La Via della seta porta a Pyongyang
Quando il 16 maggio scorso il presidente cinese Xi Jinping ha ricevuto una delegazione del Partito dei lavoratori di Corea – il partito unico nordcoreano – ha ricordato che l’amicizia tra Pechino e Pyongyang è “sigillata nel sangue”. Il sangue è quello dei 180mila soldati cinesi morti durante la guerra di Corea (numeri ufficiali), compreso Mao Anying, il figlio maggiore di Mao Zedong.
Per cinque anni Xi e Kim Jong-un si erano totalmente ignorati, poi si sono visti due volte nel giro di quaranta giorni (25-28 marzo e 7-8 maggio) nella girandola di incontri diplomatici a tutto campo che ci sono stati nei primi sei mesi del 2018.
Le circostanze sono cambiate, la Corea del Nord ha deciso di aprirsi e di avviare un percorso di riforme economiche dopo avere ultimato il suo programma nucleare; la Cina non aspettava altro. La sottolineatura di un legame esclusivo così radicato nella sofferenza comune è anche una promessa per il futuro.
Secondo Pechino lo sviluppo economico funziona meglio delle minacce militari
La chiave di questo rinnovato rapporto si chiama Belt and road initiative, la nuova Via della seta, quella formula ombrello sotto cui i cinesi tendono a mettere un po’ tutto. Pechino, secondo cui lo sviluppo economico funziona meglio delle minacce militari, cerca di riportare Pyongyang nel mondo, coinvolgendola nella rete di infrastrutture che reca la propria firma.
Già a settembre 2017, proprio nei giorni in cui il consiglio di sicurezza dell’Onu varava su istigazione Usa alcune delle sanzioni più dure nei confronti di Pyongyang, un articolo di Pepe Escobar su Asia Times metteva in risalto come una Trans-Korean Railway – appendice della Transiberiana – fosse nei progetti di Cina e Russia e seducesse anche il presidente sudcoreano Moon Jae-in. Sempre secondo Escobar, la cosiddetta “connettività eurasiatica” è il vero obiettivo della dichiarazione congiunta tra le due Coree del 27 aprile scorso – giorno dello storico incontro di Panmunjom – nonché lo strumento di seduzione per coinvolgere Kim Jong-un in un progetto di medio-lungo periodo che ne garantisca anche la sopravvivenza politica.
Chiamatelo “umorismo con caratteristiche cinesi”, ma all’indomani del summit di Singapore tra Kim Jong-un e Donald Trump, il quotidiano nazionalista cinese Global Times è uscito con un editoriale in cui dice sostanzialmente che l’inclusione della Corea del Nord nel progetto Belt and road voluto da Pechino, può portare benefici anche a quel “paese isolato” che è la Corea del Sud. Sì, avete letto bene, il paese isolato è la Corea del Sud; un isolamento non politico, ovviamente, bensì geografico. Basta guardare la cartina: finché la Corea del Nord non diventa aperta e percorribile, magari ad alta velocità, i sudcoreani stanno effettivamente in una specie di isola staccata dall’Eurasia.
La mia memoria corre a una visita fatta nel 2009 sul monte che si chiama Chang Bai Shan sul versante cinese e Paektu su quello nordcoreano. Con me c’era una coppia di Seoul che con una certa ironia mi indicò su una mappa il giro che aveva dovuto fare – mi pare di ricordare due scali aerei e cinque-sei ore di pullman – per arrivare in una località che in linea d’aria è distante sì e no 500 chilometri da casa loro. La Corea del Nord, stato paria e formalmente ancora nemico, si frapponeva tra loro e il continente.
Interconnettività asiatica, dunque, ma mentre ci si lavora bisogna tenere buona la Casa Bianca. Moon Jae-in, il sudcoreano, si è guadagnato nei giorni scorsi sul New York Times l’appellativo di miglior “affabulatore” di Trump. Quanto alla Cina, il ministro degli esteri Wang Yi si è affrettato a definire “storico” l’incontro tra Kim Jong-un e Donald Trump e a ribadire la necessità di “una completa denuclearizzazione” della penisola coreana per risolvere le tensioni regionali. Ha però anche buttato lì che per puntare a una pace definitiva è necessario dare assicurazioni alla Corea del Nord, che è “ragionevolmente” preoccupata. Fatto ancora più importante, Wang ha detto che la comunità internazionale dovrebbe a questo punto considerare la possibilità di revocare le sanzioni economiche a Pyongyang. Questa affermazione cinese significa che il consenso alla politica statunitense di “massima pressione” sulla Corea del Nord comincia a sgretolarsi.
Anche se ha aderito alle sanzioni Onu la Cina rappresenta oltre il 90 per cento del commercio estero nordcoreano ed è evidente che ampliandolo potrebbe rendere quasi nulle le misure degli altri. Si ritiene che Xi Jinping abbia promesso a Kim Jong-un proprio un allentamento delle sanzioni e ci sono segnali che negli ultimi mesi tale allentamento si sia già verificato. Il segretario di stato Usa Mike Pompeo, in visita a Pechino due giorni dopo il summit di Singapore, ha detto che la Cina si è impegnata a rispettare le sanzioni finché la Corea del Nord non completerà la denuclearizzazione, ma il Financial Times rivela che nel 2017 il deficit di Pyongyang con Pechino è cresciuto del 141 per cento. Le merci continuano insomma a filtrare, così come la valuta straniera necessaria per pagarle. Non è inoltre un mistero che proprio mentre Xi e Kim si incontravano nel porto cinese di Dalian, a maggio, una delegazione di alto livello del Partito dei lavoratori di Corea stava visitando i distretti industriali cinesi in un tour di 11 giorni incentrato sui trasporti ad alta tecnologia e sulle ultime scoperte scientifiche. Intanto a Pechino riaprono i ristoranti nordcoreani che avevano chiuso nei mesi scorsi.
Ma il segno più importante è come al solito il settore immobiliare. Dove c’è la strada, la ferrovia, il ponte, c’è anche il complesso abitativo, basta mettere il naso anche negli angoli più remoti della Cina per rendersene conto. Ebbene, secondo la Reuters, una piattaforma online cinese di investimento immobiliare – Uoolu.com – ha già pubblicato una guida per chi fosse interessato a investire nel mattone in Corea del Nord, mentre su WeChat – l’onnipresente servizio di messaggistica/social network – compaiono sempre più articoli sulle future occasioni immobiliari a nord del 38° parallelo.
Bisogna dire a questo punto che Trump non è uno stupido. A Singapore ha lasciato intendere di sapere benissimo che i cinesi applicano le sanzioni in modo molto disinvolto. Ma da buon palazzinaro ha soprattutto adocchiato il business nordcoreano e, in una dichiarazione epica durante la conferenza stampa post-summit, ne ha parlato come se si trattasse di una futura Florida: “Per esempio hanno grandi spiagge. Lo vedi ogni volta che sparano con i loro cannoni nell’oceano. Ho detto, ragazzo, guarda che vista. Non ci starebbe un bellissimo condominio? E gli ho spiegato, gli ho detto, sai, invece di fare quelle cose, potresti avere i migliori hotel del mondo proprio lì. Pensiamoci da una prospettiva immobiliare. Da una parte la Corea del Sud, dall’altra la Cina e loro hanno i terreni che stanno in mezzo. Mica male, eh? È grande”.
In attesa del boom futuro, i prezzi immobiliari sono già esplosi nella città cinese di Dandong, al confine con la Corea del Nord. Dalla visita a Pechino di Kim Jong-un di fine marzo, in alcuni complessi abitativi i valori sarebbero già cresciuti del 50 per cento. La zona sta diventando calda, appetibile.
Proprio a Dandong ci sono un museo dal nome improbabile – Memoriale della guerra di resistenza all’aggressione degli Stati Uniti e in aiuto alla Corea – e il Ponte dell’amicizia, un moncherino di metallo contorto, bombardato dall’aviazione Usa durante la guerra, che si interrompe a metà guado del fiume Yalu. Sono i simboli un po’ retorici di quell’amicizia “sigillata nel sangue” da cui siamo partiti. Di fianco al vecchio ponte, corre quello nuovo. Cioè un pezzo di “connettività eurasiatica”.