I migranti rischiano la vita attraverso le Alpi
Porta sulle spalle una grossa sacca di tela verde che lo costringe a camminare con la schiena piegata. Ha le gambe sottili e un cappello nero che gli protegge la fronte dal freddo. Un cappotto più grande della sua taglia lo avvolge fino alle ginocchia. Il termometro segna meno otto gradi, quando Tidiane Ouattara scende dal treno che arriva da Torino.
Alla stazione di Oulx, in val di Susa, Ouattara, l’ivoriano, si accoda ai pendolari che tornano a casa dal lavoro, ma poi mentre tutti rapidamente scompaiono, rimane da solo fino a quando lo raggiungono di corsa due amici: Camara e Ousmane. Tutti e tre indossano diversi strati di vestiti, ma tremano dal freddo. Sono le 18.30 ed è già notte nella stazione di frontiera.
Camara, il guineano, non passa inosservato: ha un cappello di lana bianco, rosso e verde, i colori della bandiera italiana, e un giubbotto mimetico. Da qualche giorno lo hanno dimesso dal centro di accoglienza in cui viveva a Rovigo. Dopo un anno e mezzo di attesa, non ha ottenuto l’asilo ed è diventato irregolare. “Sono scappato dal mio paese a 16 anni per ragioni familiari, non per questioni politiche, né dalla guerra. Per quelli come me non ci sono permessi di soggiorno”, mi racconta con amarezza, seduto sulle panchine di legno della sala d’attesa della stazione.
Poi continua: “Non conosco nessuno in Italia, l’unico lavoro che ho trovato in un anno e mezzo è stato raccogliere l’aglio per pochi euro all’ora nei campi intorno a Rovigo. Non voglio vivere per strada e così proverò ad andare in Francia dove mi aspetta un amico”. Il suo nome è Ibrahim, ma tutti lo chiamano per cognome, Camara. Dei tre è il più giovane e il più espansivo.
Il gioco dell’oca
Ousmane Touré ha la storia più travagliata. Ha gli occhi stanchi e l’aria di uno che non ha più nulla da perdere: ha passato gli ultimi anni della sua vita ad attraversare la frontiera, ma è sempre stato rimandato indietro. Qualcuno al posto suo avrebbe desistito e invece sembra che gli sia venuta una specie di malattia: continua a provare l’impresa senza paura di essere preso, senza il timore del fallimento. C’è una specie di accanimento indolente in quelli come lui: accettare di fermarsi in Italia significherebbe aver sprecato gli ultimi anni della sua vita.
Touré è arrivato in Italia dalla Libia nell’estate del 2017, è stato soccorso in mare e portato a Crotone; è stato un mese in un centro di accoglienza a Roccella Ionica, in Calabria, ma non ha mai fatto domanda d’asilo. Voleva andare in Francia. Una mattina è scappato dal centro e ha preso il primo treno per Ventimiglia. “Sono della Costa d’Avorio, parlo francese, per me è naturale andare in Francia. I francesi ci hanno colonizzato, ma ora non ci lasciano entrare nel loro paese”.
L’ivoriano ha vissuto sotto il cavalcavia di Ventimiglia per due mesi nell’autunno del 2017. Fermato e respinto dalla polizia francese decine di volte, ha deciso di cambiare rotta. “Una volta ero riuscito ad arrivare fino a Marsiglia in treno, pensavo finalmente di avercela fatta e invece la polizia mi ha fermato e mi ha riportato indietro”. Dopo due mesi di buchi nell’acqua, ha deciso di provare ad attraversare il confine da Bardonecchia, percorrendo il sentiero che porta al Colle della Scala: cinquecento metri di dislivello, sette ore di cammino nel pieno dell’inverno.
“A scuola abbiamo studiato cosa sono le montagne, abbiamo visto qualche montagna in televisione. Ma camminare in montagna è difficilissimo, cammini due metri e ti fermi per quanto è faticoso”, mi racconta il ragazzo, guardando la neve dalla finestra della stazione. Touré è riuscito a raggiungere Briançon, in Francia, e poi Parigi. Ha vissuto qualche mese da un amico a Saint-Denis, un comune nell’area metropolitana della capitale francese, facendo dei lavoretti.
Poi un giorno la polizia l’ha fermato e ha controllato i suoi documenti, stabilendo che il ragazzo era entrato in Francia illegalmente dall’Italia e che doveva essere sottoposto alla “procedura Dublino”, cioè essere riportato oltreconfine nel paese di primo ingresso in Europa. “Allo sbarco in Italia avevo lasciato le mie impronte digitali, come è obbligatorio fare. Ma non avevo fatto richiesta di asilo perché avrei voluto farla in Francia, ma non me lo hanno permesso”, spiega Touré.
Il ragazzo ivoriano allora è scappato in Austria, ma è stato espulso di nuovo. Si è ritrovato infine al punto di partenza, a Milano. Dopo qualche settimana in Italia, ha deciso di rimettersi in marcia e di provare ad attraversare la frontiera francese. Ouattara vuole seguirlo perché aspetta da un anno e mezzo di essere ascoltato dalla commissione territoriale che deve decidere se concedergli l’asilo. “Un anno e mezzo senza sapere quale sarà il mio destino e ora con la nuova legge sull’immigrazione ho paura, il clima è cambiato in Italia”, spiega. “Arriverà un giorno che Salvini ci porterà tutti alla frontiera”.
Ouattara ha lasciato un figlio di sette anni in Costa d’Avorio e desidera solo lavorare per mandare un po’ di soldi a casa: “Non ce la facevo più a vivere nell’attesa”. Rimettersi in marcia sembra la cosa più naturale per chi non ha trovato una sistemazione in Italia: “Il sistema di accoglienza italiano è come una lotteria, io non ho ancora capito come funziona”.
Il sentimento di paura e disorientamento è diffuso tra i richiedenti asilo che abbandonano i centri di accoglienza. Il 27 novembre l’Italia ha approvato una nuova legge sull’immigrazione voluta dal ministro dell’interno Matteo Salvini: la norma prevede tra le altre cose l’abolizione della protezione umanitaria, un forma di permesso di soggiorno che negli ultimi anni era stata concessa a migliaia di richiedenti asilo che non rientravano nella categoria di rifugiati prevista dalla convenzione di Ginevra del 1951. L’abolizione di questo tipo di permesso di soggiorno corrisponderà a un aumento considerevole degli irregolari. Secondo l’Ispi, entro il 2020, in seguito all’applicazione della nuova legge, potrebbero diventare irregolari 140mila persone, che si sommeranno alle 600mila che, secondo alcune stime, già sono presenti nel paese.
Carlotta Sami dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), in missione a Oulx, conferma: “Abbiamo osservato un aumento del sentimento di insicurezza tra i rifugiati in questo momento in Italia, soprattutto riguardo alle loro prospettive di integrazione”. Per questo molti sono spinti ad attraversare la frontiera illegalmente: “A questa situazione si aggiunge la mancata riforma del regolamento di Dublino, il sistema comune di asilo, che rende ancora più difficile la mobilità dei richiedenti asilo all’interno dell’Unione europea”. Per informare i migranti dei pericoli a cui vanno incontro sulla rotta alpina alcuni rifugiati dell’associazione Mosaico di Torino, con il coordinamento dell’Unhcr, distribuiscono volantini e uno zainetto con coperte termiche e vestiti caldi ai migranti che passano per la stazione di Porta Nuova diretti verso l’alta val di Susa.
Le ronde dei medici
Nella sala d’attesa della stazione di Oulx, Ouattara, Touré e Camara incontrano due volontari italiani. A turno, tutte le sere i volontari presidiano la stazione, alcuni arrivano da Torino, altri dai paesi della valle. Silvia Massara è un’insegnante di francese di Bardonecchia, ha cominciato a fare la volontaria nell’inverno del 2018, quando la rotta alpina dei migranti passava da Bardonecchia, ma ora, da quando la stazione più battuta è diventata quella di Oulx, scende a valle quasi ogni sera per dare una mano.
Si tratta di accogliere i migranti alla stazione, distribuire i vestiti e gli scarponi raccolti dalla rete dei volontari e infine farsi una chiacchierata con loro per spiegare i pericoli della montagna.”Danger”, c’è scritto su un volantino di carta blu che tutte le sere i volontari distribuiscono alla stazione. Le informazioni sono tradotte in diverse lingue. A Oulx ci sono due dormitori: uno gestito dai salesiani a pochi metri dalla stazione che funziona solo di notte e un altro, aperto anche di giorno, gestito dagli attivisti no border, in una casa cantoniera occupata.
Nel 2018 circa cinquemila persone hanno attraversato la frontiera italofrancese passando da Bardonecchia e dal Colle della Scala, mentre almeno tre persone sono morte lungo la traversata a causa dell’ipotermia o perché si sono perse o sono cadute in un crepaccio. Da qualche mese il valico del Colle della Scala sembra meno frequentato dai migranti, nonostante ci sia meno neve rispetto all’anno passato. Invece ogni notte tra le dieci e le quindici persone sono soccorse sui sentieri che collegano Claviere, in Italia, al valico del Monginevro, in Francia. “È tutto molto imponderabile: certi giorni non arriva nessuno, mentre certe notti ospitiamo anche quindici ragazzi nel dormitorio dei salesiani”, afferma Massara.
“L’ultimo autobus parte per Claviere alle 19.50 e tutti i migranti che arrivano da Torino con i treni successivi rimangono a dormire a Oulx. La Croce rossa e i volontari di Rainbow for Africa soccorrono ogni notte diversi migranti lungo i sentieri o prendono in carico quelli respinti dalla polizia di frontiera francese”, continua Massara. Rispetto all’anno scorso è cambiata la rotta e sono cambiati i paesi di origine dei migranti.
“In questo periodo, un anno fa, i migranti cercavano di passare soprattutto dal Colle della Scala, un valico dietro Bardonecchia e che collega l’Italia con la Francia. Adesso passano soprattutto dal Monginevro, che è sicuramente meno impegnativo dal punto di vista alpinistico, ma più soggetto ai controlli della polizia francese, e questo spinge i ragazzi a intraprendere sentieri più remoti per sfuggire ai controlli e a perdersi più facilmente”, spiega Paolo Narcisi, medico fondatore dell’ong Rainbow for Africa.
“Ci sono persone che arrivano dall’Africa occidentale, dall’Africa subsahariana, a cui si sono aggiunti pachistani, bangladesi, curdi, siriani, afgani, perfino persone che arrivano dalle repubbliche ex sovietiche”, continua Narcisi. “Lo scorso anno i migranti volevano raggiungere amici e parenti in Francia, ora scappano dall’Italia perché hanno paura di perdere la protezione umanitaria e diventare irregolari”, conclude.
Ouattara, Touré e Camara seguono i volontari nel dormitorio dei salesiani dove troveranno un pasto caldo, una doccia e un letto. Ma mentre si stanno già preparando per andare a dormire, arrivano nel cortile della struttura due camioncini della Croce rossa. Scendono sei ragazzi che sono stati respinti dalla polizia francese alla frontiera nel mezzo della notte. Hanno facce distrutte, si trascinano a testa bassa al primo piano dove i volontari cucinano per loro un piatto di pasta al sugo.
Nel mese di dicembre abbiamo assistito in tutto 250 persone
“Ce li ha appena consegnati la polizia italiana dopo aver fatto i soliti controlli, sono stati presi dalla polizia francese lungo i sentieri e rimandati indietro. Sono stanchi e provati”, racconta Michele Belmondo, un operatore della Croce rossa. “Nel mese di dicembre abbiamo assistito in tutto 250 persone, ma la totalità del fenomeno sfugge al nostro monitoraggio, perché alcuni migranti riescono a passare senza chiamare i soccorsi o senza essere intercettati dalla polizia francese”, continua Belmondo, che conferma di aver partecipato al soccorso di alcuni migranti che si erano persi all’inizio di dicembre.
“Cinque giorni fa un ragazzo ha raccontato che la polizia francese lo ha inseguito nei boschi con i cani, lui si è nascosto nella neve ed è rimasto per ore al freddo prima di essere soccorso da alcuni passanti che l’hanno portato all’ospedale. Aveva un principio di congelamento agli arti”, racconta Davide Rostan, pastore valdese della chiesa di Susa e volontario della rete Briser les frontières.
“La violazione più grossa che abbiamo riscontrato da parte della polizia francese è il respingimento di minori stranieri non accompagnati e in generale il respingimento di gruppi di persone alla frontiera”, continua Rostan. “Non viene data loro la possibilità di presentare la domanda di asilo in Francia”.
Il camper di Rainbow for Africa da un paio di settimane è attivo in supporto alla Croce rossa. Tutte le notti un medico, una volontaria e l’autista fanno la spola tra la stazione di Oulx, il dormitorio dei salesiani e il valico di Claviere. “Di solito i ragazzi presentano sintomi d’ipotermia, perché non sono attrezzati per questo tipo di temperature. Non hanno scarpe e abiti adeguati. Alcuni presentano sintomi di congelamento agli arti, problemi respiratori, qualcuno è sotto stress”, racconta Vincenzo Spinola, uno dei medici volontari a bordo del camper.
Il caso più grave è stato quello di una ragazza incinta, malata di leucemia, che voleva andare in Francia per farsi curare. “Quando il medico di turno si è accorto della grave situazione della donna ha disposto il ricovero immediato all’ospedale di Torino, dove è stata subito portata e dove ha anche partorito”, ricorda il medico. Il caso più positivo invece è stato quello di un ragazzo che aveva un mal di denti così forte da costringerlo a rimanere qualche giorno in più in Italia. “A causa del mal di denti il ragazzo non è più partito, si è fermato in val di Susa e ha trovato lavoro come panettiere”, conclude Spinola.
La traversata
Alle 7 di mattina Ouattara, Touré e Camara sono già fuori del dormitorio: l’aria è tersa, anche se fredda. Le temperature si sono un po’ alzate e i ragazzi si sono riposati, hanno cambiato le scarpe e hanno preso qualche maglione in più dai volontari. Ouattara ha lasciato la sua valigia verde e l’ha sostituita con una borsa più comoda. Touré fuma diverse sigarette prima di partire. Io e il fotografo decidiamo di seguirli.
Alle 8.50 prendiamo il primo autobus che li porta a Claviere, la cittadina italiana a 1.760 metri di altitudine: venti minuti tra tornanti che costeggiano boschi di larici e panorami mozzafiato. Davanti alla chiesa di Claviere stazionano alcuni mezzi dell’esercito da quando il ministro dell’interno Matteo Salvini ha accusato la polizia francese di essere entrata illegalmente in territorio italiano per respingere i migranti. I tre ragazzi sono titubanti, ma poi passano davanti alle camionette militari e s’incamminano verso le piste da sci di fondo che svoltano a destra verso il Monginevro.
Il percorso è battuto, in lontananza si vede la strada statale e i mezzi della polizia italiana schierata al confine; i ragazzi rallentano, temendo di essere visti, ma continuano a marciare. Il giorno precedente a Monginevro c’è stata una manifestazione per chiedere l’assoluzione di alcuni volontari francesi che l’anno scorso hanno aiutato i migranti e sono stati accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. C’è molta polizia in giro. “Saremo tranquilli solo quando metteremo piede nel centro di accoglienza di Briançon”, dice Ouattara. Dopo una trentina di minuti di cammino arriviamo in Francia, le case di Monginevro si vedono a valle.
Comincia la parte più impegnativa, i ragazzi sanno che i sentieri sono presidiati dalla polizia francese in motoslitta e sono consapevoli che scendere in paese e chiedere un passaggio in pieno giorno o prendere un autobus potrebbe essere altrettanto rischioso. Per questo la maggior parte dei migranti cammina su questi sentieri di notte. Poco prima di arrivare in paese, in una strettoia tra gli alberi qualcuno ha abbandonato in fretta dei vestiti, lamette per la barba, guanti.
Costeggiamo il bosco, superiamo un laghetto ghiacciato e poi sulla sinistra la strada comincia a incrociare le piste da sci. Gli sciatori sono pochi, scendono a piccoli gruppi e sembrano non fare caso ai ragazzi che rimangono al margine della pista. I tre si fermano, non sanno se salire verso la montagna dove un cartello indica “Collet Vert”, oppure seguire la pista che scende verso il paese.
Decidono di separarsi e scendere individualmente, dandosi un po’ di distanza, sperando d’incrociare il sentiero che porta a Briançon. Una volta arrivati alla base di una seggiovia sono ancora tentati di seguire la pista che scende. Poi chiedono a uno sciatore: “Per Briançon?”. “Dovete salire sopra al rifugio, da lì comincia un sentiero che in un’ora vi porta a destinazione”, risponde l’uomo.
I ragazzi prendono la salita, noi li seguiamo. Incrociamo diversi sciatori con lo skilift, lasciamo gli impianti di risalita alle spalle, il bosco diventa più fitto e la strada meno battuta. Touré inciampa e cade, gli altri due scoppiano a ridere, una risata liberatoria allenta la tensione che fino a quel momento era stata molto alta.
Riprendiamo a camminare, superiamo un vecchio rifugio in cemento armato, la strada ha una biforcazione. A monte si sente il rumore di una motoslitta sulla strada. I ragazzi corrono tra gli alberi a nascondersi. Aspettano qualche minuto, ma sembra tutto tranquillo. Quindi lentamente escono sul sentiero e ci rimettiamo a camminare. Superata la salita, si sente di nuovo il rumore della motoslitta che proviene dall’alto. Si ferma all’incrocio, i ragazzi corrono a nascondersi. Io e il fotografo continuiamo sul sentiero, la polizia ci saluta e ci chiede dove stiamo andando. “A Briançon”, rispondiamo. “Uh, da qui è lunga, almeno un’altra ora”. I gendarmi ci salutano e scendono con la motoslitta lungo il sentiero.
Camara comincia a correre in mezzo alla neve, ma affonda. I gendarmi si mettono a ridere e gli dicono di scendere e di smetterla di dimenarsi. Per i tre non c’è via di fuga, gli alberi sono troppo radi e la collina troppo in salita. “Perché ci respingete? Noi non abbiamo respinto Charles De Gaulle quando è venuto in Guinea…”, scherza Camara. “Dovete ringraziare lo sciatore a cui avete chiesto indicazioni, è stato lui a chiamarci”, svelano i gendarmi, mentre scortano i tre ragazzi a valle e poi fino al confine italiano.
Questo reportage fa parte del progetto [“Checkpoint: storie di frontiere tra Sahel ed Europa” - “Frame, Voice, Report”](Dopo l), cofinanziato dall’Unione europea, Consorzio ong Piemonte, promosso da Rainbow for Africa e cooperativa Orso, in collaborazione con Engim Internazionale, Radio Beckwith evangelica, Border radio.
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