Non c’è un’emergenza immigrazione dalla Tunisia
I motorini e i fuoristrada Mehari intasano il percorso che costeggia il porto nuovo di Lampedusa: alla fine di agosto l’isola è ancora piena di turisti in pantaloncini e infradito. Sul lato interno della strada i chioschi dei venditori ambulanti offrono panini e bibite fresche, oppure canotti a forma di unicorno, giochi per bambini, sdraio e ombrelloni.
L’isola siciliana, diventata il simbolo dell’ondata migratoria dall’Africa all’Europa cominciata con le primavere arabe, sembra trasformata. Se non fosse per i relitti di piccoli pescherecci di legno abbandonati sul molo, si potrebbe pensare che le migrazioni verso l’Europa siano finite e Lampedusa sia tornata a essere il regno dei turisti che arrivano nel piccolo aeroporto dell’isola con voli diretti da Roma e Milano.
Nel 2011 Lampedusa – che ha seimila abitanti – ha accolto 50mila migranti in arrivo dalla Tunisia e dalla Libia. La rivoluzione dei gelsomini, la rivolta che ha dato avvio alle primavere arabe, aveva costretto l’ex presidente tunisino Ben Ali a fuggire e i controlli da parte delle autorità marittime tunisine si erano allentati. Perciò migliaia di tunisini avevano deciso di tentare la traversata di trecento chilometri dalle loro coste alla piccola isola italiana considerata la porta dell’Europa.
Sette anni fa si era parlato di un’invasione, perché, nonostante l’emergenza umanitaria, il governo italiano aveva lasciato l’isola senza assistenza e i migranti sbarcati erano stati costretti a rimanere lì per giorni senza che ci fossero strutture adeguate in cui ospitarli: il centro di prima accoglienza di contrada Imbriacola era stato riaperto in fretta e furia, e molti migranti si erano perfino accampati sulla collina vicino all’aeroporto, perché il centro era al collasso. La situazione era diventata tesa e gli abitanti avevano protestato, ma c’erano state anche molte manifestazioni di solidarietà.
Lampedusa – conosciuta fino a quel momento soprattutto per i missili che il presidente libico Muammar Gheddafi le aveva lanciato contro nel 1986 – finì di colpo sui giornali e i telegiornali di tutto il mondo. Politici come Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra francese Front national, visitarono l’isola per lanciare il loro messaggio contro gli immigrati. Ma arrivarono anche molti giornalisti, scrittori e registi per capire e raccontare le conseguenze delle primavere arabe e gli spostamenti di persone che avevano provocato.
Una vecchia rotta
Sette anni dopo, il caos del 2011 è un lontano ricordo: sull’isola i migranti sembrano spariti. Dal settembre del 2017 sono ricominciati gli sbarchi diretti, ma con numeri decisamente inferiori a quelli del 2011. In generale si tratta di piccole imbarcazioni di legno con una decina di migranti a bordo, soprattutto di nazionalità tunisina, che partono di notte da Sfax, dalle isole Kerkennah e da Zarzis e arrivano, circa ventiquattr’ore dopo, all’ingresso del porto di Lampedusa, dove sono intercettate dalle motovedette della guardia costiera italiana e scortate fino al molo. Alcune arrivano direttamente sulla spiaggia. Il centro di prima accoglienza di contrada Imbriacola è diventato nel 2015 un hotspot, cioè un centro per l’identificazione dei migranti appena arrivati, e nel marzo del 2018 è stato parzialmente chiuso per avviare i lavori di ristrutturazione. Oggi nel centro si trovano circa cento persone: chi arriva sull’isola ci rimane al massimo per otto giorni prima di essere trasferito sulla terraferma.
Nonostante la diminuzione degli sbarchi, nelle ultime settimane il ministro dell’interno Matteo Salvini ha molto insistito a parlare di questa rotta. I tunisini, infatti, sono il gruppo più numeroso tra i migranti arrivati in Italia tra il 1 gennaio e il 19 settembre: in totale, secondo il ministero dell’interno, si tratterebbe di 4.466 persone. Circa la metà è transitata per Lampedusa. “La rotta tunisina è una vecchissima rotta, che si è riattivata da circa un anno”, spiega Flavio Di Giacomo dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim).
Secondo Di Giacomo, la ripresa dell’emigrazione tunisina è dovuta principalmente al peggioramento della situazione economica nel paese nordafricano. “La guardia costiera tunisina intercetta numerose imbarcazioni e le riporta indietro, ma queste barche così piccole sono più difficili da individuare e molte sfuggono ai controlli”, aggiunge. I tunisini sono diventati il primo gruppo di migranti in Italia, da quando nel luglio del 2017 sono diminuiti gli arrivi dalla rotta del Mediterraneo centrale, che parte dalla Libia. “Le due rotte non sono alternative”, aggiunge Di Giacomo. “I migranti che non riescono più a partire dalla Libia non si sono spostati in Tunisia”.
Le persone costrette a tornare in Libia dalla guardia costiera di Tripoli sono di origine subsahariana o provengono dall’area del Corno d’Africa, e una volta riportate nel paese nordafricano rimangono intrappolate nel buco nero dei centri di detenzione. I migranti che partono dalla Tunisia, invece, sono soprattutto cittadini tunisini.
A Lampedusa, però, gli sbarchi diretti non si vedevano dal 2013, quando fu avviata la missione di ricerca e soccorso Mare nostrum, voluta dal governo italiano in seguito al naufragio del 3 ottobre di quell’anno, in cui morirono 368 migranti al largo della spiaggia dei Conigli, una delle più belle dell’isola. I mezzi militari italiani, poi sostenuti da navi di organizzazioni umanitarie, cominciarono allora a soccorrere in alto mare i migranti salpati dalle coste libiche. Tuttavia dal luglio del 2017 la rotta del Mediterraneo centrale è stata gradualmente chiusa, dopo che Roma si è impegnata con il governo di Tripoli a finanziare la guardia costiera libica per intercettare i migranti in mare e riportarli nel paese nordafricano.
Ad agosto 2018 il 42 per cento dei migranti partiti dalle coste libiche è stato fermato dalle motovedette libiche e riportato indietro. È per questo che oggi la rotta tunisina è diventata più rilevante e i tunisini sono il gruppo più consistente di migranti arrivati in Italia quest’anno. Parliamo di numeri sempre modesti, se confrontati con quelli degli anni precedenti.
Respingimenti e rimpatri
Sulla piazzetta in fondo a via Roma, seduto al tavolino di un bar, R. K., un giovane tunisino arrivato da poco a Lampedusa, racconta la sua storia a due operatori legali, Francesco Ferri e Adelaide Massimi. Qualche ora prima era uscito dall’hotspot passando dal buco nella recinzione. Tutti i migranti nel centro, lontano dall’abitato, sanno come fare. R. K. è partito da Zarzis insieme ad altre dieci persone a bordo di una piccola barca di legno, comprata grazie a una colletta con i suoi compagni. Ci sono volute ventiquattr’ore per arrivare a Lampedusa e l’orientamento di notte è stato possibile grazie a un gps.
All’arrivo, il barchino è stato avvistato dalla guardia costiera che l’ha scortato fino alla banchina. R. K. è stato portato con i suoi compagni all’hotspot, dove non gli è stata fornita nessuna informazione sui suoi diritti. In Tunisia non ha studiato perché la sua famiglia non glielo ha permesso.
Racconta di essere stato testimone di violenze diffuse e arbitrarie da parte della polizia durante il regime di Ben Ali, in particolare contro gli oppositori politici. Ma anche dopo la rivoluzione le forze dell’ordine hanno proseguito con gli arresti arbitrari e le intimidazioni. Anche per questo R. K. ha deciso di partire. Nel centro di Lampedusa nessuno l’ha informato sulla possibilità di fare richiesta d’asilo in Italia. Anche H. B., un altro tunisino di 18 anni, racconta una storia simile. A differenza del suo amico, H. B. è arrivato in maniera autonoma nel porto di Lampedusa. Un pescatore, vedendo arrivare la barca, gli ha tirato una cima dalla banchina per aiutare l’attracco e successivamente ha chiamato i carabinieri, che hanno condotto i ragazzi nell’hotspot.
“Chi guida la barca rischia di avere problemi con la polizia, ma tra di noi non ci sono trafficanti, siamo tutti migranti, i trafficanti non rischiano la vita come noi”, dice H. B. “Se hai molti soldi arrivi direttamente in Sicilia con grandi barche, senza pericoli”. Parlando delle condizioni dell’hotspot ha detto: “Il cancello principale è chiuso, ma noi usciamo da un buco nella rete. Tutti lo sanno, anche la polizia. Non possono chiuderci dentro, ma chi ha difficoltà a muoversi o chi ha bambini piccoli non può uscire dalla rete, è un po’ difficile passare”.
Il centro di accoglienza doveva chiudere a marzo del 2018, dopo un rapporto molto duro del garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma e la denuncia di diverse associazioni, ma di fatto la prefettura non l’ha svuotato: due padiglioni sono inagibili, ma una parte della struttura, con una capienza di 96 posti, è rimasta sempre attiva. “Anche per questo i migranti che arrivano nell’isola sono rapidamente trasferiti sulla terraferma, alcuni anche dopo ventiquattr’ore”, spiegano gli operatori Massimi e Ferri che stanno scrivendo un rapporto sull’hotspot per il progetto In limine di Asgi, Action Aid, Cild e IndieWatch.
“Stiamo cercando di capire se i migranti trasferiti in Sicilia sono stati portati alla questura di Agrigento oppure in un altro hotspot per essere identificati”, spiega Massimi. Secondo la ricercatrice, negli ultimi due mesi alcuni tunisini arrivati a Lampedusa sono stati trasferiti nell’hostpot di Trapani-Milo e solo lì sono stati identificati.
Quando il 14 settembre sette piccole barche, con un totale di 184 persone a bordo, hanno raggiunto l’isola, il ministro dell’interno Matteo Salvini sui social network ha promesso nuove procedure velocizzate per consentire il rimpatrio immediato dei migranti. L’Italia ha già un accordo con Tunisi che prevede la possibilità di rimpatriare 80 cittadini tunisini alla settimana con due voli. E l’annuncio di Salvini non è stato accolto bene dalle autorità tunisine, che hanno escluso procedure non previste dall’accordo vigente se non saranno concordate in un nuovo negoziato bilaterale tra i due paesi.
Di prassi i migranti tunisini che arrivano a Lampedusa e non fanno richiesta di asilo sono trasferiti a Trapani in un altro hotspot o direttamente all’aeroporto di Palermo, per essere rimpatriati con dei voli charter dopo aver incontrato il console tunisino Abderrahman Ben Mansour.
Adelaide Massimi spiega che i tunisini ospiti dell’hotspot di Lampedusa non sono informati dei loro diritti e del loro destino fino a quando non sono dichiarati da espellere e immediatamente trasferiti a Porto Empedocle e poi all’hotspot di Trapani con un provvedimento di respingimento differito. “Dal punto di vista giuridico siamo preoccupati del fatto che molti ricevono un provvedimento di respingimento differito senza che siano valutate le possibili cause di inespellibilità e senza che il loro caso sia esaminato con la dovuta attenzione”, afferma Francesco Ferri di Asgi che ha analizzato nel complesso un totale di duecento casi a partire dall’aprile del 2018.
“Una persona che non fa richiesta di asilo, potrebbe avere comunque diritto a un permesso di soggiorno in Italia e potrebbe non essere espellibile. Ma al momento manca una valutazione caso per caso”, continua Ferri. Inoltre, secondo l’operatore legale, il provvedimento di respingimento differito viene usato spesso al posto del provvedimento di espulsione, perché non necessita della convalida da parte di un’autorità giudiziaria. Se fossero usati i provvedimenti di espulsione, le persone dovrebbero essere trasferite in luoghi idonei come i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e sarebbe necessaria la convalida di un giudice. Un’altra anomalia registrata è l’uso dell’hotspot di Trapani come luogo di detenzione e non d’identificazione. “Abbiamo riscontrato il caso di tunisini identificati a Lampedusa e che sono stati considerati da espellere, quindi trasferiti a Trapani e lì trattenuti anche se già identificati nell’hotspot di Lampedusa. Questa è un’anomalia perché gli hotspot non sono strutture di detenzione per il rimpatrio”, afferma Massimi.
Quelli che non sono rimpatriati subito ricevono un foglio di via valido sette giorni con cui gli viene intimato di allontanarsi dal territorio italiano. “Molti di loro pensano che sia un lasciapassare e non un’espulsione e con quello in mano si avviano verso la stazione ferroviaria più vicina dove di solito prendono il primo treno per la Francia”, conclude la ricercatrice.
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