Il lago Inle si trova nell’ampio altopiano che occupa la zona centrorientale della Birmania. Il modo più semplice per arrivarci è prendere un aereo da Rangoon a Heho.
Il terminal dei voli nazionali somiglia alla hall di un vecchio albergo coloniale. Entrarci vuol dire fare un salto all’indietro di almeno cinquant’anni, tra balaustre e colonne di legno di teak istoriato, file di tonde seggioline di gusto sovietico e un discreto caos di valigie, monaci, gruppi rumorosi di turisti asiatici e signore birmane con voluminose cuffie di lana colorata.
Conviene armarsi di pazienza e aspettare, dopo essersi appiccicati addosso l’adesivo della compagnia aerea che sostituisce la carta d’imbarco, augurandosi che il volo parta più o meno in orario.
L’altopiano Shan è collinoso, coltivato a riso, fresco: siamo a quasi mille metri d’altitudine. Prende nome dalla popolazione che lo abita da un passato molto remoto. Quello degli shan è il secondo gruppo etnico del paese dopo i bamar.
Nell’area si trovano numerose altre minoranze etniche: gente di montagna che vive isolata e parla centinaia di dialetti. La zona più a nord, verso il confine con la Cina, è ancora oggi agitata da un’annosa guerra civile connessa con il traffico d’oppio e andarci può essere complicato.
La minoranza intha (letteralmente, figli del lago) parla un dialetto arcaico, viene dal sud del paese e si è insediata nell’area in epoca medievale. Si tratta di 80mila persone che vivono direttamente sull’acqua. I villaggi sono su palafitte: durante la stagione delle piogge il livello del lago può crescere di oltre un metro e mezzo.
Le case tradizionali (long house) ospitano diverse famiglie. Le più semplici hanno pareti di bambù intrecciato su strutture di teak: ogni diciotto anni le pareti vanno completamente ricostruite. Le più opulente sono interamente in legno di teak. Tutti, e anche i bambini, si spostano da una casa all’altra pagaiando su snelle canoe piatte. Sotto ogni casa c’è almeno una barca ormeggiata. L’altro modo per spostarsi nel lago è costituito da più grosse, e altrettanto snelle, barche mosse da motore diesel, che viaggiano velocissime sollevando ampi schizzi. Locali e turisti si riparano aprendo un ombrello davanti a sé e usandolo come paravento: una soluzione brillante, che provo anch’io con ottimi risultati.
Dalle finestre si affacciano donne e bambini piccoli. Molti salutano: la vera curiosità del luogo, me ne rendo conto, continuiamo a essere noi.
Gli uomini sono a pescare, a raccogliere alghe e a lavorare negli orti.
Si tratta di orti galleggianti: ampie, suggestive isole sull’acqua dove si coltivano pomodori e cavoli, melanzane, fagioli, aglio e cipolle. La comunità, in stagione, produce cinquanta quintali di pomodori al giorno. Gli orti sono fertilissimi, restano ancorati al fondo grazie a pali di bambù e non vengono mai sommersi dall’acqua perché, galleggiando, seguono le variazioni di livello del lago.
Per costruire un orto galleggiante ci vogliono tre anni, e c’è da compiere un’operazione davvero ingegnosa. La base è costituita da un’isola di giacinti d’acqua, sui quali si dispone uno strato di alghe raccolte dal fondo del lago.
Alghe e giacinti formano presto un intreccio inestricabile, sul quale è collocato uno strato di terra. Tutto quanto può raggiungere anche il metro e mezzo di spessore.
I pescatori stanno a un’estremità della barca. Remano appoggiando il remo su una gamba e tenendosi in equilibrio sull’altra. Hanno sviluppato questo stile unico perché stando in piedi è possibile districarsi più agevolmente tra le canne e la vegetazione galleggiante del lago, e perché le mani restano libere per manovrare le nasse. Le donne, invece, remano sedute.
Le nasse servono per pescare soprattutto carpe. Nel lago vivono centinaia di specie di pesci: nove di queste sono endemiche e non si trovano in nessun’altra parte del pianeta.
Un mercato galleggiante si tiene ogni cinque giorni, secondo il calendario buddista, in uno dei diversi villaggi che circondano il lago. È frequentatissimo, gremito, colorato, e ci si trova di tutto: barbiere e ristorante, polli e spezie, pentole, fiori, abiti e tessuti, attrezzi di metallo per lavorare la terra o il legno.
Nella calca, spiccano i turbanti e gli asciugamani colorati con cui le donne pa-oh, la seconda maggiore etnia dell’altopiano dopo gli shan, si coprono i capelli. Vivono sulle colline. Tutte indossano corte casacche scure, bordate di blu o di viola.
Incrocio due anziane donne pa-oh in un altro dei luoghi di fascino che si trovano attorno al lago: il sito archeologico Shwe Inn Thein. Ci si arriva risalendo in barca uno stretto canale che si insinua nella boscaglia per otto chilometri e superando alcune chiuse: è una via d’acqua praticabile solo in inverno e durante la stagione delle piogge, mentre in estate il livello del canale è troppo basso per essere navigabile. Sulle rive, diverse donne lavano disinvoltamente panni, o se stesse, nell’acqua gelata e torbida.
L’attracco è discretamente affollato. Ma non appena si entra nel sito lasciandosi alle spalle le onnipresenti bancherelle, disposte lungo uno scuro passaggio coperto e in salita, l’atmosfera cambia e ci si trova di fronte a centinaia e centinaia di stupa e templi costruiti fra il trecento e il settecento, alcuni restaurati, molti altri in rovina e invasi da cespugli e rovi.
È un luogo vibrante di fascino e impatto scenografico, non troppo frequentato, sospeso nel silenzio e nel tempo. Specie verso sera, quando l’oro e il rosso degli stupa spicca contro il cielo che rapidamente si scurisce, si può far finta di perdercisi: e forse è questo, in fondo in fondo, il sogno di molti di noi, viaggiatori moderni alla ricerca di un’autenticità rara e ormai difficile da trovare.
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