I dimenticati di Lipa, intrappolati nel ghiaccio della Bosnia
I letti a castello arrugginiti sono ricoperti da diversi centimetri di neve: uno stormo di uccelli vola sopra alle poche cose che sono state risparmiate dall’incendio che il 23 dicembre ha distrutto il campo profughi di Lipa, in Bosnia, fino a quel momento unico riparo per un migliaio di persone respinte dalla Croazia, dalla Slovenia e dall’Italia nel corso degli ultimi mesi. Lo scheletro dei tendoni è rimasto in piedi e si staglia in una distesa di ghiaccio e nebbia lattiginosa, mentre una tempesta di neve si abbatte sui resti del campo.
I profughi, originari in gran parte del Pakistan e dell’Afghanistan, si mettono in fila per ricevere un pasto, l’unico della giornata, distribuito dalla Croce rossa locale e da alcuni volontari venuti dalla Turchia. Si riparano con quello che hanno: coperte e sciarpe. Alcuni di loro hanno ai piedi solo delle ciabatte di gomma. “Le temperature stanno scendendo sotto lo zero, la prossima settimana caleranno ancora di più ma sembra che nessuno si curi di noi”, afferma Ashfaq Ahmed, un ragazzo originario del Kashmir di 26 anni, che non è riuscito a prendere il sacchetto di cibo distribuito dagli operatori umanitari con dentro mele, yogurt e tonno.
Non era inaspettato l’arrivo dell’inverno e della neve nei Balcani, ma nonostante questo per il terzo anno consecutivo in Bosnia migliaia di migranti sono senza un alloggio, perché non ci sono abbastanza posti nei campi ufficiali. L’incendio ha distrutto il campo di Lipa nello stesso giorno in cui ne era stata annunciata la chiusura dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), l’organizzazione internazionale che lo gestiva, perché il campo era ritenuto inadeguato a ospitare delle persone. Senza acqua, senza fognature e senza elettricità.
Ma nonostante questo i migranti non sono stati trasferiti in altre strutture: chi voleva allontanarsi dopo il rogo è stato fermato dalla polizia e rimandato indietro, perché le autorità locali hanno deciso che i profughi debbano rimanere fuori dalla città di Bihać. Nel 2020 in Bosnia-Erzegovina sono transitate 16mila persone: più di diecimila sono rimaste bloccate nel paese sia per l’ulteriore chiusura delle frontiere dovuta alla crisi sanitaria sia per i respingimenti operati dai paesi confinanti, di queste solo 6.300 sono registrate nei campi ufficiali.
Dopo il rogo di Lipa, la situazione è ulteriormente peggiorata. Secondo l’Oim, l’8 gennaio circa settecento persone sono state sistemate in alcune tende riscaldate allestite in pochi giorni dall’esercito vicino al vecchio campo, mentre più di 350 persone sono state costrette a rimanere in ripari di fortuna dentro Lipa oppure in baracche di legno sparse nel bosco. Si aggiungono ad altre 2.500 persone che nel cantone di Una Sana vivono al di fuori del sistema di accoglienza, in palazzi abbandonati e in baraccopoli nella foresta. Dopo l’incendio, i profughi di Lipa hanno recuperato quello che hanno potuto: con dei teloni di plastica hanno coperto una parte dei letti a castello, hanno trasformato in dormitori perfino i container che erano destinati ai bagni e alle docce.
“Non siamo terroristi, non siamo animali, eppure siamo trattati come se lo fossimo. Senza acqua, senza elettricità, senza riscaldamento, senza poterci muovere se non a piedi”: Mohammed Yasser, pachistano originario di Gujrat, è avvolto in una coperta di lana giallognola, la indossa come fosse un mantello per ripararsi dalle temperature che sono scese sotto allo zero e dall’aria gelida che brucia la pelle del viso rimasta scoperta.
Yasser è in Bosnia da un anno e due mesi: ha provato molte volte ad attraversare i sentieri nel bosco che arrivano in Croazia, ma è sempre stato fermato dalla polizia, malmenato, derubato e riportato indietro. Non riesce a immaginarsi cosa succederà nei prossimi giorni, con la tempesta di neve quasi nessuno si avventura sui sentieri di confine: “Abbiamo fatto uno sciopero della fame all’inizio di gennaio per quattro giorni, ma non è servito a niente, qui ci sono delle persone malate, non c’è nemmeno un medico, non ci permettono di spostarci verso la città”, continua Yasser mentre mi conduce all’unica fonte di acqua del campo: una condotta che spunta dal terreno, dalla quale sgorga acqua che non potrebbe essere bevuta.
Un cartello chiarisce che non è potabile. “Noi la beviamo lo stesso, non abbiamo alternative”, continua l’uomo. Un altro ragazzo è venuto a riempire due bottiglie di plastica: metteranno l’acqua a bollire sul fuoco e poi ci faranno il tè. Sotto ai teli di plastica Yasser e gli altri hanno acceso un fuoco con la legna ricevuta da alcuni volontari, scaldano un pentolone d’acqua, un fumo nero e acre si alza dalla fiamma e rende l’aria irrespirabile. “La mia famiglia in Pakistan ha investito molti soldi per farmi arrivare in Europa, sono l’unico di loro ad aver fatto questo viaggio, non posso tornare indietro. Ma non mi sarei mai aspettato di trovarmi in questa situazione”, dice mentre si riscalda mani e piedi vicino al braciere. “I profughi hanno bisogno di tutto: coperte, sacchi a pelo, cibo. Con le temperature che stanno scendendo, la situazione è davvero difficile”, afferma Melek Sevda Mustafić, una volontaria dell’organizzazione bosniaca Mfs-Emmaus.
Il campo di Lipa sorge a venti chilometri dalla città di Bihać, nell’unico terreno messo a disposizione dalla municipalità durante l’emergenza coronavirus lo scorso aprile. Lipa, come il campo di Vučjak chiuso nel dicembre del 2019, è sempre stato considerato inadatto a ospitare un numero così alto di persone, tuttavia il 23 dicembre, giorno in cui avrebbe dovuto essere chiuso, non era ancora stata preparata un’alternativa.
“In Bosnia manca la capacità di accoglienza. Negli ultimi mesi ci sono stati diversi negoziati al livello internazionale per fare aprire nuovi centri, ma non sono andati a buon fine. Siamo nella contraddizione che a venti chilometri da Lipa c’è il campo di Bira, che potrebbe essere usato almeno temporaneamente per fare fronte a questa situazione. Il campo può ospitare più di mille persone, ma il comune di Bihać non vuole riaprirlo (dopo averlo chiuso a settembre) perché non vuole che i profughi siano accolti nel centro della città”, spiega Nicola Bay, presidente del Danish refugee council (Drc). “Ci sono persone senza riparo e centri di accoglienza chiusi, con le temperature che nelle prossime settimane scenderanno anche dieci gradi sotto zero”.
Anche a causa della pandemia di coronavirus, sono aumentati i migranti rimasti intrappolati nel paese. “C’era una proposta di aprire un centro di accoglienza a Tuzla, ma è stato bloccato sempre da parte delle autorità bosniache. I centri di Sarajevo sono sovraffollati, uno di questi è andato a fuoco l’8 gennaio. Anche se non sono mancati i finanziamenti dell’Unione europea, non c’è una strategia di lungo termine. Si va di crisi in crisi quando arriva l’inverno, non c’è mai una volontà di risolvere la situazione. Ottomila persone che stazionano in Bosnia ogni anno non sono una crisi migratoria, sono una questione che può essere gestita con un approccio razionale”, continua Bay.
Nonostante il paese sia da anni un importante snodo lungo la rotta balcanica (con 65mila persone transitate a partire dal 2018) le autorità locali hanno chiuso alcuni campi, invece di aprirne degli altri. Il 6 gennaio il portavoce dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha detto alle autorità bosniache che “devono assumersi le proprie responsabilità”. Il portavoce Peter Stano ha sottolineato che “negli ultimi due anni abbiamo fornito oltre 90 milioni di euro per centri, attrezzature, assistenza medica e sociale” e che quindi ora “abbiamo bisogno che si muovano, non che giochino con la vita delle persone”.
Ma la politica di respingimento operata dai paesi dell’Unione europea lungo la rotta balcanica ha delle conseguenze importanti sulla gestione della frontiera di paesi extraeuropei come la Bosnia. “Solo la nostra organizzazione ha registrato 15mila respingimenti da parte della polizia croata, il 60 per cento delle persone ha denunciato di aver subìto gravi violenze, abusi anche sessuali da parte di uomini in uniforme nera collegati alla polizia”, continua Bay. “Ma la verità è che la Croazia è solo il caso più eclatante, in tutta Europa quella dei respingimenti è una prassi consolidata in spregio alle leggi internazionali”.
La crisi sanitaria di coronavirus in Europa ha anche determinato un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita dei profughi in Bosnia. “Con la chiusura delle frontiere e i primi lockdown i passaggi lungo la rotta sono diminuiti”, spiega Silvia Maraone, operatrice italiana dell’Ipsia-Acli-Caritas, impegnata nei servizi di assistenza nei campi della zona. “Durante il primo lockdown le persone che provavano a fare il cosiddetto game (il tentativo di attraversare il confine) ce l’hanno fatta, perché hanno trovato meno controlli. Con le riaperture durante l’estate c’è stato un aumento dei passaggi, ma anche una crescita dei respingimenti da parte di Italia, Slovenia e Croazia, questo ha determinato una nuova pressione sulla Bosnia con l’inizio del secondo lockdown in autunno”, continua Maraone, che assicura che non ci sono stati focolai di covid-19 nei campi profughi in Bosnia, nonostante la mancanza di un sistema in grado di monitorare la situazione dal punto di vista sanitario.
“Croatia police”, ripete a ogni frase Zabiullah Khan, un afgano di 18 anni respinto a Trieste verso la Slovenia, poi in Croazia e infine abbandonato nel campo di Lipa, dove si è rifugiato con alcuni suoi compagni in una casa di legno in mezzo al bosco. Khan mostra le ferite che i manganelli della polizia croata gli hanno lasciato sui polpacci. I croati sono l’incubo che tormenta i respinti di Lipa. Per i migranti la loro brutalità è l’immagine della frontiera europea, di cui portano i segni sulla pelle. Il confine di terra più lungo dell’Unione è pattugliato dalla polizia armata di pistole, manganelli, visori notturni, termoscanner, droni. E nonostante le numerose denunce di profughi, ong, volontari e funzionari delle Nazioni Unite fin dal 2017, Bruxelles sembra insensibile alle violenze sistematiche perpetrate dalla polizia contro i profughi, rendendosene complice.
Il 20 novembre l’ufficio del difensore civico europeo ha annunciato l’apertura di un’inchiesta su possibili responsabilità della Commissione europea nel mancato rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati in Croazia. Il fascicolo è stato aperto dopo un rapporto di Amnesty international e di altre organizzazioni che operano lungo la rotta. Il difensore civico europeo si chiede come siano stati spesi i soldi versati da Bruxelles a Zagabria per la gestione dei flussi migratori e se siano stati monitorati gli abusi e le violazioni dei diritti umani da parte dei croati. Entro il 31 gennaio dovrebbe arrivare la risposta di Bruxelles, mentre Zagabria ha sempre negato ogni responsabilità.
Ma in realtà spesso si tratta di respingimenti a catena, partiti proprio dal confine italiano. Secondo un’inchiesta condotta dalla rivista Altraeconomia la polizia di frontiera di Trieste e Gorizia ha respinto 1.240 migranti e richiedenti asilo tra gennaio e metà novembre del 2020, il 420 per cento in più rispetto all’anno precedente. Diversi di loro sono stati respinti a catena da Slovenia e Croazia fino in Bosnia. L’inchiesta è stata ripresa dalla rete italiana RiVolti ai Balcani, che sta raccogliendo le denunce dei migranti lungo la rotta.
“Una volta che siamo arrivati con tanta fatica in Italia e dopo che ci hanno identificati, prendendo anche le impronte digitali, ci hanno respinti in Slovenia”, afferma Khan, che aggiunge un particolare. “L’interprete diceva che bisognava pagare 500 o 600 euro per restare in Italia, ma noi non avevamo i soldi”. Dalla Slovenia Khan è stato portato in Croazia, dove gli hanno sequestrato tutto: “Ci hanno preso i soldi, le scarpe, i vestiti, le cinture, lo zaino e ci hanno picchiati. Ci hanno portati fin qui. Ora sta nevicando, fa freddo, non abbiamo soldi, cibo, vestiti. Si sono tutti dimenticati di noi”.
Leggi anche: