Tor Bella Monaca è piccola. Wikipedia dice che la sua superficie è di 0,77 chilometri quadrati. Un quartiere a forma di banana nella zona est di Roma, oltre il Grande raccordo anulare, dove vivrebbero circa 28mila persone. Un numero che torna spesso negli articoli che lo riguardano: la ragione più probabile è che il piano di zona che ha modellato questo pezzo di Roma prevedeva due milioni di metri cubi di cemento per edificare case destinate proprio a 28mila persone.

In realtà gli abitanti di Tor Bella Monaca potrebbero essere molti di meno, o comunque un dato preciso non c’è, e questo è il primo – e gigantesco – problema quando si vuole capire com’è fatta una città. Di recente il ricercatore Enrico Puccini ha provato a farsi un’idea della demografia, scorporando i dati dell’ultimo censimento in base al disegno del piano di zona: “Attraverso questo procedimento gli abitanti insediati risultano così 16.720, ben 12mila in meno rispetto alle previsioni di piano. Un dato che incide sulla densità complessiva del quartiere di 188 ettari: quella stimata dal piano era di 149 abitanti per ettaro mentre quella attuale è di 88”.

L’impressione che Tor Bella Monaca sia un quartiere molto popoloso è contrastata dalla percezione che sia un quartiere di molti pieni ma anche di molti vuoti: da una parte zona franca, dall’altra luogo ipercontrollato. Ma su questa percezione dello spazio torneremo alla fine.

Case popolari
Uno dei record certi che invece detiene Tor Bella Monaca è quello sulla concentrazione di case popolari. Tor Bella Monaca è il quartiere con la maggiore incidenza di patrimonio pubblico: 5.567 appartamenti su 6.753, l’82 per cento del totale, sono case popolari: quattromila del comune, 1.500 dell’Ater, l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica, ossia della regione Lazio. Potremmo dire che Tor Bella Monaca sia il quartiere più pubblico d’Italia. Lo seguono, per numero di abitanti e numero di alloggi, solo lo Zen di Palermo e San Basilio, sempre a Roma.

Raccontare l’assegnazione e la distribuzione delle case popolari nella capitale vuol dire assistere a una piccola guerra tra poveri: è un conflitto a basso voltaggio ma permanente, dove a scontrarsi sono le famiglie legittime assegnatarie, spesso non assistite dall’amministrazione, e quelle che per necessità occupano, anche loro chiaramente non assistite dall’amministrazione.

Tor Bella Monaca, Roma, agosto 2021. (Francesca Leonardi per Internazionale)

Questo conflitto produce un’illegalità amministrativa diffusissima e una situazione di tutela dei diritti molto intricata: chi occupa una casa perde automaticamente il diritto a una casa popolare, e costringe magari il legittimo assegnatario a fare altrettanto. Si creano così graduatorie formali e informali, manifestazioni di solidarietà e sostegno che si scontrano con altre manifestazioni di solidarietà e sostegno di segno opposto, le situazioni di povertà e di emergenza si moltiplicano e si alimentano a vicenda.

La città fai-da-te
Lo stesso meccanismo si ripete sugli esercizi commerciali dati in concessione dal pubblico: se per anni l’amministrazione non ha tutelato il patrimonio edilizio, normalizzare è poi complicatissimo, sanare spesso impossibile. Chi si vede assegnato un locale commerciale magari non ha il certificato di agibilità ma decide di aprire lo stesso l’attività.

In questo contesto l’informale e l’illegale si confondono, il tentativo di provare a organizzarsi dal basso con reti di coinquilini (sindacati, associazioni, centri sociali, “la città fai-da-te” come l’ha battezzata Carlo Cellamare in un libro che parte proprio dall’esempio di Tor Bella Monaca) si scontra spesso con quello delle reti di spacciatori che occupano spazi dallo statuto incerto – bar senza licenze, locali che dovevano essere riqualificati da anni – o lasciati in rovina, spesso spazi interstiziali: pianerottoli, androni condominiali…

I posti non sono solo di chi se li prende ma di chi è costretto a viverci, con episodi paradossali come persone che si vedono assegnare gli arresti domiciliari in appartamenti occupati. “È chiaro che se metti tutti i poveri tutti insieme crei una bomba”, mi dice uno dei commercianti del quartiere, che preferisce rimanere anonimo. Aveva un negozio di scarpe, non ce l’ha fatta, ha chiuso, ora ci sta riprovando con un punto ristoro. Mentre tutta Roma si riempie di enoteche e bistrot, hamburgerie e sushi bar, a Tor Bella Monaca lo sviluppo non esiste, e la gentrification è un problema di cui forse si parlerà nel 2080.

Tor Bella Monaca, Roma, agosto 2021. Manuela vive in un appartamento che è stato assegnato a lei e alla sua famiglia. (Francesca Leonardi per Internazionale)

La crisi economica invece è evidente nelle saracinesche abbassate dei negozi, nei cantieri dei palazzi lasciati a metà, negli spazi per i cartelloni pubblicitari lasciati vuoti. Tor Bella Monaca è un quartiere indubitabilmente povero: il 41 per cento delle famiglie vive in povertà assoluta (la media nazionale è intorno al 7 per cento), il 22 per cento ha un reddito pari a zero. La domanda più naturale è chiedersi come campano le persone.

In Sette Rome (Donzelli 2021), il libro di Salvatore Monni, Federico Tomassi e Keti Lelo, si vede come in tutto il sesto municipio, che comprende Tor Bella Monaca e Torre Angela, “la somma delle domande per i diversi tipi di sussidio (reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, Naspi, bonus covid) che a novembre 2020 risultavano accolte supera il numero di 20mila. Se si aggiungono le diecimila richieste autorizzate di cassa integrazione, si arriva all’erogazione di oltre 30mila provvidenze, su una popolazione tra 15 e 65 anni, pari a 73mila abitanti”.

Le crisi qui si sono sentite di più: sia nel 2001 sia nel 2008, e ora con la pandemia. Inoltre, il numero dei contagiati è il più alto di Roma. Possiamo rileggere alla luce di queste crisi anche la narrazione di Tor Bella Monaca come il quartiere del degrado e dello spaccio? Possiamo pensare che la criminalità sia la conseguenza o addirittura la forma di sopravvivenza per un contesto di difficoltà economica così drammatico?

Lo spaccio
Negli ultimi mesi, oltre la serie quasi quotidiana di arresti, ci sono state due grandi retate di spacciatori. Una il 27 aprile, con 51 arresti; un’altra il 4 maggio, con 21 arresti. Le famiglie coinvolte sono ovviamente centinaia. A passarci oggi, in via dell’Archeologia, nulla è cambiato dopo gli arresti: le vedette e i pali sotto le case sono sempre lì, le postazioni di spaccio sui pianerottoli rimangono le stesse. Cambia la manovalanza. “Mo’ ce so’ più stranieri, perché l’italiani se li so’ bevuti”.

A sfogliare gli articoli dei giornali sembra che ci sia una violenza endemica nel quartiere, ma a leggere le ordinanze del tribunale l’impressione è tutt’altra. I reati violenti sono rari, tutti nei confronti di chi sgarra. Lo spaccio è l’attività commerciale principale di Tor Bella Monaca: produce reddito e perfino welfare.

“Io non lo nego”, dice un altro ristoratore di zona. “Senza i soldi di chi spaccia avrei chiuso durante la pandemia. Il centro commerciale Le torri ha tante saracinesche abbassate, ma i negozi di abbigliamento con le firme reggono: possono contare sulla loro clientela per i beni di lusso”.

Tor Bella Monaca, Roma, agosto 2021. (Francesca Leonardi per Internazionale)

I soprannomi degli spacciatori sembrano quelli di un romanzo criminale ricco di immaginazione: Wilson, Dado, Il gemello, Zezze, Occhialetto, Il russo, Bruciafili, Pandoro. Mentre i cognomi delle persone arrestate sono spesso gli stessi: legami di famiglie conservati attraverso una sorta di mutualismo della criminalità. Avvocati pagati dallo spaccio, “reddito di continuità” per le famiglie di chi sta dentro.

Il testo delle ordinanze sembra, per molti versi, il trattamento di una stagione di The wire, la serie scritta da David Simon all’inizio degli anni duemila per raccontare il mondo dello spaccio a Baltimora. Sia in The wire sia a Tor Bella Monaca il centro della scena sono Le torri. L’economia modulare dello spaccio descritta perfettamente da Simon, per cui ogni isolato è un nodo di un’infrastruttura, non solo non viene messa in discussione dalle continue retate, ma è il modo in cui l’intero quartiero si adatta alla crisi economica. Spacciare, o almeno fare la vedetta, il palo o le “rette” (ossia tenere la sostanza in casa) è un mestiere per cui non serve formazione, che diventa quasi la scelta più semplice in un quartiere con tassi di disoccupazione anche tre volte più alti la media romana.

Welfare alternativo
Welfare: a usare quest’espressione non è solo qualche commerciante o qualche sociologo in vena di provocazioni, ma direttamente le forze dell’ordine. Il comandante dei carabinieri di Tor Bella Monaca, che con la sua squadra copre buona parte del sesto municipio, dice: “Lo spaccio qui è un welfare alternativo a tutti gli effetti. Un pusher prende 200-300 euro al giorno, un palo cento, quale azienda ti garantisce questi redditi?”.

La criminalità dello spaccio riesce paradossalmente perfino a contenere la violenza sociale. Gli altri reati sono abbastanza rari, i negozi non pagano il pizzo, le rapine sono mal viste dagli stessi spacciatori: sconvolgerebbero un equilibrio in cui la rapidità e la tranquillità del commercio di droga redistribuisce soldi per molti.

Intanto, il prodotto si è adattato alla richiesta. Vent’anni o trent’anni fa chi voleva farsi doveva sbattersi tutta la giornata per recuperare i soldi; oggi il costo di una dose varia da un centinaio a pochi euro, a seconda del tipo e della qualità della sostanza. In un reportage del 2018 Angelo Mastandrea seguiva la giornata di uno spacciatore a Tor Bella Monaca che somigliava più a un precario che a un travet. “Da droga per chi aveva i soldi la cocaina è diventata una droga per tutti”, mi dice un carabiniere che preferisce non rivelare il suo nome. “Ora l’eroina si è come ‘cocainizzata’, e questo ha fatto sì che tra chi si fa si va dall’imprenditore al disoccupato, dal sedicenne al vecchio tossico”. Una merce come un’altra.

Lo spaccio riguarda tutta l’infrastruttura sociale di Tor Bella Monaca: dalla produzione di ricchezza al welfare, dal lavoro alle forme dell’abitare. Qui le consegne a casa non sono un vizio che ci si concede, ma spesso una necessità. “Mi capita spesso di portare un ordine a qualcuno e vedo queste case incredibili dentro palazzi fatiscenti: televisori che sembrano schermi cinematografici, lusso ovunque”, mi dice un ragazzo che lavora per un bar che fa servizio di asporto. I destinatari delle consegne in molti casi sono detenuti ai domiciliari, non tutti ovviamente con appartamenti di lusso.

È difficile avere un numero preciso di quanti siano, ma le stime che si riescono a ricavare incrociando i dati delle forze dell’ordine indicano tra gli ottocento e i mille. Ossia, una persona su venti. “Una prigione diffusa a cielo aperto, un’intera comunità”, mi dice un altro carabiniere, il cui orario di lavoro è per la gran parte impiegato nel controllare questi detenuti: c’è chi non può comunicare con l’esterno, chi ha il permesso per le visite, chi è in semilibertà e chi deve firmare ogni sera in caserma.

Il ruolo della scuola
“Cosa vuol dire fare scuola a dei bambini con i genitori in carcere o ai domiciliari?”, chiedo ad Alessandra Scamardella, la preside dell’istituto comprensivo Melissa Bassi. La scuola elementare e media è praticamente l’unica presenza delle istituzioni, oltre il comando dei carabinieri. Il liceo Amaldi – un altro presidio – è leggermente decentrato rispetto al quartiere.

“Uno degli obiettivi fondamentali che cerchiamo di raggiungere è far capire ai ragazzi e ai bambini la differenza tra ciò che è dentro e ciò che è fuori”. Il confine tra un luogo dove le regole democratiche hanno valore e un contesto in cui la convivenza con la criminalità è naturale.

I dati che le cito rispondono perfettamente alla situazione di molti dei suoi studenti. L’idea di famiglie nucleari con i genitori che si occupano in un modo o nell’altro dei figli a Tor Bella Monaca si rivela molto astratta. Capita non di rado che almeno uno dei due genitori o entrambi siano detenuti, che i minori siano seguiti dai servizi sociali, che le famiglie siano di fatto allargate a nonni, zii, vicini, un parentado vario che cerca di tutelare l’infanzia e l’adolescenza. “Quante volte ci capita di seguire ragazzini che devono fare la classica telefonata settimanale al padre in carcere. Ovviamente sono spesso più fragili: crescono in fretta e sviluppano delle forme di adattamento e di resistenza maggiore. E spesso capita che anche il genitore rimanga solo”.

Tor Bella Monaca, Roma, agosto 2021. (Francesca Leonardi per Internazionale)

Scamardella parla della Melissa Bassi come di una scuola di frontiera, dove la dispersione scolastica alle medie può arrivare al 3 o 4 per cento (la media nazionale è dello 0,80), il che vuol dire che un alunno su venticinque non fa l’esame di terza media. E con la pandemia le cose sono ovviamente peggiorate: nonostante si sia fatta scuola sempre in presenza tranne due settimane, il numero dei ragazzini dispersi nel tempo è stato molto alto: “Abbiamo perso i contatti con alcune famiglie, è diventato difficile proprio rintracciarle, alcuni hanno l’istruzione a domicilio, l’homeschooling, e in molti non hanno potuto accedere allo scrutinio”.

La fatica degli insegnanti e degli educatori è strutturale. Nelle classi si moltiplicano le certificazioni di alunni con bisogni educativi speciali (Bes), spesso determinati da situazione di povertà educativa o anche materiale: il numero varia da tre fino a otto per classe. Oltre loro, molti hanno disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa): disgrafie, dislessie, discalculie, anche queste influenzate dai contesti familiari e ambientali, aggravate da diagnosi tardive e soprattutto dalla difficoltà di seguirle a casa.

“Qual è uno strumento che servirebbe alla scuola?”, chiedo a Scamardella. “Un maggiore presenza di figure specialistiche come logopedisti, psicologi, mediatori culturali, e una maggiore interazione con i docenti. In questi anni abbiamo già fatto molto sotto questo punto di vista”.

Questa città nella città è caratterizzata da una concentrazione esplosiva di disagio sociale e di giovani

Emiliano Sbaraglia è un insegnante che ha deciso di restare a Tor Bella Monaca a fare il suo lavoro: “Sono andato a scuola anche il giorno degli arresti a maggio, anche se era il mio giorno libero. Occorre una presenza doppia con questi studenti. Immaginati cosa vuol dire svegliarti a tredici anni e trovarti un elicottero che volteggia all’altezza della tua finestra, a cinque metri dal tuo letto”.

Da diversi anni Sbaraglia coordina un progetto che si chiama Fair play: una serie di incontri sui valori civici ispirati allo sport a cui poi seguono delle partite di calcio o pallavolo. “Si tratta di ascoltare i ragazzi e di allungare il più possibile il tempo che possono passare a scuola. È lo stesso che chiedo ai miei colleghi: di stare anche solo un’ora in più, perché può fare la differenza”.

Ci sono carenze ancora più organiche che riguardano l’infrastruttura scolastica di Tor Bella Monaca, e hanno a che fare con l’amministrazione della città. In un lungo articolo per l’associazione Roma ricerca Roma, Giulio Cederna fa un quadro desolante del sesto municipio, al cui centro c’è Tor Bella Monaca, mettendo in luce cosa ha prodotto il gigantesco deficit dell’amministrazione locale: “Il VI municipio è un caso interessante per chi voglia studiare i cortocircuiti della macchina capitolina. Più esteso di Firenze, una popolazione comparabile a quella di Verona (256mila abitanti)”.

Tor Bella Monaca, Roma, agosto 2021. (Francesca Leonardi per Internazionale)

Questa città nella città fatta di paesi in continua espansione “è caratterizzata da una concentrazione esplosiva di disagio sociale (il reddito medio delle famiglie è due volte e mezzo più basso di quello del comune) e di giovani: vanta l’età media più bassa (41,9 anni contro la media di 45,9) e la percentuale più elevata di minori 0-14enni (15,8 per cento contro una media del 13 per cento)”. Chi governa il tutto? “Una piccola centralina operativa dal raggio di azione limitato e una scarsa autonomia operativa”, scrive Cederna. “L’assessorato alla scuola, per esempio, ha competenza diretta sulle 21 scuole dell’infanzia comunali, ma deve preoccuparsi anche della manutenzione ordinaria e straordinaria di 35 scuole dell’infanzia statali e di ben 23 istituti comprensivi, per un totale di oltre 130 plessi scolastici. Alla progettazione e manutenzione di questo discreto patrimonio immobiliare è preposto un ufficio tecnico composto da due amministrativi e nove tecnici, che si deve occupare anche di tutte le altre strutture di pertinenza municipale (sedi, centri anziani, biblioteche, eccetera). L’evidente sotto-dimensionamento del personale è solo un corno del dilemma, forse neanche il più importante. L’altro è rappresentato dalla nota mancanza di autonomia operativa del municipio, privo di competenze effettive su urbanistica e patrimonio”.

A questo vuoto si aggiungono deficit generali e storici come la mancanza di un programma nazionale per le scuole di frontiera e un inadeguato sistema dei bandi, che penalizza le scuole dove le competenze progettuali sono più scarse. Ci vorrebbe una politica di lungo respiro, continua Cederna: “Se fossimo in Francia il ministero competente l’avrebbe inserita da tempo in un programma per zone ad alta priorità educativa (…), un programma che riconosce agli insegnanti di queste scuole una doppia indennità, prevede la compresenza in classe di più docenti, la selezione di dirigenti formati e equipe interdisciplinari (psicologi, assistenti sociali, infermieri), una ricca dotazione di attrezzature e dispositivi digitali, e più ore di ricevimento per coinvolgere le famiglie”.

Quest’ambizione è l’orizzonte del progetto di riqualificazione della stessa scuola Melissa Bassi, che la fondazione Bulgari ha presentato l’11 giugno al comune di Roma e che prevede due giardini didattici, uno per la scuola dell’infanzia e uno per gli altri cicli, per fare lezione all’aperto, al di là delle restrizioni del covid.

Intorno a questo progetto edilizio ce n’è uno più ampio, intitolato Cresco, che si muove proprio lungo tre assi: lavoro, scuola, occupazione (qui si può ascoltare un primo incontro di presentazione anche con il municipio sesto). La comunità coinvolta nel coprogettare intorno alla scuola questa rigenerazione urbana è stata messa in difficoltà dalla pandemia. Ma l’emergenza sanitaria non è l’unico ostacolo alla politica dal basso.

Secondo Piero Vereni, antropologo che insegna a Tor Vergata e anima da anni le attività educative e culturali dell’ex Fienile al centro di Tor Bella Monaca, quello che si impara dal quartiere può servire a capire il resto della città: “Da quando ho cominciato a lavorarci, sia come studioso sia come attivista, mi sono accorto che ciò che manca di più è un’educazione allo spazio condiviso. C’è la madre che magari ha una figlia in una classe complicata, ma si vanta: ‘Io mia figlia non l’ho mai mandata a casa delle compagne di classe’. Oppure c’è chi vive accanto a una piazza di spaccio, ma rivendica: ‘Io chiudo bene il portone di casa e sto a posto’”.

Nel saggio Il centro e la rete, contenuto nella miscellanea Periferia (Donzelli 2020), Vereni non solo descrive come centrale l’autoconfinamento che si verifica a Tor Bella Monaca, con lo spazio condiviso spezzettato in un’infinità di spazi privati; ma sostiene che questa pratica ha ormai generato “un’indisponibilità immaginativa di spazio comune”, sostituita da “una contrapposizione costante di spazio privato e spazio di nessuno, per cui alcune porzioni di spazio pubblico sono privatizzate nell’uso e alcune porzioni dello spazio personale subiscono la pressione espansiva del nulla pubblico, in una crescente contrapposizione tra norma domestica e caos pubblico”.

Gli anni di attività all’ex Fienile hanno mostrato quanto sia difficile evitare questo sentimento di “gelosia dello spazio” e aprire gli spazi alle comunità. Le iniziative di volontariato, i luoghi della politica dal basso, negli ultimi anni a Tor Bella Monaca si sono moltiplicati: tuttavia, dallo storico El Chentro a Cubo libro a Torpiùbella, la fragilità di questi presidi spesso fa sì che siano visti dagli stessi attivisti come fortini di resistenza in un quartiere non solo isolato dal resto della città, ma anche “spaccato in tronconi che non comunicano socialmente e fisicamente”, mi dice Vereni. Quando gli chiedo cosa ci vorrebbe per Tor Bella Monaca, mi risponde scherzando: “Un po’ di gentrification”. Poi torna serio: “Dovrebbe diventare un posto dove la gente va. A prendere una birra, a mangiare una sera fuori, a una festa di amici”. Un posto da scoprire, e non un luogo da dove scappare il prima possibile.

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