L’esercito russo avanza e i profughi cercano riparo a Kiev
Il militare ha preso in braccio il piccolo Erik per attraversare il fiume Irpin e cammina spedito su una tavola di legno traballante, sotto al ponte di cemento che è stato fatto saltare dagli ucraini per fermare, o almeno rallentare, l’avanzata dei russi. L’esercito di Mosca è dall’altra parte del fiume: ha già occupato una parte di Irpin, la cittadina di sessantamila abitanti a nordovest di Kiev che è diventata la linea del fronte.
Dal ponte si sentono colpi di mortaio in lontananza e si vedono alzarsi colonne di fumo nero, mentre una lunga catena umana attraversa il fiume aiutata da volontari e militari. Il 10 marzo Kiev e Mosca si sono accordate per una nuova tregua, che ha permesso alla popolazione civile di spostarsi dalle dieci zone più colpite dal conflitto verso luoghi più sicuri, mentre nella città turca di Antalya si svolgevano dei negoziati mediati da Ankara che non hanno portato ad alcun risultato. Nei giorni precedenti, il cessate il fuoco e i corridoi umanitari non erano sempre stati rispettati, e i civili ne hanno pagato il prezzo più alto.
“Sono rimaste indietro soprattutto le persone più fragili, i malati, gli anziani”, racconta Ruslan Onoprichuch, un volontario della Croce rossa che sta aiutando a trasportare le persone con un’ambulanza. I bambini sono presi in braccio dai soldati, gli anziani sono trasportati con le barelle. “Bisogna fare in fretta, perché in questo punto le persone sono ancora esposte al fuoco dei cecchini, è pericoloso”, continua. “Dall’altra parte del fiume, i russi hanno già il controllo del territorio”, assicura Onoprichuch.
Il 6 marzo, nel secondo giorno di tregua, una famiglia composta dalla madre e dai due figli è stata uccisa da colpi di artiglieria mentre scappava da Irpin, poco dopo aver attraversato il fiume. La donna si chiamava Tatyana Perebeynos, aveva 43 anni, lavorava in un’azienda informatica e si stava prendendo cura della madre malata a Irpin. È stata uccisa con i figli Alisa e Mikita, di nove e diciott’anni. Il marito, Serhii Perebeynos, era a Donetsk, nell’est del paese. È arrivato a Kiev per seppellire la famiglia solo diversi giorni dopo. Il 10 marzo, tre giorni dopo la morte, la loro valigia è ancora dove sono caduti a terra, è aperta, i vestiti sull’asfalto, mentre altre famiglie continuano ad attraversare il ponte per mettersi in salvo.
Scoppia a piangere Valentina, una donna di quarant’anni, che è appena arrivata dall’altra parte del fiume: ha trascorso gli ultimi quattordici giorni sotto terra, in una cantina, con il cibo razionato, senza elettricità. Prima della guerra era impiegata in un albergo, la madre invece lavorava a Milano. “L’importante è che siamo in salvo, poi si vedrà”, dice tra le lacrime, mentre prende il figlio dalle braccia di un militare e lo mette nel passeggino per continuare a camminare. “Non sappiamo dove andare, staremo qualche giorno a Kiev”.
I pullman dell’esercito e le ambulanze fanno su e giù dal ponte. A Bilohorodka, un distretto a nord di Kiev, davanti a un supermercato è stata organizzata un’accoglienza frugale per i profughi arrivati con i corridoi umanitari da Irpin e da Buča: ricevono da mangiare e tè caldo, quindi sono trasferiti in altri quartieri della città. Gleb Semenov ha diciassette anni ed è scappato il 10 marzo da Buča, con tutta la famiglia: nove persone, più il cane Artom.
“I russi sono lì, si sentivano continuamente i combattimenti, gli spari, gli ultimi cinque giorni sono stati terribili”, racconta il ragazzo. Da questo ponte non passa solo la linea del fronte, ma anche la frontiera tra il passato e il futuro della capitale ucraina, tra la salvezza e la morte. Quello che succederà non lo sa nessuno, i profughi di Irpin e Buča si sono lasciati alle spalle tutto quello che avevano e non sanno bene cosa aspettarsi.
Ai loro occhi Kiev è un luogo sicuro rispetto alle giornate che hanno trascorso finora, ma i carri armati russi sono già alle porte della città. Il 10 marzo si sono alzate colonne di fumo a Skybyn e una pioggia di razzi è caduta su Velyka Dymerka, a circa cinque chilometri. La capitale ucraina è semideserta, avvolta in una calma surreale. Metà della popolazione è scappata, chi rimane si prepara a combattere.
Al quattordicesimo giorno di guerra in Ucraina sembra essere cominciata una fase “completamente diversa”. Sono le parole usate da Oleksiy Arestovyč, consigliere della presidenza ucraina, commentando il bombardamento del 9 marzo sull’ospedale pediatrico e sul reparto maternità di Mariupol, città portuale nel sudest del paese.
Fuoco sui civili, corridoi umanitari interrotti, bombe sulle strutture sanitarie: sembra che i russi stiano usando tecniche di guerra che avevano già utilizzato in Cecenia e Siria per terrorizzare la popolazione, piegarne il morale, costringerla a scappare, poi prendere tempo, riposizionare i loro mezzi e provare a espugnare le città. Il 9 marzo era stata annunciata una tregua di dodici ore per permettere ai civili delle zone assediate di scappare, ma il cessate il fuoco è stato interrotto da un bombardamento che ha ucciso cinque persone e ne ha ferite altre diciassette a Mariupol.
Un video diffuso dalla presidenza ucraina ha mostrato l’interno dell’edificio semidistrutto, tra macerie e calcinacci. In un altro video della polizia ucraina si vedono alcune auto carbonizzate e un enorme cratere. Dall’inizio della guerra, il 24 febbraio, ci sono stati almeno diciannove attacchi contro ospedali, strutture sanitarie e ambulanze. La responsabile dei diritti umani del parlamento ucraino Liudmyla Denisova ha definito l’attacco contro l’ospedale di Mariupol “un crimine contro l’umanità”.
La città di Mariupol è in una situazione umanitaria drammatica: da giorni mancano acqua, elettricità, rifornimenti. Denisova ha denunciato che i corridoi umanitari che avrebbero dovuto permettere ai civili di lasciare Mariupol e raggiungere Zaporižžja sono stati interrotti la mattina del 9 marzo da pesanti bombardamenti. In città, secondo le stime, 300mila persone sono intrappolate in condizioni critiche, senza ricevere aiuti umanitari.