Viaggio nell’archivio e nella vita di Tiziano Terzani
Ascolta Taccuini, un podcast di Internazionale su Tiziano Terzani, con Annalisa Camilli.
Ha impiegato gli ultimi vent’anni – quelli trascorsi senza di lui, che è morto il 28 luglio 2004 – a capire lo spessore e la statura dell’uomo che ha avuto vicino per 45 anni. Angela Staude Terzani racconta chi era Tiziano Terzani seduta sul divano di casa, ricavata da una vecchia falegnameria sulla collina di Bellosguardo, il quartiere di Firenze in cui è cresciuta e dove si è ritirata dopo la morte del marito. Dal giardino si domina tutta Firenze e una cicogna di ferro incornicia il panorama.
Che fosse un uomo che aveva una statura morale, un coraggio e una determinazione fuori dal comune se n’era accorta fin dal primo incontro a casa di un’amica, quando aveva solo diciotto anni. Ma le ci sono voluti vent’anni di assenza per capire il significato profondo di tutto il suo lavoro. In più di quarant’anni “l’avevo un po’ intuito”, dice scherzando, ma non aveva ragionato ancora bene “sull’intensità del suo impegno”, “sulla sua curiosità”, “sul suo coraggio”. Questo l’ha capito leggendo i libri e tutti gli appunti che Terzani ha lasciato: i suoi taccuini, i diari, le migliaia di foto, la sua corrispondenza, oggi custoditi nell’archivio e nel fondo Terzani alla fondazione Cini di Venezia.
“Vent’anni fa non avevo un’idea così chiara del suo lavoro”, continua Angela Staude, 85 anni, in una torrida domenica estiva, riparata nella penombra di casa.
Eppure ha condiviso con lui tutta la vita: dai suoi primi passi di studente di giurisprudenza alla Normale di Pisa all’impiego alla Olivetti di Ivrea negli anni sessanta, fino agli studi alla Columbia university di New York, la passione per il giornalismo e il primo incarico da inviato nella guerra del Vietnam per lo Spiegel, il settimanale di Amburgo, uno dei più importanti giornali europei. Per il settimanale ha aperto diversi uffici di corrispondenza in Asia nella sua lunga carriera, tra cui quello in Cina nel 1980, essendo stato uno dei primi giornalisti occidentali ad avere accesso alla Cina comunista dopo la morte di Mao Zedong.
Era figlio di operai, veniva da una famiglia fiorentina modesta di scalpellini, era nato povero e i genitori si erano dovuti impegnare le lenzuola per farlo studiare. I primi pantaloni lunghi glieli avevano comprati a rate. Ma era molto brillante ed era stato un insegnante a intercedere con i genitori perché continuassero a mandarlo a scuola dopo le medie, invece di farlo andare a lavorare.
“Ho capito subito dallo sguardo e da una particolare intensità, anche serietà, che aveva un sogno e che lui mirava a fare qualcosa di speciale per non sprecare il suo passaggio sulla Terra. Era il primo che mi ha fatto capire che la vita che abbiamo è unica e che non possiamo metterci comodi a godercela”, dice Staude, scandendo con lentezza le parole. A 18 anni gli scrisse la prima lettera, dopo l’università vivevano già insieme, convivevano contro il parere dei loro genitori, che avrebbero voluto che si sposassero.
Angela Staude viene da una famiglia di artisti: il padre pittore aveva scelto di vivere a Firenze e la madre, un’architetta affermata, aveva deciso di lasciare il lavoro per seguire il grande amore in Italia, rinunciando a lavorare. Terzani fu affascinato anche dalla famiglia della moglie “colta, cosmopolita, aperta, amante dell’arte e della musica, senza nessun interesse per i soldi”.
Terzani ha sempre detto che il segreto del loro lungo matrimonio sono state le”grandi presenze” intervallate dalle “grandi assenze”. Per lei si è trattato di “guardare tutti e due nella stessa direzione”. E anche di un grande rispetto per l’altro. È rimasto celebre l’episodio in cui fu lei stessa ad accompagnarlo in aeroporto per andare in Vietnam a seguire la presa di Saigon da parte dei vietcong. Terzani aveva paura di morire in una battaglia particolarmente insicura, ma la moglie accompagnandolo gli aveva detto che preferiva accettare l’eventualità che morisse in guerra, invece di vivere nel rimpianto di non esserci stato nel momento cruciale di un conflitto che aveva raccontato per anni.
“Io mi divertivo a seguirlo, a viaggiare con lui, una coppia deve essere prima di tutto fondata su un’amicizia solida”, sottolinea, mentre è ancora circondata dagli oggetti collezionati nel corso dei loro viaggi e degli anni trascorsi in Asia. Nel salotto di Firenze c’è ancora il tavolino di vimini della loro prima residenza asiatica: una casa di ex coloni britannici in mezzo alla foresta, a Singapore.
“Ma la casa più bella è stata senz’altro quella di Bangkok, era antica, di legno, sul fiume. C’era un laghetto con una tartaruga”, racconta. Negli anni in cui Terzani era diventato famoso grazie ai suoi libri e al suo impegno contro l’invasione americana dell’Iraq e dell’Afghanistan, molti lettori e lettrici hanno fatto dei veri e propri pellegrinaggi a Bangkok, sulle sue orme, per visitare quella casa. “Il custode offriva delle visite guidate, ma poi è stata distrutta da alcuni speculatori edilizi per farci dei grattacieli”, racconta Angela Staude.
Terzani voleva fare il corrispondente dall’Asia, aveva studiato il cinese alla Columbia university e poi a Berkeley, ma una volta tornato in Italia alla fine degli anni sessanta nessun giornale italiano sembrò interessato a farlo lavorare come inviato. Decise quindi di licenziarsi dal Giorno per andare a cercare un committente tra i grandi giornali europei. Viaggiò per settimane in Europa con un sacco a pelo, finché non trovò una porta aperta al settimanale tedesco Der Spiegel.
Scrivere per un giornale straniero, in una lingua che non era la sua, fu sempre un problema per Terzani, si sentiva un lavoratore straniero, un gastarbeiter, come si definì lui stesso. Lo percepiva come un rifiuto da parte del sistema dei mezzi d’informazione italiani, incapace di avere un impatto sull’opinione pubblica del suo paese.
“Fu dispiaciuto di fare questo lavoro in una lingua che non era la sua, cioè in inglese, gli sembrava di non potersi esprimere pienamente”, conferma la moglie. Nel 1972 si trasferirono a Singapore, poi a Hong Kong, da dove Terzani seguì la guerra nel Vietnam in prima linea. “Era il conflitto morale della nostra generazione, come la guerra di Spagna lo era stata per la generazione dei nostri genitori”, ha detto una volta Terzani.
“Da giornalista ho sempre sentito che se volevo capire i conflitti non potevo stare da una parte sola, dovevo anche capire gli altri. Nel 1973 in Vietnam passai il fronte per andare a trovare i vietcong. Me ne rendo conto solo ora, ma mi sono sempre interessato magari istintivamente all’altro: chi è, cosa pensa, cosa fa, perché”, ha scritto.
In fondo è stato il leit motiv di tutta la sua vita. Ha sempre provato a passare la linea del fronte per capire cosa succedeva dall’altra parte: dal Vietnam negli anni settanta all’Afghanistan dopo l’11 settembre del 2001. Ma la sua passione più grande è stata la Cina, un paese in cui si è trasferito nel 1980 con la famiglia e dal quale è stato espulso quattro anni dopo, in seguito a un arresto in cui è stato accusato di “crimini controrivoluzionari”. Fu solo l’intervento del presidente Sandro Pertini a permetterne il rilascio attraverso un accordo commerciale che prevedeva la donazione a Pechino di diversi trattori da parte dell’Italia.
Terzani era diventato un testimone scomodo, un giornalista indipendente che non si era fermato davanti ai limiti imposti dal regime cinese e dalla propaganda. Conosceva la lingua, aveva viaggiato nelle zone più remote del paese, aveva incontrato le persone comuni e aveva capito che quella che anche per lui era stata una rivoluzione, una vera alternativa al modello di sviluppo occidentale, per la maggior parte dei cinesi era stata un incubo, costata epurazioni di massa e massacri.
Aveva sviluppato un vero e proprio metodo: usava i libri antichi per verificare gli interventi di rimozione fatti dal maoismo durante la rivoluzione culturale, insieme alla moglie era diventato amico di molti artisti e intellettuali, che erano stati colpiti dalla repressione, erano stati in carcere e nei campi di rieducazione, avevano subìto violenze di ogni tipo.
Nel suo libro La porta proibita (Longanesi 2018) ha scritto: “Arrivai a Pechino nel gennaio e mi fu subito chiaro che la realtà era meno affascinante dei sogni. Andai a cercare quella speciale forma di socialismo che si diceva fosse stata costruita in Cina, ma non trovai che le rovine di un esperimento fallito”. L’esperienza cinese fu l’ultima grande delusione dei suoi ideali di gioventù, dopo il Vietnam e la Cambogia.
“La crisi con la rivoluzione per me è cominciata con il Vietnam, poi la Cambogia, che molti di noi hanno visto da vicino. Quello che è successo in Cambogia una volta che hanno preso il potere gli khmer rossi è stato spaventoso. E poi la Cina che per me è stata una profonda delusione. Ma poi ho scoperto che i cinesi non avevano fatto niente di quello che avevano promesso. L’unica cosa che posso fare è scrivere, ma questo ti fa finire sulle liste nere”, ha ammesso Terzani una volta in un’intervista.
Era diventato un collezionista di libri sull’Asia e in particolare sulla Cina. “Aveva capito che non bastava osservare l’oggi, la Cina di oggi, il Giappone di oggi. Occorreva capire da dove venivano i problemi, bisognava comprendere il passato”, racconta Angela Staude. Per questo aveva cominciato a comprare volumi da antiquari nelle librerie di mezza Europa. Spesso erano libri che erano appartenuti ai primi viaggiatori occidentali in Asia oppure ai coloni. Questo è uno dei lasciti più importanti di Tiziano Terzani, un metodo che usa la storia e i libri per demistificare il presente, soprattutto in presenza di governi autoritari che provano a riscrivere il passato.
La sua biblioteca – diecimila volumi sull’Asia – assume un valore raro. Lui stesso ne era consapevole e prima di morire ha detto alla moglie che avrebbe potuto fare quello che voleva di tutti gli altri oggetti che gli erano appartenuti, ma che invece non avrebbe mai dovuto smembrare la sua biblioteca.
Nel 2012 tutti i volumi, già catalogati per paese dallo stesso Terzani, sono stati donati dalla famiglia alla fondazione Cini di Venezia, che nel 2014 ha acquisito anche tutto l’archivio del giornalista fiorentino: i taccuini, le foto, i negativi, la corrispondenza, i diari, i dattiloscritti. La biblioteca è conservata in una stanza della fondazione, che si trova in un ex convento benedettino sull’isola di San Gorgio a Venezia, proprio davanti a piazza San Marco.
“Le sezioni più grandi riguardano la Cina, il Giappone e l’India. Poi ci sono quelle più piccole, dedicate a stati sempre orientali, e qualcosa alla Russia. Ci sono una parte che riguarda l’arte, una i periodici e una i libri che Tiziano usava per studiare le lingue”, spiega Eva Salviato, archivista del Centro studi di civiltà e spiritualità comparate della fondazione. Terzani scriveva su ogni libro la data e vi apponeva un timbro rosso che indicava il suo nome in caratteri cinesi: Deng Tiannuo. Ma nell’archivio non ci sono solo i libri.
“Oggi se uno va a Venezia a mettere le mani nell’archivio si ritrova di fronte a più di duecento faldoni che contengono moltissimi materiali”, racconta il biografo e curatore dell’opera di Terzani, Àlen Loreti. “Da questo materiale si capisce che Terzani seguiva tutto, non solo la geopolitica. Gli interessavano la topologia, l’etnologia, la storia delle religioni, la filosofia. E soprattutto c’è questo grandissimo amore, lo si capisce proprio dai testi che lui ha collezionato, un amore viscerale per il viaggio, per gli esploratori, per le esploratrici”, continua Loreti. E poi ci sono le sue fotografie: più di ottomila positivi e quasi 77mila negativi.
Terzani amava fotografare le persone, i volti delle persone comuni durante i suoi viaggi, le atmosfere. “Quello che gli interessava era vedere la gente nell’ambiente in cui viveva, lavorava, la gente umile, che si svegliava la mattina e procedeva nella vita di tutti i giorni”, spiega Nicole Pecoitz, una ricercatrice cha ha studiato l’archivio fotografico di Terzani. “Sono foto quasi sempre in bianco e nero. Solo una volta mi sono imbattuta in quelle a colori, ma lui preferiva, e lo si vede, nettamente il bianco e nero”. L’archivio fotografico di Terzani, testimone di un mondo in alcuni casi già scomparso, è ancora tutto da esplorare.
Conosciamo Tiziano Terzani soprattutto per l’ultima parte della sua vita: la riflessione sulla malattia e la morte, l’adesione alle filosofie orientali, l’impegno contro le guerre in Iraq e in Afghanistan. A un certo punto qualcuno lo ha trattato, per screditarlo, come un guru o un santone.
Ma Terzani è stato per più di trent’anni un inviato di guerra, poi un corrispondente dall’Asia, uno dei primi giornalisti occidentali a entrare nella Cina comunista e a raccontarla, un esperto di geopolitica. Del suo metodo e della sua passione per un giornalismo non neutrale, che per lui era stato un modo di intervenire nel suo tempo, rimane traccia nel suo archivio.
Diceva che il giornalismo per lui era stato “un modo di vivere” e ai giovani che vogliono intraprendere il mestiere consigliava: “Fai il giornalista come pare a te, non mettere la testa in quello che esiste già, inventati una professione o reinventala. Certo che conta prepararsi, leggi, studia le lingue e la storia, capisci l’economia. Il mondo avrà sempre bisogno di questo mestiere, che è essere gli occhi, gli orecchi, il naso dell’altro che è rimasto a casa. La cronaca ha bisogno di testimoni, bisogna farli nascere. I migliori giornalisti saranno quelli che non sapranno fare altro nella vita”.
Ascolta Taccuini, un podcast di Internazionale su Tiziano Terzani, con Annalisa Camilli.