La Galeria Kombëtare e Arteve di Tirana è, nella sua forma attuale, un prodotto degli anni settanta. Un’esposizione permanente, che spesso non rientra nei circuiti prediletti dei turisti frettolosi. Eppure là, tra quelle sale ampie e silenziose, con le sue luci soffuse, si racconta una storia. Quella dei lavoratori come mito fondante di una comunità.

In tutta l’arte socialista questa celebrazione è comune, l’Albania non fa differenza, ma è stupefacente oggi perdersi davanti ai grandi dipinti di artisti e ai loro soggetti – minatori, raffinerie, cantieri navali, cooperative agricole – pensando alle condizioni attuali dei lavoratori in Albania. Quei volti, quei tratti, sono gli stessi: le condizioni di vita opposte. I lavoratori di ieri erano celebrati come eroi, ma non erano liberi di dire quel che pensavano; i lavoratori di oggi possono fare tutto quel che vogliono, sulla carta, solo che non possono permetterselo.

Generazioni sotto terra
Arrivare a Bulqizë è facile, quel che sembra complesso è restarci a vivere. Una valle al centro, attraversata da una strada che sembra disegnata da un bambino per quanto è dritta, divide due insediamenti urbani: il primo è quello storico, il secondo è quello che i prigionieri politici costruirono con le proprie mani per alloggiare durante la condanna e il lavoro in miniera. Le miniere, dal fondo, le vedi tutte attorno, mentre dominano la valle dall’alto.

La miniera, a Bulqizë, è un destino, un’eredità, una condanna. Di padre in figlio, generazioni di uomini (e di donne adesso, quelle che perdono il marito in miniera e per sopravvivere recuperano materiali di scarto fuori dalle gallerie principali) che ritrovi accatastati nei bar squallidi della città, alla sera, a bere quel che guadagnano. I volti sembrano gli stessi dei ritratti della galleria, solo che non sono più eroi di nessuno.

Elton Debreshi è seduto sul divano di casa sua, accanto a suo padre. Il nonno di Elton ha cominciato a lavorare in miniera appena ha aperto, dopo la guerra. Furono due ingegneri italiani a scoprire il giacimento di cromo, ma la guerra rimandò lo sfruttamento che iniziò solo negli anni cinquanta. Il padre ha lavorato per 37 anni in quella miniera e, circondato dai nipoti, racconta che lui aveva più tutele del figlio.

Proprio per questo Elton si è ribellato al sistema di sfruttamento dei minatori. Tutto il profitto – tanto, perché la domanda cinese di cromo è infinita – finisce nelle mani di Samir Mane. Uno di quegli oligarchi post 1991 del quale nessuno riesce a ricostruire l’ascesa economica in maniera chiara. Quel che si dice, di lui come di altri, è che le origini dei grandi patrimoni di poche persone in Albania hanno due storie: o proventi di traffici (armi, droga, migranti, esseri umani) degli anni novanta, o dossier della Sigurimi che gli stessi alti ufficiali della polizia politica hanno usato – insieme ai fondi neri dei quali disponevano per le loro operazioni e che non dovevano rendicontare a nessuno – per comprare per quattro soldi i beni dello stato in Albania.

Oggi Mane controlla la maggior parte delle miniere, del trasposto delle merci a Elbasan, dove sono lavorate, e degli imbarchi e spedizioni dei container da Valona e Durazzo per la Cina. A Elton, e agli altri, restano le malattie professionali, 35mila lekë al mese (286 euro) più un’integrazione alimentare per 15mila lekë (123 euro) e la roulette russa di ogni giorno di lavoro. Non metaforica: dal 2014 sono almeno 32 le persone morte nei tunnel di Bulqizë e dintorni, essendo le gallerie ferme ai sistemi di sicurezza degli anni novanta.

Uno dei meeting organizzato dagli attivisti di Organizata Politike che coinvolge i minatori e i giovani di Bulqizë che, al di là di pochi lavori, o della migrazione, hanno la miniera come unica possibilità di lavoro. (Camilla De Maffei)

Elton ha organizzato il primo sciopero dei minatori di Bulqizë, ne ha pagato le conseguenze, ma non è solo. Ad arrivare alle miniere ci aiutano Enriko, Joana e gli altri ragazzi di Organizata Politike (Op). Formazione nata nel 2016, ma cresciuta nelle battaglie contro la gentrificazione a Tirana, contro la privatizzazione dell’istruzione e della sanità, dal 2018 è diventata il punto di riferimento di una generazione di trentenni che parlano almeno due lingue, che hanno lauree e dottorati – grazie ai sacrifici dei genitori – e che sono stanchi di non avere diritti, di aver bisogno di conoscere un politico per avere un lavoro, di dover emigrare. Si riuniscono a Logu i Shkëndijës, un centro politico-sociale-culturale a Tirana, ma sanno che le differenze tra città e campagna si colmano con i corpi, non con le parole.

Gli attivisti vivono le battaglie che abitano, stanno nelle comunità, diventano parte delle famiglie che soffrono e che non hanno neanche un vocabolario per raccontare il disagio. Perché in Albania, nel 2022, parlare di diritti dei lavoratori può comportare l’accusa di comunismo. Dopo gli anni di Enver Hoxha è un’accusa grave, ma loro da anni lavorano per sostenere le battaglie dei lavoratori, per rafforzare i sindacati indipendenti e per formare i lavoratori sui loro diritti.

Ecco che Elton e gli altri minatori, in uno dei bar tristi di Bulqizë, non ci vanno a bere. Sono là, con Enriko, Joana e i ragazzi di Op, a preparare una lista indipendente per le elezioni. Tutti riflettono e si confrontano, non sono fuori dal tempo, si pongono domande. Per esempio una, molto semplice: se in nome delle privatizzazioni, simbolo della libertà post-comunista, il governo si è ritirato dalla gestione diretta delle miniere, perché non ha chiesto un equo prezzo nella vendita ai privati? E soprattutto, perché oggi ha completamente abdicato alle aziende la sicurezza dei lavoratori? Non è comunismo, sottolineano i ragazzi di Op, è solo buon senso e civiltà. Redi Muci, Arlind Qori, Mirela Ruko, Bruna Sollaku e tante altre donne e uomini hanno preferito restare in Albania per cambiare le cose dall’interno, e finendo spesso arrestati nelle manifestazioni, ma guadagnandosi giorno dopo giorno attenzione e rispetto dai cittadini.

Tonin, invece, è la voce dei sindacati indipendenti dei call center. Sono ovunque, in Albania. Stanzoni belli fuori, molto curati nelle facciate e con lo stesso identico spersonalizzante spazio all’interno. Una sedia, un paio di cuffie, un computer e una barriera per non vedere il tuo vicino. Tonin ha detto basta, a un certo punto. Dopo anni di studi e sacrifici in Italia, è tornato a casa, convinto di vivere una stagione di cambiamento. Finiva il potere di Sali Berisha, iniziava quello dell’artista Edi Rama, si chiudeva con il passato, Tonin voleva essere parte del rinnovamento nel suo paese, quello che suo padre aveva lasciato su un gommone per farlo studiare.

Elton Debreshi, fondatore del Sindacato dei minatori uniti di Bulqizë, all’interno di uno dei tunnel scavati per ricercare il cromo. I tunnel vengono aperti grazie all’uso di dinamite: i minatori non ricevono un’adeguata preparazione e non hanno un riconoscimento delle malattie professionali. (Camilla De Maffei)

E invece tutta la disillusione di Tonin si riflette tra il suo volto e il caffè che sorseggia. Berisha e Rama, alla fine, come un Giano bifronte, si sono rivelati – nei decenni nei quali si sono divisi il potere – le due facce della stessa medaglia, il Grande Padre che si riproduce e nell’illusione dell’alternanza democratica si rende eterno. Tonin lavorava, nel 2018, a TelePerformance, multinazionale francese dei call center presente in 78 paesi. In Albania sono almeno 25mila i lavoratori nel settore, ma con il sommerso si arriva almeno a 30mila dipendenti, quasi il 7 per cento della forza lavoro albanese. Un’ora di lavoro è pagata tra i 2,5 e i 3 euro, a seconda dei clienti dei call center e dei servizi che appaltano. Ogni compagnia, senza alcuna regola, applica un sistema di bonus e indennità, revocabili in ogni momento. Nei contratti – che adesso sono per lo più a tempo indeterminato, ma non significa nulla, nel senso che puoi essere licenziato con una mail – si specifica solo la paga base, tutto il resto deriva da accordi verbali tra il dipendente e il gestore del call center.

A tempo pieno, puoi arrivare a 500 euro, 600 se sei molto performante. Tonin ha provato a dar vita a un sindacato indipendente nel settore, l’azienda gli ha fatto la guerra, ma lui non molla. E si chiede perché quell’Europa che suo nonno e suo padre sognavano, quella dei diritti, accetti che gli albanesi siano esseri umani di serie B, ai quali applicare turni di lavoro massacranti che non sarebbero permessi in Francia, per esempio, ma che un’azienda francese può imporre agli albanesi.

I volti degli eroi del lavoro sono anche quelli dei dipendenti della raffineria di Ballsh, oggi chiusa, dopo decenni di mala gestione e sfruttamento. Hanno occupato la raffineria per mesi, hanno lottato con tutte le loro forze. Perché come ci racconta Mirdita, operaia per vent’anni nella raffineria, non era solo lavoro, era anche status sociale. Una donna che lavorava era più libera. Nel 2020 lei e altre operaie hanno iniziato uno sciopero della fame, ma dopo le promesse elettorali sono spariti tutti. E la raffineria è bloccata, nello spazio e nel tempo, come i vicini pozzi di Kucova, che il colonialismo italiano ribattezzò Petrolia, nel patetico stile imperiale accattone del fascismo. Kucova cessò di essere Petrolia e divenne Qyteti Stalin, la città di Stalin, dopo la guerra, per poi tornare mestamente Kucova, con i suoi pozzi abbandonati e le macerie di tutti i “poteri” che sono passati sulle vite delle persone.

Poetica dei kombinat
Il ramo delle vecchie industrie – un tempo fiorenti sotto il socialismo – era caratterizzato dalla produzione e dalla raffinazione del petrolio, quest’ultima situata proprio nelle città di Ballsh e Fier. Gli investimenti insufficienti e gli accordi speculativi tra il governo centrale e gli oligarchi economici – in quei formati che si chiamano Ppp, partnership pubblico privato – hanno quasi distrutto il settore. Più di mille lavoratori sono stati licenziati nel 2021, senza essere pagati nemmeno per i mesi di lavoro che avevano continuato a svolgere, pur avendo mantenuto in sicurezza impianti molto pericolosi, anche se nessuno gli chiedeva di farlo. Se le raffinerie funzionano è solo perché vengono affittate ad aziende che usano gli impianti, ma non hanno alcun obbligo verso l’ambiente e i lavoratori, che vengono pagati praticamente a giornata.

Esiste una geopoetica degli spazi, capaci di essere non solo contenitori di storie, ma produttori a loro volta di narrazioni. Elbasan, con il suo kombinat – come venivano chiamati i megacomplessi industriali voluti dal regime per ammodernare e rendere autosufficiente il paese – è un viaggio nel tempo. Camminare tra gli impianti industriali dismessi, mentre due ragazzi con un carretto e un cavallo recuperano rame dove possono, racconta allo stesso tempo l’archeologia industriale e un futuro distopico postatomico. In sottofondo una cupa sirena avverte di un macchinario in movimento, ma sembra dirlo ai cani randagi, perché non si avvede forma di vita tra il vecchio complesso che, grazie al periodo di amicizia con il governo cinese, venne costruito tra gli anni sessanta e settanta. È chiamato Metalurgjiku, fiore all’occhiello dell’industria albanese, qui avveniva la lavorazione di metalli pesanti con i quali poi si riforniva l’intera industria albanese.

Poi fu la volta di un grande cementificio, sul finire degli anni sessanta, e nel 1981 degli impianti di lavorazione del nickel e nel 1988 del ferrocromo (oggi di proprietà di Samir Mane e di imprese turche). Negli anni d’oro si arrivava a 11mila lavoratori. Nonno Rakim, tra una sigaretta e una grappa, è uno di quelli che definireste nostalgici. Confronta, ogni giorno, in ogni bicchiere, il suo passato e il suo presente. Ha lavorato decenni in quel kombinat, ci ha guadagnato un figlio morto di cancro, per colpa di un inquinamento drammatico, e un nipote che è dovuto partire per l’Italia, “minore non accompagnato”, perché con la sua pensione ci vivono lui, la moglie e due figlie. Per lui tutto è finito dopo la rottura con la Cina, perché per lui tutto era stato quel kombinat. Qual è la libertà che ha avuto Rakim?

A Tirana è quasi sera, le lavoratrici del tessile escono in fila indiana dalle fabbriche, alcune ufficiali, altre poste in capannoni senza neanche un po’ di areazione. Si producono prodotti di marchi italiani e stranieri noti in Italia e nel mondo. Ma le lavoratrici non potranno mai permettersi quei prodotti e vengono perquisite in entrata e in uscita da personaggi con la faccia da galera. Vanno verso i mezzi pubblici, caotici e senza certezze. Tutte queste aziende, che a volte aprono e chiudono nel giro di una notte, secondo uno studio dell’Istituto di critica sociale ed emancipazione sulle condizioni della classe operaia in Albania sono quelle che pagano di meno. Ovviamente le donne, perché tra Grande Padre e patriarcato il passo è breve. Quasi tutti i lavoratori delle calzature e dell’abbigliamento sono donne che vivono in piccole città, villaggi vicini o periferie delle grandi città, il più delle volte esposte a diversi tipi di sfruttamento e violenza. Il 72 per cento di loro fa gli straordinari, che significa portare le ore di lavoro a 14, 16 ore al giorno. E quando arriva uno stipendio, c’è la parte da restituire al mediatore che ha procurato l’ingaggio.

Praticamente a tenere fuori dall’Unione europea l’Albania sono i parametri che l’Ue chiede, ma che mancano anche e soprattutto per colpa delle aziende europee che lavorano in Albania. Edi Rama, la speranza di molti dei ragazzi di Op quando erano ancora più giovani, in una trasmissione televisiva in Italia invitò le aziende italiane ad andare a investire in Albania, perché da loro non ci sono i sindacati a rompere le scatole. Quasi tutti i ragazzi di Op raccontano di aver deciso di aderire al movimento dopo quell’intervista. L’Italia, in fondo, ieri come oggi, ritorna sempre nel destino degli albanesi.

Questo articolo è un estratto del libro Grande Padre. Viaggio nella memoria dell’Albania (Milieu, settembre 2022), un progetto realizzato insieme alla fotografa Camilla De Maffei. Il volume sarà presentato al Festivaletteratura di Mantova.

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