessuno dell’amministrazione comunale. Eppure gli abitanti dello stabile rappresentano le fasce più deboli della popolazione della capitale: c’è chi ha perso il lavoro, coppie di precari o famiglie monoreddito, donne sole con figli, persone con la pensione minima.
Quasi tutti sono nati in case popolari e sono iscritti da anni alle graduatorie per l’assegnazione di un appartamento di edilizia pubblica. “All’inizio ci chiamavano ‘l’occupazione dei figli di San Basilio’”, spiega Sara, 27 anni. “Perché molti di noi sono nati in una casa popolare a San Basilio, un quartiere periferico di Roma che di lotte per la casa negli anni settanta e ottanta ne ha fatte parecchie”.
La storia di Sara, come quella di tanti che abitano in questo stabile, parla dell’immobilità sociale del paese: chi nasce in un quartiere popolare e in una casa di edilizia pubblica ha molte meno possibilità di ascesa sociale e difficilmente nel corso della sua vita riuscirà a comprarsi un appartamento.
Lo sottolinea la giornalista Roberta Carlini in un articolo sull’Espresso che cita uno studio della Banca mondiale: “L’indice che misura la mobilità intergenerazionale dei redditi è in Italia a quota 0,48, contro lo 0,35 della Francia e lo 0,23 della Germania. Vuol dire che da noi quasi la metà del reddito dei figli dipende da quello dei genitori. È il più alto d’Europa e nel mondo sviluppato inferiore solo a quello degli Stati Uniti, paesi dai quali siamo tuttavia molto distanti nella struttura sociale ed economica”.
Sara ha la licenza media, mentre frequentava un corso di formazione professionale è rimasta incinta e così ha rinunciato all’apprendistato che l’avrebbe portata nel mondo del lavoro. È andata a vivere con il marito prima della nascita di Novalee, e l’unica opzione abitativa disponibile per la coppia è stata l’occupazione.
Alessio faceva il commesso in un negozio di autoricambi, ma da due anni ha perso il lavoro. Vivono in tre con l’assegno di disoccupazione di Alessio, seicento euro al mese. Più i soldi guadagnati con qualche lavoretto saltuario pagato a giornata. “Con questi soldi non potremmo mai permetterci un affitto a Roma, dovremmo spostarci in qualche paese in campagna, ma il problema allora sarebbe il lavoro”, afferma. “Anche se di fatto non abbiamo reddito, dobbiamo pagare l’asilo per la bambina perché le quote scolastiche si basano sull’Isee degli anni precedenti, non c’è nessun cuscinetto per chi si trova senza lavoro da un giorno all’altro”, dice.
Da quando è stata diramata la nuova circolare sugli sgomberi alle questure di tutta Italia, Sara confessa di aver perso il sonno. “Ho ricominciato a dormire con un occhio sempre aperto e con la valigia pronta”, racconta. Ha paura di ritrovarsi per strada senza gli oggetti più importanti per la bambina, che ha due anni e mezzo. “Ne abbiamo discusso con mio marito, se fossimo sgomberati ci dovremmo separare: io a casa con mio padre in un paese in provincia di Roma e lui a casa con i suoi”, racconta mentre ci invita a entrare nella piccola stanza in cui abita con il marito e la figlia.
Il letto è diventato un divano e la bambina dorme su una poltrona che di notte si trasforma in un lettino. La vita della famiglia si svolge tutta all’interno della piccola stanza separata dall’angolo cottura con una tenda. Alle pareti le foto della coppia che ha deciso di partecipare all’occupazione quando ha capito che era l’unica alternativa per uscire dalla casa dei genitori. “Anche i nostri genitori vivono in una casa popolare, la famiglia di Alessio è numerosa, i miei sono separati”, conclude Sara.
Tornare per strada
Poche porte più in là sullo stesso corridoio vive Paola Centra, un’infermiera che ha perso il lavoro anni fa a causa delle sue condizioni di salute ed è ancora troppo giovane per la pensione. “Ho il diabete e problemi molto gravi alla schiena perciò non posso più fare l’infermiera”, racconta.
“Ora ho fatto la domanda per ricevere il Reddito d’inclusione (Rei) e dovrebbero avermela accettata”, aggiunge. Quando si è separata dal marito ha continuato a lavorare per mantenere i quattro figli, ma è dovuta andare a vivere da suo fratello fuori Roma. Poi i figli si sono trasferiti tutti in Svizzera per lavorare e Paola è rimasta da sola e ha deciso di partecipare a un’occupazione. “Se non avessi problemi di salute, li raggiungerei anche io in Svizzera”, racconta. Ma per ora vive al primo piano dell’ex albergo. Fa le iniezioni ai vicini che ne hanno bisogno.
Sono venuti a trovarla una coppia di vicini, Annibale Falconi e Anna Maria Ciarambino, che sono seduti al centro della stanza, intorno al tavolo di legno laccato di bianco. Annibale ha vissuto dieci anni per strada. “Sono stato cacciato di casa da mio padre quando avevo 35 anni, si era risposato e la nuova moglie non voleva più che vivessi con loro. Ho dormito nei parchi, sotto i ponti, negli ostelli della Caritas, in macchina”, racconta l’uomo con un’espressione tutto sommato spensierata. In macchina teneva i vestiti, il cibo, le poche cose di proprietà che gli rimanevano. “Facevo lavoretti come l’imbianchino o il manovale che non mi permettevano di avere un’entrata fissa e di pagare un affitto”.
A 63 anni percepisce la pensione minima e vive in una delle 72 stanze dell’albergo occupato sulla via Tiburtina insieme alla sua compagna di qualche anno più giovane. “Provo a non pensare che potrebbero buttarci fuori di casa, altrimenti mi rovinerei la vita. Se dovesse succedere, occuperei un altro edificio. Una cosa è sicura: a dormire per strada, non ci voglio più tornare”.
Michele Nodo, rappresentante sindacale di Asia Usb, è venuto a farsi fare una puntura da Paola e mentre chiacchiera con i condomini che prendono il caffè spiega che la situazione a Roma è fuori controllo: “Le case popolari in Italia sono poche, un numero tra i più bassi in Europa. Inoltre in città come Roma il mercato immobiliare non è regolamentato e ci sono enormi speculazioni, permettersi un affitto per alcuni è impossibile”, spiega il rappresentante dell’Asia Usb.
Secondo le stime dell’ente di ricerca Nomisma, riportato da Angelo Romano sul sito Valigia Blu, 1,7 milioni di famiglie in Italia hanno difficoltà a sostenere i canoni di affitto. “E le 700mila famiglie che abitano in una casa popolare sono appena un terzo di quelle che si trovano in condizione di disagio abitativo”, scrive Romano.
“Per una casa popolare si aspetta anche dieci o quindici anni, ma nel frattempo le persone che dovrebbero fare?”, chiede Nodo mentre fa strada verso l’uscita. Sul portone dell’edificio, un manifesto ricorda che l’8 settembre nelle vie di San Basilio ci sarà un corteo in ricordo di Fabrizio Ceruso, un ragazzo di Tivoli morto a 19 anni nel 1974 durante la cosiddetta “guerra di San Basilio”, tre giorni di scontri tra il comitato di lotta per la casa, molto attivo a Roma in quel periodo, e la polizia.
Le forze dell’ordine volevano sgomberare 150 famiglie che avevano occupato alcune palazzine popolari del quartiere, un anno prima. Ogni anno, l’8 settembre, gli abitanti del quartiere fanno un corteo in ricordo del ragazzo e depongono dei fiori in via Fiuminata, dove Ceruso fu colpito da un proiettile e morì. “Questa è la storia del quartiere”, conclude il sindacalista, mentre chiude il cancello dell’albergo dietro di sé. Poco più in là, un altro stabile, l’ex fabbrica di penicillina, potrebbe essere sgomberato nei prossimi giorni: nella struttura, fatiscente, ci vivono cinquecento persone, soprattutto immigrati rimasti fuori dal circuito dell’accoglienza.
Un vero ghetto alle porte di Roma, tra rifiuti tossici e amianto, in una delle zone con più occupazioni abitative della capitale. “Insieme ad alcuni architetti”, conclude Nodo, “avevamo presentato un progetto per la riqualificazione dell’edificio. Si potrebbero ricavare settecento appartamenti per le famiglie che hanno diritto a un alloggio popolare, ma il progetto giace nei cassetti di qualche amministratore locale”.
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