Le ragioni dell’avanzata della destra nelle Marche
“Quando sono venuto a vivere nelle Marche questa zona era considerata la Svizzera italiana, il lavoro non mancava, si viveva benissimo. Se non ti andava bene come ti trattavano in una fabbrica, si faceva presto a cambiare lavoro”. Dario Passeretti è un operaio di 59 anni che si è trasferito a Fabriano da Roma nel 1994. “Ora di quell’Eldorado non è rimasto che il ricordo”, afferma.
Nella capitale, Passeretti faceva il facchino e, dopo un periodo di precariato, era rimasto disoccupato, così, seguendo il suggerimento di un amico, aveva provato a cercare lavoro come operaio in una delle fabbriche di elettrodomestici della cittadina marchigiana, considerata fino agli anni novanta una delle zone metalmeccaniche più ricche d’Europa. “Trovai lavoro in due giorni”, ricorda.
La crisi industriale decennale di uno dei territori meno raccontati dai mezzi d’informazione italiani è una delle cause del malessere che alle elezioni regionali del 20-21 settembre potrebbe portare alla vittoria della destra, in una regione governata per 27 anni dal centrosinistra. Secondo i sondaggi, infatti, il candidato di Fratelli d’Italia Francesco Acquaroli, appoggiato da tutto il centrodestra, è in netto vantaggio sul candidato del Partito democratico, il sindaco di Senigallia, Maurizio Mangialardi. La destra sembra essere particolarmente forte nelle aree più colpite dal terremoto del 2016 e dalla crisi economica, come la provincia di Macerata, quella di Fermo e di Ascoli Piceno.
Alle elezioni europee del 2019 la Lega di Matteo Salvini era già diventata il primo partito della regione con il 38 per cento dei consensi. A Fabriano, amministrata dai cinquestelle dal 2017, il partito di Salvini aveva ottenuto nel 2019 il 35,5 per cento dei voti e Fratelli d’Italia il 5,8 per cento, ma in alcune aree come la provincia di Macerata era arrivata a raccogliere il 41 per cento dei consensi.
Disoccupazione e spopolamento
Per quindici anni Passeretti ha lavorato in una catena di montaggio alla Ardo di Antonio Merloni, un’azienda che produceva lavatrici e asciugatrici. Guadagnava circa 1.300 euro al mese e aveva un contratto a tempo indeterminato. “L’unico problema che avevamo era come spendere i soldi”, racconta l’operaio. Poi nel 2005 l’azienda, che contava quattromila dipendenti in diversi stabilimenti in tutta Europa, ha cominciato a dare i primi segnali di crisi.
“Non era più competitiva sul mercato internazionale e cominciò a produrre in perdita, accumulando debiti”, continua l’operaio. Nel 2008 l’azienda, a conduzione familiare, fu travolta dalla crisi economica, costretta a chiudere alcuni stabilimenti e ad avviare un procedimento di amministrazione straordinaria, perché aveva contratto debiti per 543,3 milioni di euro.
“Una mattina siamo andati in fabbrica e abbiamo trovato i cancelli chiusi”, continua l’operaio. Dopo tre anni di commissariamento, l’azienda fu rilevata nel 2011 da un imprenditore locale, Giovanni Porcarelli, che assorbì 700 lavoratori della ex Merloni e acquisì tre stabilimenti tra Marche e Umbria. Ma le traversie dell’azienda non finirono, le banche infatti contestarono l’acquisto da parte di Porcarelli e portarono il caso in tribunale. Dopo un lungo iter giudiziario, la cassazione confermò la legittimità dell’acquisto, ma il destino della fabbrica era ormai segnato.
La crisi sanitaria dovuta alla pandemia di coronavirus ha aggravato la situazione e ad agosto l’imprenditore marchigiano ha cambiato il nome all’azienda, diventata Indelfab, e ha annunciato il licenziamento per tutti i 584 lavoratori. Per Passeretti e i suoi colleghi è stata una doccia fredda: “La maggior parte di noi ha vissuto negli ultimi anni con la cassa integrazione, siamo tutti iscritti alle agenzie interinali e in cerca di nuovi lavori, ma da queste parti il lavoro non si trova più come un tempo e abbiamo tutti più di 55 anni”, spiega Passeretti.
Quella della ex Merloni è solo la più nota delle crisi industriali che a partire dal 2008 hanno prodotto seimila disoccupati in una città di 30mila abitanti. “Un tempo le strade di Fabriano erano intasate di camion che portavano via la merce, soprattutto elettrodomestici, ora moltissimi stabilimenti sono chiusi e abbandonati”, conferma Pierpaolo Pullini, segretario della Fiom-Cgil di Fabriano.
“Oggi quando arrivi a Fabriano c’è una sensazione di abbandono e di depressione, anche se il territorio ospita ancora fabbriche con un fatturato importante come Whirlpool, Faber, Elica”. Per Pullini questo è il risultato di un modello industriale in cui lo sviluppo del territorio è stato legato indissolubilmente ad alcune grosse aziende a conduzione familiare, che ricevevano aiuti anche dalla politica. Quando il modello è entrato in crisi, il territorio non ha saputo reagire. “Molti degli operai rimasti disoccupati hanno una bassa specializzazione e sono avanti con l’età, quindi è più difficile ricollocarli”.
Un sistema al tramonto
La ricercatrice Nicia Pagnani spiega che l’alto tasso di disoccupazione insieme a un aumento dello spopolamento sono le caratteristiche di un’area che è stata caratterizzata dal modello industriale della “metalmezzadria”. Dopo la guerra, alcuni imprenditori locali, come i Merloni, fecero affari e s’imposero con le loro aziende al livello nazionale e internazionale impiegando intere famiglie di mezzadri marchigiani che lasciarono l’agricoltura per la fabbrica, riproducendo lo stesso modello sociale all’interno delle aziende. L’entrata in crisi di questo modello, che non ha retto alla globalizzazione, a partire dagli anni duemila ha gradualmente svuotato il territorio.
“Gli operai temono per il loro futuro e vedono che i loro figli sono costretti a emigrare. Chi parte per studiare, non ritorna. I servizi e le infrastrutture, che erano legati alle fabbriche sono gradualmente peggiorati”, continua Pagnani. È stata interrotta la costruzione di strade e nuovi servizi, è stato chiuso il punto nascita in una zona che si percepisce sempre di più come isolata e abbandonata. “Fabriano è stata per anni la capitale morale delle Marche, con i Merloni, gli Olivetti”, spiega il giornalista Mario Di Vito.
“Tutta la classe dirigente marchigiana veniva da lì fino al 2015. Gian Mario Spacca che è stato presidente di regione per tre legislature è di Fabriano, è un uomo dei Merloni, viene dalla Fondazione Olivetti. Poi nel 2015 il centrosinistra ha deciso di puntare su Pesaro, dove la componente post-comunista era più forte. Ma di fatto quel sistema di potere che ha governato per decenni la regione è entrato in crisi senza riuscire a trovare vie d’uscita”, continua il giornalista.
Ma quella di Fabriano è solo una delle zone in crisi. La stessa sorte hanno avuto le zone di Fermo, Montegiorgio, Montegranaro, Porto Sant’Elpidio, Civitanova Marche e i comuni di Tolentino e Corridonia, in provincia di Fermo e Macerata. E poi il Tronto, nella provincia di Ascoli Piceno. “La provincia di Ascoli fino a qualche anno fa era quella con i salari più bassi d’Italia, anche se erano presenti dei colossi dell’industria multinazionale. Ma dal 2008 nel sud della regione si sono persi migliaia di posti di lavoro”, spiega Di Vito.
Per Eleonora Cutrini, docente di economia all’università di Macerata, la regione è di fronte a un processo di vera e propria deindustrializzazione. “L’economia marchigiana è basata su un modello distrettuale di piccole e medie imprese, altamente specializzate, che hanno risentito molto della crisi del 2008 e che in alcuni casi non hanno retto l’impatto della globalizzazione”, spiega Cutrini.
“Le caratteristiche di agglomerazione delle imprese e d’interconnessione su base locale, che fino agli anni novanta erano state una forza per il modello marchigiano, sono diventate una debolezza, perché la crisi economica che ha colpito dapprima alcuni comparti della manifattura ha poi avuto un effetto domino su tutto il territorio”. Inoltre, la crisi industriale è andata di pari passo con la crisi finanziaria di Banca Marche, le difficoltà degli imprenditori hanno trascinato con sé anche i piccoli risparmiatori.
“Il sistema bancario, che era a sostegno delle piccole e medie imprese, si è notevolmente indebolito dopo la crisi, con delle conseguenze sui risparmi delle famiglie”, continua Cutrini. Un altro elemento che spiega la crisi del sistema industriale è il “l’impianto familistico delle imprese marchigiane, che non hanno saputo gestire in molti casi il ricambio generazionale, né hanno saputo inserire dirigenti, al di fuori delle famiglie, capaci di portare innovazione”. Ma per l’economista quello che manca è una visione di futuro, sia da parte degli imprenditori, sia da parte della politica.
Le divisioni di Macerata
Il lavoro, insieme alla sanità e alla gestione del terremoto, è stato uno dei temi su cui si è giocata la campagna elettorale per le regionali, che ha visto scendere in campo i leader dei partiti nazionali al fianco dei candidati governatori. Il centrosinistra si è presentato diviso: oltre a Mangialardi, appoggiato dal Partito democratico e da Italia Viva, si sono presentati per la presidenza della regione altri due candidati di sinistra: Roberto Mancini, docente di filosofia teoretica a Macerata ed esponente della lista civica Dipende da noi, e il segretario regionale del Partito comunista, Fabio Pasquinelli. I cinquestelle hanno presentato invece un loro candidato, il consigliere comunale di Tolentino Gian Mario Mercorelli. Mentre l’ex sindaco di Potenza Picena Francesco Acquaroli è stato appoggiato da tutto il centrodestra.
Acquaroli, 46 anni, deputato, un passato da militante del Fronte della gioventù, è il delfino di Giorgia Meloni, che ha accompagnato personalmente il candidato in diversi comizi, da Macerata ad Ancona, dove si è chiusa la campagna elettorale il 17 settembre. “Sogno per l’Italia un futuro nel segno del lavoro e della ricchezza”, ha detto Meloni dal palco di piazza Mazzini, a Macerata, lo stesso sul quale era intervenuto Matteo Salvini qualche giorno prima. “In qualche momento abbiamo pensato che la vera sfida fosse tra Salvini e Meloni”, confessa Federica Nardi, cronista del giornale locale Cronache maceratesi. “Erano tutti preoccupati di capire se fosse più affollata la piazza di Meloni o quella di Salvini, sintomo quasi di una competizione tutta interna alla destra”.
La scrittrice Silvia Ballestra spiega che la nuova classe dirigente della destra marchigiana in molti casi sembra spuntata dal nulla: “Un po’ vengono da Forza Italia, un po’ dai partiti della destra, ma anche nel caso di Acquaroli erano già stati presentati in passato e avevano perso. Ora stanno facendo campagna elettorale con i leader nazionali. Sui cartelloni pubblicitari l’immagine di Acquaroli è affiancata da quella della Meloni”.
Oltre al lavoro, i temi che imbarazzano il centrosinistra sono soprattutto il terremoto e la gestione della sanità: “Sul terremoto ci sono grosse responsabilità politiche e l’impressione è che negli ultimi quattro anni non è stato fatto granché per la ricostruzione. Sulla sanità con la pandemia sono emerse molte contraddizioni: sono stati chiusi tredici ospedali e sono stati tagliati decine di posti letto a partire dal 2010. Poi c’è stata la vicenda del commissario straordinario Bertolaso e dell’ospedale covid a Civitanova, in cui ci sono stati pochissimi ricoveri e una spesa di 18 milioni di euro”, spiega Mario Di Vito. In generale, continua Silvia Ballestra, “il sud delle Marche si sente più trascurato rispetto al nord, tutte le politiche negli anni si sono concentrate nella parte settentrionale della regione”. Per la scrittrice, il governatore uscente paga la sua assenza sulla ricostruzione dopo il sisma e poi il suo presenzialismo durante la pandemia.
Ma la destra ha calcato la mano soprattutto sul tema dell’immigrazione, in un luogo diventato il simbolo del razzismo nella storia recente della regione e del paese, scenario della tentata strage ai danni di alcuni immigrati compiuta dal neofascista Luca Traini nel febbraio del 2018, a un mese dalle elezioni politiche nazionali. Anche in quell’occasione la destra ebbe una posizione netta contro gli immigrati, mentre il centrosinistra si divise tra chi condannò l’attacco di Traini e scese in piazza per esprimere solidarietà alle vittime e chi esitò a esprimere una posizione, per il timore di perdere consensi.
A due anni da quella vicenda, le divisioni sembrano essersi approfondite nel centrosinistra a vantaggio del candidato della destra, che non nasconde di aver partecipato nell’ottobre del 2019 a una cena organizzata da Fratelli d’Italia per commemorare Benito Mussolini e la marcia su Roma ad Acquasanta Terme, in provincia di Ascoli Piceno, a pochi chilometri di distanza da dove, nel marzo 1944, nazisti e fascisti trucidarono 42 persone, tra cui una bambina di undici mesi.
“Le divisioni che si sono consumate a Macerata nel 2018 non si sono più ricomposte. Il centrosinistra non è stato capace di affrontarle sia dal punto vista culturale sia dal punto di vista politico. Nel 2018 il Partito democratico cercò in tutti i modi di impedire la manifestazione antifascista a Macerata, ebbe una posizione molto ambigua, incomprensibile per la base e per i militanti. Traini sparò anche contro una sede del Pd, ma il Pd reagì con un’immobilità che oggi è parte delle sue difficoltà”, conclude il giornalista Mario Di Vito.
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