Una notte in un allevamento intensivo di polli
“Ciao, sei qui per la prova?”. “Sì”. “Hai la patente?”. “Sì”. “Allora guidi tu”. Sono quasi le otto di sera di un venerdì di fine gennaio e sto guidando un furgone a sette posti. Insieme a me ci sono tre ragazzi originari del Marocco e un nigeriano. Il silenzio è rotto solo dalla voce di Google maps che indica la strada. Da quando sono arrivato, le uniche parole che mi sono state rivolte sono quelle due domande pronunciate da un uomo sulla trentina al punto di ritrovo, un parcheggio in una zona industriale in Veneto. L’uomo non è salito con noi, si è limitato a dirmi che avrei guidato io e il posto dove eravamo diretti: un allevamento intensivo di polli. Devono essere caricati e portati al macello.
Tutto è cominciato undici ore prima. Alle 9 del mattino di una giornata d’inverno un mio contatto mi ha informato che un’azienda veneta era in cerca di operai per “carico pollame”. La ragazza che ha risposto al numero pubblicato nell’inserzione mi ha chiesto se ero interessato a fare una prova. Dopo un’ora mi ha inviato un messaggio e mi ha dato appuntamento per la sera stessa. Le ho chiesto solo come dovevo vestirmi. “Mettiti indumenti comodi e portati un cambio”, mi ha detto.
I polli sono gli animali più allevati in Italia: nell’ultimo anno ne sono stati macellati più di cinquecento milioni. Tra tutte, il Veneto è la regione con più allevamenti intensivi. Uno su tre si trova in queste campagne piatte popolate da capannoni industriali e aziende a conduzione familiare. Quello dove siamo diretti è uno dei tanti. Entrarci aiuta a capire cosa succede in luoghi come questi, e a tenerlo presente quando la carne di pollo arriva sulle nostre tavole.
Corso di formazione
Appena arrivati dobbiamo cambiarci. Lo facciamo in un magazzino senza riscaldamento e nemmeno una sedia, dentro fa freddo quanto fuori, la temperatura è già vicina allo zero. Ci sono dei sacchi vuoti che i ragazzi usano come tappetini. Appeso a un muro scrostato c’è un cartello con scritto: “Imballaggi contenenti residui di sostanze pericolose”. Esco e mi accorgo che ci sono anche due donne giovani. Erano a bordo dell’altro furgone partito con noi. Si sono cambiate in auto. Siamo nove: tutti molto giovani, io l’unico italiano.
Nell’attesa di cominciare gli altri risalgono nei furgoni per scaldarsi, mentre io rimango fuori con un ragazzo marocchino. Prima di arrivare ho indossato una telecamera nascosta. Gli chiedo cosa bisogna fare. In tono amichevole mi dice: “Quando entri nel capannone, io lo so perché anche a me è successo la prima volta, soffochi e vuoi uscire subito. Devi tenere duro”. Continuiamo a parlare e mi racconta che gli animali saranno venduti a uno dei più grandi e conosciuti marchi italiani, e aggiunge che la carne di questi polli non ha nessun sapore perché sono nutriti con mangimi che servono solo a farli ingrassare.
Non è del tutto corretto. È vero che i mangimi moderni sono iperproteici e carichi di amminoacidi, ma i polli di oggi che crescono così rapidamente sono il risultato di una profonda selezione genetica che ha portato alla creazione della razza broiler. I polli di questa razza ingrassano quattro volte più velocemente rispetto ai polli di settant’anni fa. Il ragazzo marocchino fa questo lavoro da tre anni, è pagato abbastanza bene, ma qui ognuno guadagna in modo diverso. Poi mi spiega che una volta dentro devo prendere quattro animali per le zampe, due per ogni mano, e metterli dentro alle gabbie, stando attento a non metterne troppi perché potrebbero soffocare. Infine, mi avvisa che l’indomani sicuramente non starò benissimo: lui dopo anni soffre di un forte dolore cronico alle braccia. Il corso di formazione è finito.
Dentro
Sono le 21.13, arriva il proprietario e con lui anche i camion con delle gabbie vuote. Seguo gli altri lavoratori verso il secondo degli otto capannoni dove sono allevati i polli. Dentro c’è un forte odore di ammoniaca, ma a nessuno è stata data una mascherina. Il capannone è buio, illuminato solo dalle torce che hanno portato alcuni lavoratori. Davanti a me c’è un tappeto bianco di migliaia di polli. Dopo pochi minuti, due grossi muletti guidati dal titolare e da un suo collaboratore – entrambi italiani – scaricano due gabbie davanti a noi. I ragazzi non perdono tempo, cominciano subito ad afferrare gli animali e a lanciarli dentro le gabbie. Cerco di fare come loro.
C’è molta confusione: i polli si dimenano e sbattono le ali, i ragazzi urlano il numero di animali caricati e i muletti sfrecciano avanti e indietro per recuperare le gabbie piene e scaricare, a pochi centimetri dai nostri piedi, quelle vuote. Nessuno ha le scarpe antinfortunistiche. I polli che carichiamo sono molto debilitati. Come gli altri allevati così, hanno difficoltà a muoversi e a respirare.
Inoltre, l’alimentazione a cui sono sottoposti li fa ingrassare velocemente, ma crea disturbi cardiaci come la sindrome della morte improvvisa o l’ascite, accumulo di liquido nell’addome generato da insufficienza cardiaca. Sono queste le principali cause di morte negli allevamenti. L’alta concentrazione di ammoniaca nell’aria che proviene dall’accumulo degli escrementi provoca inoltre problemi respiratori e dermatiti da contatto che possono trasformarsi in ulcere e infettarsi.
L’autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) afferma che circa il 30 per cento dei polli da carne allevati in modo intensivo ha problemi agli arti. In meno di un minuto quattro operai riescono a catturare cento polli e a chiuderli in una gabbia. Afferrano brutalmente gli animali sollevandoli da una sola zampa e li lanciano dentro le gabbie anche da un metro e mezzo di distanza. Quando il cassetto è pieno viene chiuso bruscamente pigiando a forza i polli. A questi ritmi frenetici è facile sbagliarsi e mettere dentro molti più animali di quelli previsti, con il rischio di soffocarli. Spesso i polli vengono schiacciati sotto la gabbia scaricata dal muletto.
Direttive e buone pratiche
Una direttiva europea obbliga i responsabili degli allevamenti a far fare ai lavoratori dei “corsi di formazione incentrati sugli aspetti relativi al benessere e alla protezione dei polli”, tra cui gli “aspetti pratici della manipolazione attenta del pollame, compresi la cattura, il carico e il trasporto”.
La Commissione europea ha stilato inoltre delle buone pratiche per caricare gli animali nelle gabbie. Dovrebbero essere presi in modo delicato e senza fretta, afferrati per entrambe le zampe con una mano mentre con l’altra gli si dovrebbe sostenere il petto.
“La raccolta manuale può causare lussazioni, fratture, emorragie e altre lesioni alle ossa e ai muscoli delle gambe”, dice un report commissionato nel 2009 dal ministro dell’agricoltura francese. “Il 31,5 per cento delle carcasse di pollo mostra lividi sulla schiena, sul torace, sulle gambe o sulle ali”. In dieci anni nulla è cambiato.
Straordinari
Mancano venti minuti all’una, abbiamo già svuotato un capannone e stiamo finendo il secondo. Dico a un mio collega che è quasi fatta e che fra un po’ torneremo a casa. Senza smettere di caricare mi risponde: “Dobbiamo farne quattro stasera, lavora così facciamo prima”. Mi avevano detto che avrei lavorato dalle nove di sera all’una di notte. Quando glielo dico si mette a ridere. Dopo quattro ore ci concedono una pausa. Abbiamo tutti la gola secca per la polvere respirata, siamo assetati ma nessuno ci porta da bere.
Seguo i ragazzi che si dirigono verso le auto. A metà strada uno di loro entra in un capannone ed esce con un tubo di gomma. Chi vuole può bagnarsi la bocca. L’acqua è gelata. Dopo dieci minuti si ricomincia. Una delle due ragazze però non ce la fa più e se ne torna in macchina. Gli altri continuano sempre più veloci per finire prima e ogni tanto qualcuno prende a calci gli animali. Alcuni li prendono in braccio, li stringono al petto, li baciano e poi all’improvviso li scaraventano per terra.
Alle 5 del mattino abbiamo svuotato anche il quarto capannone e riempito il dodicesimo camion. Abbiamo caricato 48mila polli in una notte. Quando usciamo la temperatura è scesa sotto lo zero, i ragazzi nello “spogliatoio” rimangono a torso nudo per cambiarsi i vestiti sudati e sporchi di escrementi. Saliamo in macchina, mi rifiuto di guidare perché sono stremato e senza voce, i colleghi mi dicono che è per colpa della polvere. Passiamo davanti al proprietario, nessuno si scambia un saluto. Torno a casa senza sapere se e quando sarò pagato.
Dopo tre giorni ricevo un messaggio, mi chiedono se ho intenzione di continuare il lavoro. Rispondo che non riuscirei a farlo tutti i giorni e chiedo se è possibile lavorare solo qualche giorno alla settimana. Non mi rispondono più.
Questo articolo è stato scritto da un attivista dell’associazione Essere animali, che ha lavorato sotto copertura.
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