Se si apre Google maps su Roma nella modalità satellite e si ingrandisce al massimo, si può sorvolare dall’alto tutta la città e contare i piccoli rettangoli azzurri. Sono piscine all’aperto. Possono essere private, comunali, con accanto villoni, condomini o campi da tennis. In ogni caso non ci si può sbagliare, sono piscine. Io ho cominciato a contarle e sono arrivato a 43, poi ho smesso perché mi facevano male gli occhi.
Facevo la stessa cosa da bambino. Senza Google maps, che non esisteva. Prima di addormentarmi, per pensare a una cosa bella che mi facesse crollare, vedevo Roma dall’alto. Era luglio e mio padre per attenuare la mia noia mortale di un’estate senza villeggiatura, mi aveva promesso che il giorno dopo saremmo andati in piscina. E io con la forza dell’immaginazione la cercavo dall’alto, stessa inquadratura di quando eravamo tornati da Milano con l’aereo e ne avevo viste tantissime. Mi era sembrato di averle scoperte, smascherate. Perché le piscine dal basso non le vedi: si nascondono, stanno dietro ai cespugli, ai cancelli, tra una casa e l’altra. Ma dall’alto, è pieno.
E così oggi, una quarantina di anni dopo, mi preparo per fare il giro di Roma in più piscine possibili. Sette? Quindici? Metto nello zaino asciugamano, ciabatte, occhialetti, quaderno. Ho l’impressione che potrò smascherare qualcosa anche stavolta. Magari come sopravvivono i romani, compreso me, a queste giornate di caldo estremo. Ma anche come sopravvivono a molte altre cose.
Ne sa qualcosa il mio Liberty 125 che, come tante altre auto e moto, è sopravvissuto agli alberi che qualche mese fa cadevano come birilli per via dei temporali. Ottocento euro di danni. “Calamità naturale”, secondo l’ufficio giardini del comune, quindi niente rimborso.
Quadraro
Fortunatamente si accende subito e procedo verso la prima tappa: circolo sportivo Arca, Quadraro, al confine con Tor Pignattara, Roma est. Mi presento alle 9.30. Attraverso un parcheggio polveroso immerso nel verde, c’è la pubblicità del centro estivo, supero campi di calcetto e di tennis, alcune giostre per bambini e mi trovo davanti a una ragazza assonnata ma sorridente che mi spiega come funziona. Pago dieci euro di tessera e dodici di ingresso. Poi entro dicendo “Primo!”, ma subito dopo mi accorgo che ci sono già sette persone: una signora di mezza età con il costume nero, una madre con due bambini, un anziano che legge il giornale, una ragazza abbronzatissima con un tatuaggio a forma di spada.
Mi sdraio e chiudo gli occhi. In queste prime ore la piscina ha un fascino tutto suo. Siamo l’avanguardia della giornata, i primi a entrare in un altro mondo. Qui intorno, nel dopoguerra, era pieno di baracche, magazzini, sfasciacarrozze, fratte, case popolari. Alcune lo sono ancora, altre sono state trasformate in villette con giardino vendute a quasi tremila euro al metro quadro. Durante l’occupazione i nazisti lo chiamavano il “nido di vespe” per i tanti partigiani nascosti. Il Quadraro era la “borgata resistente”.
Ora ci sono un anziano che resiste al caldo, una madre che resiste alla chiusura delle scuole, una signora che resiste forse al marito, e una ragazza già abbronzatissima che non resiste e chatta come se non ci fosse un domani. Di vespe ne vedo solo una che caccio con la mano. “Così è peggio, devi restare fermo”, sento la voce di mia madre, cresciuta guarda caso proprio in queste zone.
Ma non è facile restare fermi, oggi, a Roma, con questa sensazione che ti stia venendo tutto addosso, che ti ostacolano, che ti fregano, che non ce la si fa più.
Non ci riesce, per esempio, la signora con il costume nero, che si alza e comincia a discutere con un fantasma che vede solo lei, se non ti accorgi dell’auricolare. È un’infermiera, si lamenta dei turni, responsabilità a persone sbagliate, sistema ospedaliero troppo vecchio. Me l’immagino in divisa, è perfetta. Ma così, mentre unisce la postura professionale alla fragilità, alle imperfezioni e a tutto ciò che c’è di involontario nel proprio corpo in costume, sembra buffissima.
Finita la conversazione, perdo anche io la mia battaglia e comincio a farmi paranoie su mio figlio di cinque anni che ieri ha avuto la febbre. Stamattina stava meglio, ma se gli torna?
Appia Antica
Alle 10.35 vado verso il circolo Acquasanta. Sono 15 minuti di motorino, ma bastano per incontrare tre file di cassonetti stracolmi. Montagne di immondizia che invadono anche pezzi di strada. Poi dall’Appia Nuova prendo una stradina quasi invisibile, che s’infila tra gli alberi, costeggia un campo da golf, e mi fa entrare stupito nella boscaglia ai margini del bellissimo parco dell’Appia Antica.
La ragazza all’accoglienza avrà 16 anni, sta chiacchierando con una signora sulla settantina. “In questo circolo veniva mio padre quando ero bambina”, dice la signora entusiasta. La ragazza ascolta gentile ma un po’ sbrigativa. Sono costretto a intervenire io, per darle un po’ di soddisfazione: “Ma davvero questo posto esiste da così tanto tempo?”.
L’ingresso giornaliero costa dodici euro, più due di iscrizione. È poco per un club quasi antico, con auto di una certa cilindrata nel parcheggio. Poi scopro che la piscina è sopraelevata. Hanno costruito un enorme soppalco dentro al campo di calcetto. Sali le scalette come su una piramide azteca e vedi tutt’intorno solo campi da gioco e vegetazione fittissima. Ma la vasca è piccola. Quando mi tuffo mi sento osservato. Ho l’impressione che si conoscano tutti. Due signori parlano di un amico che non vedono da tempo. Due ragazze si prestano la crema, una coppia ha finito la partita di tennis e raggiunge i figli adolescenti.
Mi asciugo al sole e sento il terremoto. È il prefabbricato che fa così, per via del vento o di chi sale la scala. È inquietante. Chiudo gli occhi qualche minuto. Ancora vibrazioni. Li riapro e ora queste famiglie, questi amici, queste coppiette mi danno l’idea di stringersi tra loro.
Tutto trema, tutto potrebbe crollare da un momento all’altro in questa città. Chissà con quanti progetti per il futuro sarà entrato qui il padre della signora che ho incontrato all’ingresso, chissà su cosa avrà fantasticato lei, sua figlia, dopo aver raccolto il testimone. La mia generazione questi sogni li ha visti al capolinea: è più povera rispetto alle precedenti e sembra destinata a restarlo. Tutto potrebbe crollare e allora bisogna stringersi.
Il finto terremoto, la piramide azteca e l’ansia per il futuro mi fanno venire voglia di sentire mio figlio. Telefono, la madre mi conferma che è scesa la febbre. Domani probabilmente possiamo partire per la nostra vacanza. Ci aggiorniamo dopo.
Roma sud
Vado via ma mi rimangono addosso il cloro e la voglia di trovare un rifugio. E allora faccio l’Appia Pignatelli, prendo via di Tor Carbone, costeggio acquedotti romani, catacombe, ruderi. Con le ciabatte sul motorino mi sento un antico romano di Roma sud.
Arrivo al centro sportivo Le magnolie alle 11.50, un’altra oasi miracolata. Entro e vedo in lontananza un bellissimo prato affollato di persone. Supero un ragazzo con tatuaggi colorati su tutto il corpo che gli fanno da mimetica. Poi una signora con il pareo. Quattro bambini orientali. Quindi un attore famoso di cui non voglio fare il nome. I clienti arrivano qui dai quartieri vicini, che hanno nomi come Prato Smeraldo, Fonte Meravigliosa, Rinnovamento.
Sdraiato sul prato mi sembra di stare in una minuscola Woodstock, dove però al posto delle canne le persone impugnano l’ultimo modello di smartphone. È incredibile l’impatto delle tecnologie. C’è qualcosa di emblematico nell’immagine dell’essere umano in mutande, sotto al sole, che guarda uno schermetto.
Mi tuffo e faccio il morto a galla. Ricordo che mia madre mi diceva che era più facile farlo in mare. Il sale ti tiene a galla. In piscina e al lago devi muoverti sempre un po’.
Eur
Viaggio con il costume bagnato, tanto comincia a fare caldissimo. Percorro via di Vigna Murata, entro all’Eur dalla Laurentina, proseguo su viale Europa.
Alla mia destra “la nuvola” di Fuksas, costata 467 milioni di euro in 18 anni di lavori. Inutili, se la cosa più visibile è una specie di spartitraffico orrendo lasciato lì da chissà quante settimane. Dall’altra parte della strada poi è tutto un cantiere perpetuo, l’acquario di Roma ancora da finire, sullo sfondo i vecchi grattacieli dei ministeri.
Quella delle Rose, accanto al laghetto dell’Eur, è la prima piscina “di massa” del mio giro. Alle 13.30 è l’ora di punta. Passo venti minuti a origliare i problemi personali delle persone in fila. Una ragazza è preoccupata per il fidanzato che non le dice con chi esce. Un gruppo di colleghi scherza nervosamente come se stesse in pausa pranzo. Una signora ha il nipote all’asilo, ogni tanto lo menano e la maestra non dice niente. Pago quattordici euro d’ingresso più sei euro di lettino, mi sdraio e sono già stanco.
I romani affollano tutti i lati della vasca. Arriviamo fin sopra gli spalti costruiti per le Olimpiadi di Roma del 1960. In questo momento vince chi riesce a divertirsi con questa musica dance troppo alta. E mi sembra che vincano tutti tranne me. Che non vedo l’ora di andare via. C’è troppa gente, non riesco a raccapezzarmi.
Dall’Eur all’Aurelia è un viaggio nel far west romano
Senza vestiti, senza auto, senza discorsi resi incomprensibili dalla musica, queste persone mi sembrano tutte appartenenti a un’unica famiglia animale. Professionisti, disoccupati, padri di famiglia, rapper, finti rapper, impiegati, palestrati, stranieri, tutti nudi e gomito a gomito, in un’intimità che solo la piscina può dargli. Non che qui si parlino, ma appena rivestiti terranno almeno un metro di distanza l’uno dall’altro. Tireranno fuori i distintivi. Andranno a mangiare in posti diversi, andranno in vacanza in posti diversi.
Gli unici che manterranno un po’ di coerenza saranno i bambini, guru delle piscine, coloro che detengono il segreto di queste acque. I più disinvolti, i protagonisti, gli unici che fanno amicizia. Ne vedo due che tirano una monetina e poi la vanno a prendere immergendosi sul fondo, come fosse un tesoro.
Io mi tuffo a bomba. Splash, schizzi dappertutto. Il bagnino mi fischia e fa no con il ditino. Scappo.
Verso l’Aurelia
In motorino penso tutto il tempo a quanto si sarebbe divertito mio figlio alla piscina delle Rose. Io no, lui sì. C’era pure un parco giochi con i gonfiabili, la piscinetta con le barchette che si scontrano.
Dall’Eur all’Aurelia (altezza Grande raccordo anulare), è un viaggio nel far west romano. E stavolta incontro almeno cinque file di cassonetti esondati. Arriva prima la puzza e poi il cassonetto, un po’ come il fulmine con il tuono. Siamo nelle ore più aride di questa estate pazza, il sole sul casco mi fa scoppiare la testa, i semafori sembrano infiniti. È qui che il romano se la prende con un altro romano che gli frena davanti, sbaglia freccia, parcheggia male. Sta per ucciderlo. L’altro romano sono io.
Giuro, vorrei tornare a casa ma sono nel punto più lontano della città. Sarebbe un viaggio ancora più lungo, un errore ancora più grosso. Ma è impossibile non sbagliare qualcosa in questa città, con queste temperature. E infatti telefono alla madre di mio figlio e le propongo: “Ma se passassi a prenderlo per portarlo alla piscina delle Rose?”. Mi manda a quel paese. Dice che sono il solito irresponsabile, ha avuto la febbre, che mi viene in mente?
Roma ovest
Dopo più di quaranta minuti arrivo davanti all’ingresso del Forum sport center, “non un semplice circolo sportivo, ma una vera e propria esperienza di vita”, dice il sito. Venti euro tutto compreso.
Un signore mi porta a visitare le due piscine al chiuso, quelle all’aperto, la sauna, il solarium, la palestra, il ristorante, il tennis… Bello ma sono ancora provato dal viaggio, dagli errori, dalle esperienze di vita passate. Vedo un bagnino che tocca l’acqua come a dire: “Hai sentito? Hai sentito che bell’acqua?”. Mi tuffo e mi sembra acqua normale. Acqua e basta.
Faccio due vasche e sono ancora più nervoso, arrabbiato. Forse è colpa di questa città difficilissima che ti fa vivere come se accelerassi verso il basso e non riuscissi a fermarti. Che ti fa togliere tempo alle cose più importanti, come se ci fosse una continua emergenza per qualcos’altro. Oppure è colpa mia. Per come sono fatto, per le scelte che ho fatto. Se domani non parto con mio figlio, quando mi ricapiterà di passarci una settimana di fila?
Flaminio
Le piscine sono come degli autogrill. Sono non luoghi. Sono tutte uguali. Tutte hanno un bagnino, una doccia, il cloro, lo spogliatoio e naturalmente l’acqua dove immergersi. L’acqua è sempre la stessa. Quella che cerchiamo da sempre, quella della placenta, quella da dove nessuno vuole uscire più. L’unico posto dove non si può entrare con il telefono.
Tra uno di questi autogrill e l’altro, costeggio il quartiere Primavalle, dove qualche settimana fa cinquecento poliziotti hanno sgomberato un’ex scuola dove vivevano 199 persone, tra cui un’ottantina di minori, senza dargli delle alternative. Altri gradi che innalzano la temperatura già altissima di questa città.
Mi ritrovo all’improvviso nei quartieri centrali. Via Cipro. Il Vaticano. Il lungotevere Flaminio. Mi fermo a un semaforo con decine di turisti sotto al sole. Vengono da tutto il mondo. Molti avranno visto le foto su Facebook dell’immondizia, dei gabbiani giganti, dei 16 autobus andati in fiamme dall’inizio dell’anno, come in un film con Sylvester Stallone o in un servizio su Baghdad. Eppure sono qui. Addirittura in aumento, secondo i dati del comune (smentiti dalla Cnn).
Arrivo al Csi Roma Flaminio quasi in dormiveglia. Pago 15 euro, più dieci per la tessera e cinque di deposito. Piuttosto caro. Qui le persone si rassodano l’abbronzatura tra una vacanza e l’altra. Lavorano tantissimo o le mantiene chi lavora tantissimo. Due professionisti sono talmente professionisti che stanno con il portatile all’ombra. Le persone leggono libri tipo La felicità del cactus o si avventurano in quelli di Elsa Morante. Le tavolette per reggersi a galla sembrano della Ferrari. Per entrare c’è un meccanismo di sicurezza rigidissimo: si deve passare un pass elettronico nel tornello. Se si esce, anche solo per un attimo, bisogna portarselo dietro.
Finalmente, dopo ore di sforzi, riesco a raggiungere l’obiettivo di tanti in piscina. Ci si butta in acqua. Ci si mette al sole e si sente freschetto. Poi si chiudono gli occhi. E si comincia a sentire i rumori, che sono sempre gli stessi, come l’acqua. Le voci intrecciate, le cicale, il vento sugli alberi. Gli schizzi, qualche tuffo. Le conversazioni della gente, che si sentono a pezzi, che non si capiscono del tutto, che si comincia a seguire ma a un certo punto si confondono con le voci di dentro, i ricordi, quello a cui si sta pensando. Un film visto l’altro ieri. Un amico che spiega il mutuo a tasso variabile. La pediatra di mio figlio che dice che i genitori separati sono “più spontanei” dei genitori che stanno insieme. Poi arriva una voce da fuori, il bagnino che dice che i lettini sono finiti. Un architetto che parla al telefono. Una voce da dentro, una voce da fuori, una da dentro, una da fuori. Finché ci si addormenta.
Pietralata
Quando mi sveglio sono le 18, tardissimo. Faccio il Muro torto, via Nomentana, via di Pietralata e seguo il fiume Aniene, anche se dalla strada è invisibile. Questa è un’ex zona industriale, ora piena di ristoranti, di club alla moda, ma anche di “All you can eat” a dieci euro.
Dentro al club Lanciani – dieci euro dalle 17 alle 19 – ci sono classi sociali di tutti i tipi, adolescenti intellettuali con i capelli blu, anziani con problemi vascolari, padri che insegnano a nuotare a due figli contemporaneamente e tante coppiette, davvero tante. Si infrattano negli angoli della vasca, come se lì non li vedesse nessuno e si fanno dichiarazioni d’amore o litigano per le vacanze. Due trentenni si sono fatti lo stesso tatuaggio sulla spalla: un gufetto. Buona fortuna.
Io ho quasi finito il mio giro e nonostante un fisico da intellettuale e le spalle ustionate, mi sento un lupo di piscina. Ne ho viste di cotte e di crude. Se chiudo gli occhi indovino il numero di corsie. Tu che lavoro fai? Lavori da casa? Dall’ufficio? Io dalla piscina. Passeggio e faccio l’occhiolino al bagnino, grande collaborazione. Assaggio l’acqua con il dito, forse troppo cloro ma ognuno ha i suoi gusti.
Poi telefono, mi faccio passare mio figlio e gli dico che sono stato in ben sette piscine. Lui mi chiede perché e io gli rispondo di aver trovato una mappa antichissima che indica un formidabile tesoro sul fondo di una piscina, ma che non dice quale. Roba da pirati. Lui mi svela che domani, per la nostra vacanza, ha preparato la valigia dei Pokemon.
Tor Pignattara
Sulla via del ritorno passo per via di Portonaccio. Qui nell’estate del 2017 hanno fatto più di 320mila multe per una corsia preferenziale messa all’improvviso e guarda caso segnalata malissimo. Io ne ho prese tre per un totale di 270 euro. L’ultima, giuro, l’ho presa mentre andavo sul posto a scoprire dove cavolo stava questa famosa segnaletica quasi invisibile. Conosco camerieri di locali vicini a questo posto che si sono giocati un mese di stipendio.
Ma anche questa è Roma e stiamo cercando di viverci. Forse come questi ultimi sopravvissuti, in piscina alle 18.24 a villa De Sanctis, nel quartiere di Tor Pignattara. Hanno paura di uscire e tornare lì fuori? Il comune dovrà sgomberare pure loro?
Siamo nel parco di un quartiere popolare, da qualche anno anche il più multietnico della città. C’è un indiano che fa un video per la fidanzata, una signora che rimprovera il figlio con troppe parolacce, una comitiva di giovanissimi marocchini con l’operatore culturale. Due ragazze del quartiere Pigneto che discutono se è giusto o meno condividere un video sui vibratori, aizzando decine di hater. Una coppia si stringe in acqua e sembra che faccia nuoto sincronizzato.
Riavvolgo il nastro e accanto a loro vedo i corpi nudi, goffi, sinceri di tutte le persone incontrate oggi. Rivedo i sorrisi di sollievo, le telefonate preoccupate, le rabbie e le delusioni nelle espressioni del viso, nelle conversazioni origliate e in quelle che non sono riuscito a capire. Rivedo un insieme di vite che cercano di rimanere a galla in una città che è un pezzo di loro e che sta diventando troppo pesante. Ce la faremo?
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