La borgata ribelle di Roma dimenticata dalla storia
Come ogni mattina aveva aperto gli scuri della finestra di casa sua: aveva sette anni e quattro mesi. Sette anni e quattro mesi, ripete ricordando quel giorno di 75 anni fa quando le truppe dell’esercito tedesco, la Wehrmacht, circondarono la palazzina di via degli Arvali, al Quadraro, il quartiere di Roma dove Vanda Prosperi viveva con i suoi cinque fratelli e i suoi genitori. “Ho visto una sfilza di soldati tedeschi schierati con i fucili spianati”, racconta. “Ho gridato ‘Mamma, vieni’”. Ma un manipolo era già alla porta. Il padre di Vanda – Vittorio – si stava preparando per andare a lavorare nella ditta di costruzioni che dirigeva. I soldati lo sorpresero proprio mentre usciva dal bagno, gli puntarono i fucili al petto intimandogli di seguirli.
Alla madre di Vanda consegnarono un foglietto in cui era scritto che aveva dieci minuti per preparare una gavetta con il cibo, qualche vestito di ricambio, tutto in un fagotto. Lo spinsero giù dalle scale insieme agli altri uomini del palazzo e lo caricarono su un carretto. La moglie gli corse dietro con Vanda attaccata alla gonna. “Quando vedi una scena così – ti strappano tuo padre dalle braccia, gli puntano dei fucili addosso e se lo portano via – non te ne dimentichi più”, racconta Prosperi che oggi ha 84 anni ed è una delle ultime testimoni oculari del rastrellamento del Quadraro, avvenuto il 17 aprile 1944, una delle pagine più nere dell’occupazione nazista di Roma. È stato il secondo rastrellamento per numero di arrestati dopo quello del ghetto ebraico, ed è avvenuto poco più di tre settimane dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Era cominciato alle 5 di mattina, un lunedì. “Il giorno prima eravamo andati a un matrimonio a Tor Fiscale e avevamo pensato di fermarci a dormire lì, ma poi invece siamo tornati al Quadraro, perché papà doveva andare a lavorare il giorno appresso”. Tutti gli uomini e i ragazzi della borgata nella zona sudest della capitale – in tutto 947 persone, secondo alcune ricostruzioni – furono fatti salire su dei camion, portati prima al cinema Quadraro su via Tuscolana, dove li identificarono e li schedarono, poi furono tenuti prigionieri per alcuni giorni a Cinecittà. Infine trasferiti con i treni a Terni e al campo di transito di Fossoli, vicino a Modena. Da lì nel nord della Germania, dove furono “comprati” da imprenditori locali che li impiegarono nelle fabbriche chimiche e siderurgiche del terzo reich. “Gli schiavi di Hitler”, li hanno chiamati.
“Se con la mente potessi stampare una fotografia… Nella mia testa quella scena mi è rimasta impressa per tutta la vita”, racconta Prosperi, che ancora vive nel quartiere in cui è nata, in una casa bassa con un giardino che cura personalmente, qualche isolato più in là rispetto all’abitazione di quando era bambina.
“Sentivamo un rumore di passi: bum bum”, Ada Giacopetti ha 91 anni, i capelli ricci e imbiancati, batte le mani sulle gambe per riprodurre il rumore della marcia dei tedeschi che circondavano casa sua: “Bum, bum, bum”. Nella sua mente di bambina la violenza del rastrellamento, la paura per suo padre caricato sul camion con la forza, le urla delle donne si sono trasformate in un suono torvo. Allertato dai rumori, il padre di Ada l’aveva svegliata: “I tedeschi si staranno ritirando da Roma”, aveva detto.
Ma i nazisti erano già in casa, accompagnati da squadracce di fascisti: “Gli uomini ci devono seguire”, avevano intimato, facendo irruzione nella prima palazzina di via degli Arvali, subito dopo l’incrocio con via degli Angeli. “Quali uomini?”, aveva risposto il padre di Ada, che era vedovo e viveva da solo con la figlia di quattordici anni, dopo che la moglie era morta qualche anno prima. I tedeschi allora lo presero e lo spintonarono giù dalle scale. Ada lo seguì e lo vide salire sul camion, seguito dai soldati, racconta nel cortile della sua casa con le pareti rosse tra gli orti del Quadraro.
Mentre erano tutti usciti dalla palazzina e aspettavano che gli uomini salissero sul camion un sasso colpì i soldati, che spararono in direzione di una finestra con gli scuri accostati. “È da poco che abbiamo tirato fuori il bossolo che si era incastrato tra i mattoni”, racconta Giacopetti, che ha rivisto suo padre solo un anno dopo il rastrellamento. Era tornato a piedi dalla Germania, dopo la fine della guerra. “Mangiavano solo bucce di patate e cicoria che raccoglievano nei campi, hanno patito la fame”. Quando l’ha visto arrivare davanti al bar del quartiere, il bar Cafagna, si è messa a gridare e gli è corsa incontro. Aveva avuto paura di non vederlo mai più, non avevano ricevuto né lettere né notizie dalla Germania.
Il silenzio dei reduci
Il console tedesco a Roma diceva che c’erano solo due posti in cui uno poteva nascondersi durante l’occupazione nazista della capitale: “Il Vaticano e il Quadraro”. Quartiere-borgata nato a ridosso dell’aeroporto di Centocelle e degli studios di Cinecittà, tra la Casilina e la Tuscolana, il Quadraro era una specie di paese a se stante, con le sue costruzioni basse circondate da orti e campagna, abitate da commercianti, operai, muratori, artigiani, immigrati arrivati dall’Italia meridionale. Quella mattina di aprile del 1944 solo qualcuno riuscì a scappare dal rastrellamento: alcuni si nascosero dentro a una fontana, altri su un terrazzo, qualcuno sotto a un materasso, altri ancora in un tunnel sotterraneo. Una donna a cui portarono via l’unico figlio poco più che adolescente impazzì dal dolore. “Giorgio, Giorgio”, andava gridando per le vie della borgata, era convinta che Giorgio, suo figlio, si fosse perso mentre giocava. Quando Giorgio tornò dalla Germania un anno dopo trovò sua madre impazzita. “Morì in un manicomio”, racconta Prosperi.
In gran parte gli uomini del Quadraro furono arrestati e deportati: solo la metà tornarono vivi dai lavori forzati in Germania a guerra finita. Molti morirono una volta tornati a Roma, perché avevano lavorato nelle industrie chimiche tedesche e avevano inalato fumi tossici, vivendo in condizioni intollerabili. I partigiani comunisti di Bandiera rossa avevano il loro quartier generale dentro al sanatorio Ramazzini, non lontano da casa di Ada e Vanda, si fingevano malati di tubercolosi, nascondevano le armi nell’ospedale, ma dentro alla struttura sanitaria i militari dell’esercito nazista quella mattina non entrarono per paura di prendere la tubercolosi. “Mio padre è tornato dalla Germania qualche giorno prima della mia comunione, è stato il regalo più bello”, racconta Prosperi. “Aveva perso quasi tutti i capelli e i pochi che gli erano rimasti erano tutti bianchi”, dice la donna. Un anno prima aveva una folta chioma nera, ricorda.
“Non ha mai voluto raccontare a noi figli cosa era successo in Germania, erano storie di guerra, non voleva che le ascoltassimo”. Molti non raccontarono quello che era successo e la memoria della resistenza del quartiere – che già nel febbraio del 1944 si era dichiarato “borgata degli uomini liberi” – non entrò nel racconto ufficiale della resistenza romana fino alla metà degli anni ottanta. Poi una serie di avvenimenti riportò a galla i ricordi rimossi, il presidente del municipio dell’epoca, Sandro Medici, investì sul recupero della storia di questo quartiere.
Il primo a condurre una ricerca sulla base dei racconti dei sopravvissuti è stato un militante comunista, Walter De Cesaris, che al termine del suo lavoro scrisse il libro La borgata ribelle, poi vennero gli studi del circolo Gianni Bosio e quelli di Alessandro Portelli, lo spettacolo teatrale Il nido di vespe di Simona Orlando e Daniele Miglio, e quello di Ascanio Celestini, Scemo di guerra. Il padre di Celestini era originario del Quadraro e così, anche attraverso la storia della sua famiglia, l’attore e autore teatrale ha fatto conoscere i fatti dell’aprile del 1944 al grande pubblico. Nel 2004, a sessant’anni dal rastrellamento, il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì la medaglia d’oro al valor militare alla borgata, che fino a quel momento non era mai entrata nei libri di storia.
L’Operazione balena
“You are now entering free Quadraro”, c’è scritto all’angolo di un murale che rappresenta delle vespe giganti in una delle prime strade del quartiere venendo dalla Tuscolana. Poco più in là, sul Monte del Grano (nome popolare del mausoleo cosiddetto di Alessandro Severo), uno dei punti più alti della zona, è stato costruito un monumento per ricordare il rastrellamento. Il murale di vespe è stato realizzato dallo street artist Lucamaleonte nell’ambito del progetto MuRo e suggerisce una delle definizioni storiche del quartiere chiamato “il nido di vespe”.
Fu il comandante della Gestapo a Roma, il mandante dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, Herbert Kappler, a chiamarlo così perché aveva capito che era una delle zone più attive dal punto di vista militare sul fronte della resistenza. Kappler ordinò il rastrellamento del quartiere, che sorge lungo la via Tuscolana, vicino alla ferrovia, a uno dei comandi militari tedeschi, perché temeva che l’esercito nazista avrebbe potuto trovarsi stretto tra due fronti: da una parte quello meridionale con l’avanzata delle truppe alleate e dall’altra un fronte interno con l’insurrezione di un quartiere che aveva dimostrato una grande capacità sovversiva nei mesi dell’occupazione. L’azione fu soprannominata Operazione balena.
Ufficialmente il comunicato emesso dal comando tedesco all’indomani del rastrellamento spiegava che l’azione era una rappresaglia per punire l’ultima azione del famoso “gobbo del Quarticciolo”, il soprannome di Giuseppe Albano, un leggendario personaggio della resistenza romana, un bandito, autore di numerose azioni di guerriglia e sabotaggio capaci di mettere in difficoltà le milizie occupanti. Il 10 aprile, infatti, Albano – insieme a due ragazzi del Quadraro, Giovanni Ricci, detto il cinese e Franco Basilotta – aveva ucciso tre soldati nazisti all’osteria di Giggetto sulla via Tuscolana, il giorno di Pasquetta. Lo scontro a fuoco nell’osteria era avvenuto quasi per caso, ma tutti temevano, pochi giorni dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, che i tedeschi avrebbero reagito con nuove azioni di rappresaglia.
“Il motivo del rastrellamento non è stato tanto l’uccisione dei tre tedeschi, a Roma infatti morivano soldati tedeschi tutti i giorni. Il vero motivo è che i nazisti volevano colpire il Quadraro, che era un importante snodo per la resistenza romana in base a diverse indagini condotte dalla polizia segreta”, spiega lo storico Riccardo Sansone. Secondo la suddivisione fatta dal Comitato di liberazione nazionale (Cnl), il Quadraro faceva parte dell’ottava zona (insieme al Pigneto, al Quarticciolo, a Centocelle, alla Certosa). Ogni zona aveva un comandante militare e un commissario politico e c’era un forte coordinamento tra le diverse formazioni politiche attive. Al Quadraro erano presenti il Partito comunista clandestino, il Partito socialista dell’unità proletaria (che aveva la sua base proprio nella casa dell’imprenditore Gioacchino Basilotta), il Partito d’azione e il Fronte militare clandestino.
“È vero che al Quadraro c’erano tanti antifascisti storici, persone che erano state anche mandate al confino, che avevano subìto purghe e persecuzioni durante il fascismo. Ma non si può comprendere fino in fondo la forza della lotta partigiana in questo quartiere se non si considera la sua dimensione locale: il fatto che il quartiere era una sorta di enclave, separato dagli altri rioni da prati e spazi verdi. Questo aveva creato dei rapporti molto stretti tra le persone, anche se non appartenevano allo stesso partito. I preti che partecipavano alla resistenza, per esempio, collaborarono assiduamente con i comunisti di Bandiera rossa che erano nascosti dentro all’ospedale Ramazzini”, spiega Sansone. Inoltre anche molte frange della polizia e dei carabinieri avevano cominciato a collaborare con i partigiani.
Dopo l’8 settembre 1943 c’era stata una saldatura tra diversi strati della società, contro un nemico comune: l’occupante nazista. “Un episodio chiave tra Casilina e Tuscolana fu quando i tedeschi spararono contro i granatieri di Sardegna, dopo l’armistizio, davanti agli occhi dei cittadini. Molti al Quadraro divennero partigiani in seguito a quell’episodio”, racconta Sansone. “I carabinieri del Quadraro per esempio evitarono la deportazione, entrarono in clandestinità e si unirono alla lotta partigiana. Non c’erano solo gli antifascisti storici, al Quadraro abbiamo assistito a una collaborazione molto efficace tra diversi attori”.
Poco più di un mese dopo l’Operazione balena Roma fu liberata dagli alleati: tra i quasi mille deportati c’erano molti partigiani, ma le bande della resistenza del Quadraro non furono distrutte e continuarono a operare fino alla liberazione, il 5 giugno 1944. Tra loro c’erano soprattutto operai edili, artigiani, braccianti, persone comuni: anche per questo motivo forse la storia della resistenza in questo quartiere di periferia è stata ancora poco raccontata.
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